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Ricordo di Alberto Arbasino
Il 23 marzo 2020 è morto Alberto Arbasino, aveva 90 anni. E la cultura italiana perde un grande scrittore che ha saputo cogliere e rappresentare, più di chiunque altro, le trasformazioni della società italiana. “Arbasino è stato uno scrittore di grandi qualità e creatività, un romanziere innovatore, un uomo di cultura poliedrico, tra i motori del Gruppo 63”, ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha aggiunto tra l’altro, “E con passione civile è stato giornalista cercando sempre nella modernità strumenti utili alla narrazione e alla comprensione dei mutamenti, sociali e di costume. L’Italia si è arricchita del suo talento, e la cultura ne farà tesoro”.
Arbasino inizia la sua attività di scrittore tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta in maniera molto originale, abbattendo gli steccati stilistici e formali che delimitavano la scrittura letteraria da quella saggistica così che la sua narrativa diventa critica del costume, denuncia e parodia in una inedita commistione di stili e linguaggi.
La sua critica e la sua feroce parodia, presenti in tutte le sue opere, hanno un ruolo importanissimo in quegli anni nel processo di sprovincializzazione della cultura italiana.
La sua diagnosi è impietosa: dopo Manzoni e Leopardi, la classe agiata italiana non ha più avuto niente in comune con la buona letteratura, “per bene che andasse, l’Imaginifico: i lussi dei paesi poveri”. Dietro la grande letteratura europea c’è una società “illuminata”, “che paga le imposte, legge libri, vive con dignità in case non volgari”; in Italia predomina l’ideologia piccolo-borghese “che rimane attaccata alla prosa e alla poesia come la puzza di una cucina senz’aria negli abiti”. E non è il caso di continuare a dare la colpa di tutto al fascismo: bastava fare, anche durante il regime, la ormai “famosa, noiosa, utilissima Gita a Chiasso”.
La “Gita a Chiasso” è la felice metafora apparsa la prima volta in un articolo dello scrittore su “Il Giorno” di Milano del 1963 e poi rielaborata in varie occasioni: “Ma bastava arrivare fino alla stanga della dogana, due ore di bicicletta da Milano, e pregare un buon contrabbandiere di fare un salto alla vicina drogheria Bernasconi e comprare, oltre a un paio di pacchetti di Camel e ai Manoscritti di Marx e al Tractatus di Wittgenstein e a un Toblerone per la povera zia a Roma o a Eboli, anche un po’ di narrativa di Forster, della Compton-Burnett, di Waugh, di Henry Green e magari le cose più importanti di Husserl e Leavis e Bachelard e Scheler e Wilson e Connolly e Leiris e Auden e Heidegger, tutte già pubblicate allora, e lì pronte, fin dagli anni Trenta”.
Quest’aria nuova la troviamo anche nei testi più specificamente narrativi.
Nel 1959 pubblica L’anonimo lombardo , un romanzo che destruttura i modelli tradizionali fondendo vari generi, dalla narrativa alla saggistica alla cronaca al melodramma alla commedia alla satira, con divertenti note a piè pagina che trasformano l’opera in un metaromanzo . I protagonisti sono due giovanotti omosessuali che si danno a giochi erotici senza nessun problema. La storia dei due giovani, dopo i primi entusiasmi,soprattutto sessuali, subisce “la sorte comune di tutte le relazioni (oltre che di tutti gli Imperi), declino caduta e fine”. L’omosessualità è così rappresentata con una disinvoltura fino ad allora impensabile in Italia dove su questo tema o c’era il silenzio o un clima di proibito, di colpevolezza o di maledizione. Nel superamento dei pregiudizi legati alla sessualità e soprattutto all’omosessualità Arbasino, anche lui omosessuale, ha sempre portato avanti uno straordinario slancio liberatorio, anche se ha scelto di essere sempre lontano dal movimento di liberazione gay.
Nei primi anni Sessanta è corrispondente da Londra per “Il Mondo” dove racconta i suoi incontri con grandi scrittori ancora poco noti o del tutto sconosciuti in Italia e dove trova pure il modo di citare “il bestseller porno-picaresco della stagione” , un classico dell’immaginario gay, allora del tutto sconosciuto da noi, City of Night di John Rechy del 1963. Questo libro è stato tradotto in Italia nel 1996. E questo dà l’idea di quanto Arbasino fosse avanti e di come precorresse i tempi.
Non amava parlare della sua omosessualità, che praticava spensieratamente e esibiva in quello che scriveva in maniera inedita e spregiudicata. Si pensi al romanzo Super-Eliogabalo del 1969, un divertissement postmoderno tutto gay dove più che negli altri romanzi segue il principio del “chi più ne ha più ne metta” e dove sono stravolti tutti i luoghi comuni.
Il suo romanzo più importante, e giustamente il più noto, è Fratelli d’Italia pubblicato nel 1963, riscritto per una nuova edizione nel 1976 e ancora una volta per una terza edizione nel 1993 secondo il “principio generale ( manzoniano e gaddiano) per cui non esiste mai, tutto sommato, la versione definitiva di un testo, bensì numerose versioni possibili che si modificano ad ogni rilettura”.
Fratelli d’Italia è un romanzo-saggio o romanzo-conversazione che segna un momento di svolta nella cultura italiana. Le interminabili conversazioni sul cinema, sulla musica, sull’arte, su come scrivere un romanzo, insieme alle illusioni e alle contraddizioni degli anni Sessanta, diventano il tema del romanzo e i personaggi, snob colti e raffinati, e naturalmente gay, trovano pure il tempo, tra un concerto, un’inaugurazione e un festival, di fare un salto in qualche cespuglio a fare delle “choses” con esemplari del luogo, possibilmente ben dotati. Anche nella saggistica vera e propria e nel giornalismo Arbasino si è mosso con eleganza e raffinatezza e in maniera apparentemente frivola e scanzonata ha contribuito a scardinare tabù, pregiudizi e luoghi comuni con una critica sociale che non ha risparmiato nessun ceto, nessuna ideologia, nessun genere.
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