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Il virus dà scacco al neoliberismo?


31 Mar , 2020|
| Visioni

La crisi è il momento della verità. Non è il giudizio di Dio, il dies irae, ma consente il giudizio dell’uomo, la critica. La crisi e la critica fanno giustizia delle illusioni e delle pseudo-verità che da quarant’anni la cultura mainstream ha somministrato a due generazioni di uomini e donne. Non che la crisi faccia emergere una rocciosa verità alternativa che giaceva sommersa nelle paludi neoliberiste, nel sempre-uguale delle ortodossie. Semmai, rende visibili a tutti, ingigantendole, crepe, fratture,  contraddizioni, già strutturalmente presenti nel paradigma economico sociale e politico dominante, ma viste da pochi, e subite da molti come “naturali” o “accidentali” o “inevitabili”. La crisi mostra che le verità mainstream erano e sono interessate menzogne.

      La prima di queste  è che la sovranità sia il male, o il passato; mentre il bene, il presente e l’avvenire stanno nell’universale e nel globale (non sono la stessa cosa, ma lasciamo perdere). E invece, fintanto  che non si troveranno cure o vaccini (cioè interventi mirati sulla persona del singolo malato o interventi di massa sul “gregge” umano)  la sovranità è  l’unica risposta, in tutto il mondo, all’epidemia. Una risposta in termini spaziali,  di confini e confinamenti, a cui tutti gli Stati ricorrono; e  anche in termini di  guerra contro un nemico che si vuole tenere all’esterno, o bloccare se è già penetrato dentro la città. E il porre confini, e il fare la guerra, sono appunto opere della sovranità.

      D’accordo. Questa non è che una parziale strategia difensiva di rallentamento; il suo obiettivo è gestire un’aggressione, non permettere che i sistemi sanitari collassino per l’urto improvviso dei bisognosi di assistenza. Vero. Ma se ci fosse qualcosa di meglio  qualcuno  al mondo lo avrebbe trovato. E ciò non è avvenuto. Quando Boris Johnson, che da buon inglese dà una interpretazione non confinaria della sovranità, ha tentato una strategia di immunizzazione di gregge spontanea e quasi incontrollata è stato subissato da critiche probabilmente fondate.

     La sovranità è up to date. È la risorsa ultima della politica. Ma  è anche un’arma a doppio taglio. Da una parte, infatti, fissa e blocca, e così accresce la concentrazione e l’efficacia del potere politico,  la sua presa  sulla vita delle persone, riducendone la libertà, mutilando la “civile conversazione”. Dall’altra  tende  a regnare su una non-società, su un agglomerato disarticolato di individui solitari a cui vieta riunioni, assembramenti, raggruppamenti, prossimità. Insomma, la sovranità è “soluzione” perché pone confini dissolvendo la continuità globale dello spazio in cui si muove il virus, mentre al contempo scioglie i legami intermedi. Il suo effetto classico è che consente di sopravvivere al prezzo della qualità della vita: afferma zoe su bios. E poiché l’uomo è animale sociale, ciò provoca sofferenza. Nell’emergenza affiorano insomma i tratti più duri della sovranità, nella normalità non visibili ma da essa ineliminabili; e duro è infatti il prezzo  che stiamo  pagando.

     Questo effetto della sovranità emergenziale è l’amplificazione della dissoluzione dei legami sociali da tempo realizzata dal neoliberismo, nella forma della soppressione della sfera pubblico-sociale. Che oggi è estesa alla soppressione dei legami personali. Ma questo dissolvimento sovrano si giustifica – pretende di giustificarsi – in quanto sarebbe pur sempre in grado di preservare un embrione di ordine pubblico, di vincolo giudiziario, e sarebbe quindi in grado di impedire il caos parossistico derivante dalla soppressione di ogni legame, dal “si salvi chi può” totalmente anomico in cui precipitano, da Tucidide in poi, le pestilenze. 

     A questo punto si presentano due esigenze uguali e contrarie. La prima è che la sovranità sia almeno efficace. E qui si pongono questioni di efficienza del sistema politico, dell’apparato amministrativo, della Protezione civile, del sistema sanitario. Siamo alle solite: l’Italia è il paese degli atti di eroismo (ammirevoli), ma anche della disorganizzazione. I ritardi, i disguidi, le carenze, nella gestione dell’emergenza, le insufficienze nelle strutture sanitarie (e chissà che cosa succederebbe se l’epidemia si estendesse nel Meridione), l’incrociarsi di burocratismo e di pressapochismo, le lacune, le omissioni, le incertezze perfino sul numero dei contagiati e dei deceduti, sono sotto gli occhi di tutti.

     A sfatare un altro assunto del neoliberismo, inoltre, i tecnici, i competenti, gli esperti, hanno dato di sé una prova non buona.  Mentre gli operatori si sono prodigati, i ricercatori si sono divisi su temi essenziali, sulla base di animosità di scuola, o territoriali, o personali. Le loro previsioni si sono rivelate, agli inizi, del tutto inattendibili, oscillando fra catastrofismo  e sottovalutazione.

