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Dall’ homeschooling alla smart school: tra trend educativi e rischi di esclusione.


3 Apr , 2020|
| Visioni

I descolarizzatori

Homeschooling è un’espressione inglese che può tradursi in italiano come “istruzione domiciliare”. La sua caratteristica essenziale è che si svolge esclusivamente in ambito domestico. Sovente, ai genitori è attribuito il ruolo di docenti: in tal caso, l’homeschooling assume i connotati di parental education, l’istruzione parentale.

Quest’ultima rappresenta una pratica sociale antichissima: basti pensare alle donne che, in molte culture e per gran parte della storia, sono state educate e istruite tra le mura domestiche oppure all’abitudine, ancora diffusa durante l’età moderna tra i ceti nobiliari e le classi sociali più abbienti, di ricorrere all’istruzione familiare.

Homeschooling però può ritenersi un neologismo: l’utilizzo del termine si è diffuso infatti nel significato corrente solo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso insieme alle tesi relative alla descolarizzazione. Teorici come John Caldwell Holt, Ivan Illich ed Everett Reimer nel 1974 rivendicarono le loro posizioni in un provocatorio Manifesto dei descolarizzatori, che può essere sommariamente riassunto nei seguenti punti:

  • La frequenza scolastica, prolungata e obbligatoria per legge in un numero sempre maggiore di Paesi, è sostanzialmente inutile.
  • I contenuti della conoscenza devono essere assolutamente liberi, nessuno può imporre a nessun altro cosa sia meglio apprendere ed in che modo farlo.
  • I titoli di studio e le certificazioni vanno aboliti:  per esercitare una professione è piuttosto necessario un esame sulla personalità di un soggetto ed un giudizio che può essere fornito dai colleghi o dai clienti.
  • La capacità di insegnamento non può derivare da un certo percorso professionale: ciascun soggetto è tenuto a sperimentare l’efficacia di un metodo educativo piuttosto che di un altro.  Gli insegnanti non possono essere considerati delle figure professionali alla stregua delle altre.

La scuola quindi non assume, secondo i descolarizzatori, un qualche valore educativo particolare. Holt giunge a sostenere che “L’essere umano è un animale da apprendimento, ci piace imparare, noi siamo bravi a farlo, non è necessario mostrarci come farlo. Ciò che uccide il processo sono coloro che interferiscono con esso o tentano di regolamentarlo o controllarlo”. Inoltre, come argomenta nel testo The underachieving School, è fallace e ideologico ritenere che i saperi che la scuola trasmette possano rappresentare un fattore di inclusione o di mobilità sociale. Attraverso la tesi “dell’ingenuità di scala”, Holt tenta di dimostrare come invece sia la scuola ad alimentare il rischio di avallare le gerarchie sociali esistenti e che, al contempo, i processi di scolarizzazione di massa si traducano, nella realtà dei fatti, in meri esercizi di paternalismo da parte dei governi.

Le tesi dei descolarizzatori godettero di un certo successo, nel corso degli anni ‘70, e se da una parte supportarono l’idea della necessità di un cambiamento radicale dell’istituzione scolastica, nel senso di una sua democratizzazione, dall’altra incoraggiarono, in particolare in alcune aree del mondo e presso determinati ceti sociali – certamente i più benestanti – le pratiche di homeschooling. Queste ultime si sono progressivamente diffuse negli Stati Uniti d’America, dove nel corso degli anni ‘90 sono state riconosciute come legittime in quasi tutti gli Stati dell’Unione. Negli stessi anni, hanno trovato diffusione anche nei Paesi del Nord Europa, nella forma pura dell’homeschooling, oppure in una forma ibrida. Sono nate delle scuole “non autoritarie” che si caratterizzano per l’originalità dei metodi educativi che seguono: l’assoluta mancanza di valutazione dei risultati raggiunti dagli studenti e, soprattutto, la cogestione della didattica da parte di genitori, docenti e discenti (per esempio la Hall School e la Sand School in Inghilterra, la Frei Skole in Danimarca). In Italia per decenni l’homeschooling, pur pienamente legittima alla luce degli art. 30 e 33 della Costituzione, è stata una scelta piuttosto infrequente. Solo negli ultimissimi anni, in linea con il trend  europeo, le famiglie che hanno optato per questa scelta si sono moltiplicate, come testimonia la proliferazione di siti internet che documentano i vantaggi di questa pratica educativa, seguono gli utenti negli adempimenti legali che accompagnano la scelta dell’homeschooling, forniscono informazioni pratiche e materiale didattico (attraverso riferimenti a libri di testo, ma soprattutto a filmati da piattaforme come youtube ed a contenuti interattivi): insomma motivano i genitori-docenti nel portare avanti la loro scelta.

