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I Complici del Covid-19


4 Apr , 2020|
| Visioni

Era il 10 di gennaio quando il Ministro Bellanova, una sindacalista, affermava che il ripristino dell’art.18 ci avrebbe fatto precipitare nel secolo scorso. Le sue dichiarazioni facevano eco a quelle di un’altra importante sindacalista italiana, Annamaria Furlan, che il giorno prima aveva affermato più o meno la stessa cosa, sottolineando come quella sull’art.18 fosse una discussione appunto superata e come una normativa in materia di reintegra non avrebbe salvato i tanti lavoratori coinvolti da crisi aziendali.

Giorni lontani da quelli che viviamo, lo spettro del Covid-19 non si era ancora affacciato sulla penisola e ci si poteva permettere qualche esternazione completamente priva di raziocinio. E poi arriva la storia e ti costringe a fare i conti con la realtà e tutte barzellette inevitabilmente crollano dinanzi all’ineluttabilità di una crisi che spaventa, giustamente terrorizza, gli italiani e il mondo del lavoro.

Che i diritti individuali dei lavoratori rivestano un ruolo essenziale in un paese civile è un dato di fatto e tutto sommato diversamente non si spiegherebbe quanto previsto all’art. 46 del decreto legge numero 18 di quest’anno, il Cura Italia, che vieta i licenziamenti economici per sessanta giorni: l’introduzione della norma si è resa assolutamente necessaria dalla ormai quasi totale assenza di tutele reali in capo al lavoratore in caso di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo o collettivo dichiarati successivamente illegittimi.

E basterebbe guardare a quanto sta accadendo negli Stati Uniti: oltre 6 milioni di nuovi disoccupati solo nell’ultima settimana. Se questo è ciò che si può definire progresso per le sindacaliste citate, forse è preferibile tornare al buio del secolo scorso.

Il fatto è che il Covid-19 piomba addosso a una classe lavoratrice già drammaticamente saccheggiata e indebolita da una pletora di interventi normativi che negli ultimi trent’anni hanno inesorabilmente relegato i lavoratori e il lavoro a un ruolo di inevitabile subalternità: insomma, si è passati dalla Repubblica fondata sul lavoro, a una Repubblica fondata sulla schiavitù.

Era il 2014 e Maurizio Landini parlava di sopraggiunti “mercificazione del diritto del lavoro”, “mobbing legalizzato”, “legalizzazione della precarietà”, “nuova schiavitù”. Aveva ragione e, soprattutto, faceva riferimento a un impianto normativo che è esattamente lo stesso oggi vigente nel nostro ordinamento. E qualcuno potrebbe dunque polemizzare circa il fatto che ora, un Landini seduto su di una poltrona decisamente più autorevole di quella del 2014, abbia assunto toni nettamente più remissivi: sarebbe nel giusto, ma questo è un altro discorso.

La citazione del fu Segretario Generale della Fiom ci serve per tratteggiare i contorni circa lo stato nel quale i lavoratori versavano e versano e su quella che è la situazione sulla quale è precipitata la falce del Coronavirus: il contesto era già decisamente compromesso.

Il contesto era decisamente compromesso dall’erosione drammatica dei diritti civili del lavoro e dalla conseguente impossibilità di esercizio dei diritti politici del lavoro. In un qualsiasi ambiente di lavoro, possiamo provare a immaginare la fabbrica quale ordinamento autonomo, l’esercizio dei diritti sindacali (in senso lato politici) è possibile solo laddove venga garantito un nocciolo duro di presidi a difesa dalla ritorsione del datore di lavoro, del principe di turno. È in tale dinamica che si è da sempre cementato il rapporto nel nostro Paese tra lavoro e democrazia: i lavoratori hanno da sempre svolto un ruolo centrale e tale ruolo è esercitabile solo in un contesto di tutele eque per i lavoratori chiamati a concorrere all’affermazione dell’anima democratica dell’Italia.

Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito ad un feroce attacco e a un impietoso sciacallaggio dei diritti civili del lavoro, in favore dell’affermazione della precarietà del lavoro e nel lavoro.

La precarietà del lavoro è fiorita con la proliferazione dell’atipicità nei contratti di lavoro: da una iniziale assoluta supremazia del contratto di lavoro a tempo indeterminato, con residuale e ben motivato ricorso all’atipicità, si è pian piano giunti (a partire dagli anni ’90 in poi, col noto Pacchetto Treu) alla liberalizzazione totale del ricorso ai contratti precari. Ebbene, un lavoratore privo della certezza della durata del proprio rapporto di lavoro, costantemente sottoposto alla spada di Damocle del rinnovo contrattuale, sarà libero di esercitare i propri diritti politici in azienda e fuori di essa?

La stessa cosa è accaduta sul fronte della precarietà nel lavoro. Per indebolire il lavoratore, per sottoporlo a pieno rischio di indebita (divenuta tristemente debita) ritorsione, si è provveduto ad abolire pressoché totalmente il diritto di reintegra in caso di licenziamento illegittimo: ci ha pensato la Legge Fornero nel 2012 e il Jobs Act nel 2015. Se ciò non bastasse, in quest’ultima riforma si è previsto un deciso allentamento nel divieto di esercizio di controllo a distanza del lavoratore e una totale liberalizzazione del demansionamento.