      Le altre componenti delle élites  – politici, industriali, intellettuali – hanno detto, e fatto,  tutto e il contrario di tutto: errori sono stati commessi tanto dai vertici della politica (i decreti resi pubblici anticipatamente) quanto dalle opposizioni (oscillanti fra il “tutto chiuso” e il “tutto aperto”), quanto dai cittadini (le migrazioni bibliche verso il Sud). La gestione della crisi ha avuto una declinazione regionale che ha generato confusione e disomogeneità, come confuso è stato il susseguirsi delle norme. Un Leviatano drammaticamente acciaccato e ansimante, quindi.

    La fiducia popolare non ha quindi motivo di indirizzarsi verso gli uni piuttosto che verso gli altri. Anche se un ritmo di maggiore efficienza è stato raggiunto alla fine di marzo, la speranza dei media mainstream che l’epidemia metta fine al populismo in virtù del buon comportamento delle élites è infondata. L’auctoritas – dello Stato, della scienza, della politica – non sta uscendo rafforzata dalla crisi. È la potestas a prevalere, per quanto può: ma le ribellioni nel Sud sono un pessimo segnale.

    La seconda esigenza  è che l’emergenza non si istituzionalizzi in uno “stato d’eccezione” permanente. Lo scavalcamento di fatto della mediazione parlamentare, lo strumento del Dpcm utilizzato in modo massiccio, il rapporto personale e unilaterale fra il Presidente del consiglio e i cittadini via Facebook, non sono segnali positivi. Ed è ambiguo il mantra “non è il momento di fare polemiche”. Infatti, se non si va a un  governo di unità nazionale, la dialettica politica (già semi-spenta) non può essere interrotta. Le idee e le proposte devono avere spazio: è una iattura, pur comprensibile, che siano state congelate elezioni e referendum.

    E, invece, di dialettica politica, e di elezioni, ci sarà presto bisogno. Il paese è chiamato a grandi scelte, per ripartire non solo a “guerra” finita – per quanto questa possa dolorosamente trascinarsi – ma anche prima, a breve. Una  di queste scelte è sulla Ue (che con l’euro ha dimostrato di coincidere) che, in piena coerenza con le proprie logiche e strutture, tenta di sferrare un altro  colpo alla nostra autonomia offrendoci come unica risorsa  economica il  Mes:  prestiti (pochi) in cambio della Troika e di una nuova austerità. Insomma, il trionfo degli oltranzisti nordici, che vedono nell’epidemia l’occasione per regolare i conti con l’Italia, come con la Grecia (di “purificazione” si è parlato, infatti).

     Non è accettabile, a questo riguardo, che europeisti ed euristi ora si strappino i capelli gridando al tradimento degli ideali europei. Quello che sta succedendo è del tutto coerente con i Trattati e le loro logiche – la moneta è unica, ma i suoi costi sociali sono affare dei singoli Stati; chi non si adegua deve essere punito e ricondotto all’ordine; la Germania non si farà mai carico di debiti altrui; il denaro non può essere stampato per esigenze politiche (mentre gli Usa dimostrano il contrario) -; nessuno può  credere o avere creduto che i patti fossero diversi, e che vi fossero ricomprese la solidarietà e la bontà d’animo. Non è la fine di un sogno. È l’evidenza di un errore dei “decisori” europei: non avere pensato politicamente ma solo  economicamente (e se ci sarà un parziale rimedio, sarà un gesto politico della Germania che deciderà di muovere verso un incontro con gli altri Stati – un incontro a mezza via, o dopo pochi centimetri? -).

       E ci sarà bisogno anche di riflettere sulle nostre alleanze internazionali. La (relativa) generosità russa e cinese, infatti, davanti all’avarizia europea e al sostanziale silenzio americano, sono segnali da decifrare e valutare. L’ordine (si fa per dire) della globalizzazione potrebbe uscire molto modificato dalla crisi. E anche in Europa, rotto a quanto sembra l’asse Franco-tedesco, potrebbe formarsi un nucleo “latino” (Francia, Italia, Spagna) a sfidare il Grande Nord e a rinegoziare i Trattati.

     Ci attendono insomma decisioni di prim’ordine. Se ci sembra che qualcosa debba essere cambiato delle politiche che ci hanno fatto sottofinanziare la Sanità per 37 miliardi in  dieci anni, che ci hanno fatto aderire al “vincolo esterno” dei Trattati europei, che ci hanno consegnato all’austerità e alla stagnazione, allora di sovranità avremo bisogno. Ossia di energie politiche e morali collettive (e anche di veri leader)  per l’impresa che ci attende: inventare una nuova normalità, rifondare il patto  della nostra democrazia.

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