Homeschooling e neoliberalismo

Negli ultimi anni, insieme al crescente successo dell’ homeschooling, abbiamo assistito  anche ad un inedito ampiamento della platea a cui la pratica si rivolge. A partire dagli anni ‘70, gran parte delle famiglie che la sceglievano condivideva sommariamente le tesi dei descolarizzatori e quindi riteneva di dover sottrarre i figli ai meccanismi omologanti e violenti dell’educazione di massa (per inciso, si potrebbe obbiettare che così facendo, essi rischiavano di privare gli studenti anche di quella palestra di socializzazione che la scuola rappresenta). In altri casi, l’homeschooling rappresentava una mera opzione pratica. Le famiglie – poche in verità, essendo questa scelta notevolmente costosa –  vi ricorrevano prevalentemente per motivi di ordine religioso o logistico: perché, per esempio, soggiornando in un Paese solo per la durata di un anno scolastico,  preferivano che i figli continuassero ad utilizzare come punto di riferimento il percorso scolastico del Paese di provenienza in cui sarebbero tornati.

A queste categorie di famiglie, negli ultimi anni, se ne è aggiunta un’altra: coloro che scelgono l’homeschooling perché ritengono la scuola insufficiente nel fornire allo studente le competenze che la società e soprattutto il mondo del lavoro richiederanno loro. Ritengono che l’educazione domestica, proprio perché prerogativa di pochi – perché richiede non solo risorse economiche, ma anche conoscenze, competenze educative, tempo dei genitori, magari il supporto di tutor per le singole materie e infine luoghi adatti per “fare scuola a casa” – rappresenti una sorta di investimento per il  futuro dei figli, un modo per creare per loro una strada in discesa verso il successo professionale ed esistenziale. Le pratiche di homeschooling, quindi, presentate quarant’anni fa dai teorici della descolarizzazione come sovversive rispetto all’ordine costituito, per ironia della sorte, continuano in alcuni casi oggi ad essere quello che sono state per secoli: un vezzo delle classi più agiate, un modo di rimarcare la distanza rispetto ai ceti subalterni, la manifestazione di  rifiuto più radicale di quella “mescolanza” che si produce nelle scuole (soprattutto in quelle pubbliche ma, seppur in maniera notevolmente ridotta, anche in quelle private), insomma il massimo grado della scelta elitista in materia di istruzione. Non solo. Oggi l’homeschooling sembra presentarsi come lo strumento più confacente rispetto al modello educativo che il neoliberalismo impone. Se quest’ultimo attribuisce alla scuola e alle famiglie come compito prioritario quello di creare il “capitale umano” che il mercato richiede, stimolando negli alunni l’individualismo e la competitività che potranno renderli “imprenditori di se stessi” e attribuendo agli studenti solo quelle competenze che saranno prontamente spendibili nel mercato del lavoro, allora l’homeschooling non può che avere fortuna.

L’Homeschooling per tutti: l’emergenza covid 19 e la smart school

Homeschooling ultimo atto, potremmo dire. Il 5 marzo 2020 la scuola (come l’Università) ha sospeso le proprie attività in presenza a causa della diffusione del virus Covid 19. Il MI ha quasi subito indicato la necessità di proseguire la didattica con modalità di e-learning. E così, nel giro di pochi giorni, da fenomeno marginale, l’homeschooling è divenuto la regola in tutto il Paese, in una forma, quella della smart school, che rappresenta una forma di educazione domestica peculiare per una serie di motivi.