Alla precedente domanda, dunque, occorre aggiungerne un’altra: un lavoratore consapevole di essere sottoponibile a controllo a distanza, peraltro senza sapere quando tale violenza sarà perpetrata, consapevole circa la possibilità riservata al datore di lavoro di demansionarlo arbitrariamente e consapevole dell’impossibilità di vedersi riconosciuta la reintegrazione sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, sarà libero di esercitare i diritti politici del lavoro?

Occorre tuttavia chiarire bene che non siamo difronte a un mero esercizio retorico e a una eventualità puramente astratta: questa condizione di partenza ha delle conseguenze concrete e devastanti nella vita delle persone.

Quando si fa riferimento ai diritti politici del lavoro, non si rimanda necessariamente alla costituzione di una organizzazione sindacale, all’indizione di un’assemblea o alla proclamazione di uno sciopero. Dobbiamo pensare a cose più semplici, immediate, prossime, probabili: ad ogni possibile forma di resistenza all’ingiustizia. Nel nostro Paese è prassi la mancata retribuzione dello straordinario, ad esempio assai comune nel mondo impiegatizio privato: siamo in presenza di una dinamica certamente paradossale, ma tanto comune e diffusa da non destare più sorpresa. È il nuovo costume: lavoratrici e lavoratori che scientemente scelgono di rinunciare a un diritto costituzionale quale la retribuzione. Come pure si lavora in malattia, si rinuncia alle ferie, capita che si restituisca in contanti parte della retribuzione indicata in busta paga, che si accetti di lavorare senza il rispetto delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che si lavori con un contratto di formazione (lo stage è ormai considerato il primo step necessario ad entrare in azienda: un primo bagno d’ingiustizia per comprendere come vanno le cose, una sorta ius primae noctis della precarietà), di firmare le dimissioni in bianco il primo giorno di servizio, di rinunciare alla disconnessione e chi più ne ha più ne metta: mai come in questo caso il solo limite è dettato dai confini dell’immaginazione e della fantasia.

Tutto questo evidentemente accade perché ogni forma di resistenza all’ingiustizia, ogni rivendicazione, altro non è che l’esercizio di un diritto politico del lavoro e questo fisiologicamente non si esercita se non v’è riconoscimento dei diritti civili del lavoro: quale padre rischierebbe con la lotta di perdere i mezzi necessari alla sua sopravvivenza e a quella dei suoi cari, nella consapevolezza quindi di mettere in pericolo il futuro della propria famiglia?

È su questo contesto che è piombato, come si diceva, il Covid-19: una pestilenza propagatasi tra gli ultimi, tra i dimenticati, tra i disagiati, tra coloro i quali non disponevano di mezzi necessari a tutelarsi. Le dinamiche descritte hanno trovato cittadinanza anche in questa parentesi: è accaduto che in alcune aziende, all’inizio della pandemia, i dipendenti addetti al contatto col pubblico subissero rassegnati il divieto di indossare la mascherina per non compromettere l’immagine aziendale; è accaduto che molti lavoratori accettassero di affollare i mezzi pubblici ogni mattina per raggiungere i luoghi di lavoro, nonostante i rischi per la propria salute e per quella dei propri cari; è accaduto che tante persone abbiano accettato di prestare la propria opera in luoghi assolutamente non sicuri e privi degli strumenti necessari a proteggere se stessi e il prossimo.

E tutto questo è accaduto all’insegna della triste rassegnazione tipica di colui il quale non dispone di diritti reali da esercitare in propria tutela e alla ricerca delle giuste rivendicazioni.

A nulla sono valsi gli interventi governativi: il tardivo riconoscimento della malattia ai dipendenti (agli autonomi nulla!) costretti alla quarantena, così tardivo da indurre chi non poteva rinunciare allo stipendio a dissimulare i sintomi o a sottovalutarli; i 100 euro riconosciuti ai dipendenti che nel mese di marzo si siano fisicamente recati in azienda, in luoghi dichiarati sicuri e che quindi non giustificavano un aumento (risibile) della retribuzione; i 600 euro riservati alle partite iva, a condizione che fossero iscritte alla gestione separata dell’INPS, lasciando escluso un esercito di lavoratori in difficoltà.

Il Covid-19 ha messo in ginocchio il Paese, ma non è un caso il fatto che abbia mietuto così tante vittime proprio al nord: è stato aiutato da una scelta economica precisa e netta. Si doveva scegliere tra il profitto e la vita degli ultimi ed è stato scelto il profitto. In questa grande Taranto in quarantena, la vita dei più deboli valeva meno rispetto al profitto di qualcuno e, mediante l’erosione di quei diritti che per parte del mondo sindacale italiano rappresentano roba del secolo scorso, si è reso possibile piegare il lavoro, costringerlo ancora all’obbedienza e, dopo averlo forzato alla rinuncia alla lotta, si è ottenuta la rinuncia alla vita. 

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