In primo luogo, non si tratta di una scelta libera. La modalità è stata di fatto imposta tanto agli insegnanti quanto ai genitori come una scelta quasi indiscutibile. E infatti le lamentele poste dai sindacati sulla presunta illegittimità del  provvedimento, (che minerebbe la libertà di insegnamento dei docenti) sono cadute nel vuoto. Perfino scelte quantomeno discutibili, come quella di affidare gran parte della didattica on line (con tutto ciò che ne consegue, compresa la gestione immane di dati personali che essa veicola) a colossi dell’informatica come Microsoft e Google è stata assunta in assenza di un adeguato coinvolgimento da parte dei rappresentanti delle componenti interessate. In secondo luogo, la scelta della smart school non può non tener conto degli effetti del digital divide. Esso si traduce non solo nella mancanza di apparecchiature elettroniche da parte di molti nuclei familiari – che lo Stato sta tentando di colmare attraverso il comodato d’uso di devices – e nella mancanza di connessioni veloci in zone ancora troppo vaste del territorio nazionale, ma, soprattutto, nella mancanza di competenze digitali certificate da parte della classe docente e delle famiglie. Gli insegnanti non sempre sono stati formati per gestire la didattica a distanza, né è detto che di competenze digitali dispongano tutte le famiglie o gli stessi studenti. La smart school  sta tutto sommato funzionando finora (e questo è un bene) ma essa si regge, al momento – è meglio ricordarlo – in buona parte sul senso di responsabilità e sull’inventiva dimostrata dalle parti a cui è stata imposta: docenti, studenti, genitori. Sappiamo bene che si tratta di un equilibrio precario, che oltretutto vede alcuni soggetti lottare su più fronti (per esempio genitori che si destreggiano come possono tra la didattica on line, lavoro di cura e magari smartworking) e rischia di danneggiare gli studenti appartenenti ai nuclei sociali più svantaggiati, per i quali la didattica finirà per risultare “a distanza” da tutti i punti di vista.

E tanto più aumenteranno nelle prossime settimane le pretese verso la didattica on line – ovvero si chiederà ad essa non solamente di tenere in vita la comunità scolastica, in attesa di potersi rivedere nelle aule scolastiche, ma di farsi “scuola vera e propria”, per esempio concludendo i programmi scolastici, e procedendo alle valutazioni degli alunni come se nulla quest’anno fosse successo – tanto più aumenteranno i rischi di esclusione sociale per gli studenti appartenenti alle classi sociali più deboli e di un allargamento ulteriore della forbice della diseguaglianza.

Quando lo stato di emergenza in cui la diffusione del virus ci ha condotto sarà alle nostre spalle, sarà allora necessario ed urgente riprendere una riflessione critica sui profili della smart school. In primo luogo, per verificare cosa essa abbia prodotto: non solo in termini di svolgimento dei programmi scolastici, ma anche di costi umani e sociali: l’eventuale aumento delle disparità tra gli studenti, la frustrazione e l’insoddisfazione che ha provocato per le parti coinvolte. In secondo luogo, per valutarne le potenzialità. Non credo sia possibile che, neppure in futuro, la smart school possa sostituire la didattica tradizionale, se non a costo di produrre l’effetto distopico di trasformare la scuola pubblica in un enorme apparato di servizi funzionale all’ homeschooling, e di assistere alla fine della scuola come comunità incarnata, reale, luogo di mescolanza tra soggetti che provengono da mondi differenti. Se e come sia possibile, invece, in futuro, che le pratiche di smart school possano integrarsi con  la didattica in presenza è forse presto per dirlo. Per fornire una risposta ragionevole al quesito,  in tempi normali, rispettando l’autonomia scolastica sarà in primo luogo necessario ascoltare accuratamente le parti coinvolte: docenti in primo luogo, ma anche studenti e famiglie. Certamente in nome del progresso tecnologico, non si potrà ledere il diritto allo studio di alcun soggetto, soprattutto di quelli più svantaggiati. Non si potrà dimenticare che la scuola rimane, ancora oggi, il luogo di inclusione sociale per eccellenza, e, come amava ripetere John Dewey, l’arma più efficace per abbattere compiutamente il “dogma feudale della predestinazione sociale”.

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