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Revenge Porn: viaggio fra privacy, libertà e dignità
Un’analisi del fin troppo sviluppato fenomeno, in rapporto alla libertà individuale e alla sfera privata
In questi giorni di quarantena abbiamo avuto modo di leggere le più disparate notizie, fra giornali e home di social network piene di titoli accattivanti. E fra ricette di torte rustiche e gattini, a molti è saltato all’occhio (o quasi allo stomaco) l’articolo scritto da Simone Fontana per Weird che tratta la delicata e rivoltante questione del revenge porn attraverso gruppi chat di Telegram. Ovviamente, insieme all’articolo sono usciti i più disparati commenti e pensieri a riguardo.
Vorrei però fare un’analisi un po’ più profonda della situazione.
L’articolo ha portato alla luce una situazione che con un eufemismo definirei raccapricciante, ma di certo non nuova. Gruppi Telegram (quelli presi in analisi), il cui nome viene censurato nell’articolo, in cui PER LO PIU’ uomini scambiano messaggi “vendendo” dati personali, fotografie, video che riguardano donne a loro vicini come una forma di vendetta. Parliamo di ex, amiche o addirittura figlie.
In questo caso penso sia semplicemente riduttivo parlare di “uomini cattivi”, o di “femminismo”. L’analisi credo debba essere un po’ più approfondita. Ometterò da questa analisi qualsiasi commento che ho già letto di cui riporto alcuni esempi, così da chiarirvi la direzione che sto prendendo. Non terrò conto di “vabbè ma sono coglioni”, “eh ma per arrivare a questo chissà che gli hanno fatto”, “eh però se pubblichi/mandi foto nuda che ti aspetti”.
Proseguendo, vorrei riflettere, e se volete farlo con me ne sarò solamente molto felice, su quanto noi inevitabilmente e il più delle volte inconsciamente viviamo una doppia vita. Una è la nostra vita quotidiana, in cui (quarantena ed isolamento da pandemia esclusi) ci svegliamo la mattina, ci prepariamo il nostro caffè, saliamo in macchina, stiamo nel traffico, andiamo a lavoro, sorridiamo ai colleghi, ai clienti, torniamo a casa, baciamo il nostro compagno o la nostra compagna, passiamo tempo di qualità con la nostra famiglia e le nostre amicizie, facciamo sport. Poi c’è un’altra vita. Da questa nessuno è escluso. Abbiamo una vita virtuale, trasposta sui social network e sulle varie piattaforme. Non mi sto limitando a parlare di foto carine e canzoni condivise. Parlo di realtà parallela. Tutti cerchiamo in un certo modo di portare in questa nostra seconda realtà la proiezione migliore di noi stessi, per apparire migliori agli altri e principalmente a noi stessi. Un modo di esaudire ogni nostro bisogno di apprezzamento ed accettazione. Un posto dove ogni nostro desiderio può in qualche modo concretizzarsi. E fino a qui non c’è assolutamente nulla di male. Sono io la prima a farlo. Da Facebook in cui principalmente condivido video di gatti carinissimi che fanno cose strane, alla condivisione di musica di un certo tipo, film d’autore, stralci di libri che in qualche modo mostrino il mio livello di cultura, foto che appagano il mio bisogno di sentirmi bella.
Ognuno di voi fa la stessa identica cosa, chi in modo più audace, chi più tenue, chi più erotico, chi più virile.
Ognuno di noi posta in modo pubblico o privato quello che preferisce. Il che vuol dire che ognuno di noi si sente quasi sempre piuttosto libero di mandare qualsivoglia genere di file multimediale anche in maniera privata a quello che può essere un compagno, una compagna, amici, parenti. Ognuno di noi ha anche un semplice archivio sul proprio pc, tablet o cellulare di cose che semplicemente devono essere private.
Sul concetto di “privato” mi vorrei soffermare un momento. Colui che negli ultimi anni se ne è occupato con passione e dedizione è sicuramente Stefano Rodotà (Cosenza, 30 maggio 1933 – Roma, 23 giugno 2017), professore, accademico e giurista italiano. Il professor Rodotà si occupò della tanto dibattuta legge sulla Privacy e tutela dei dati personali. In occasione della 26th International Conference on Privacy and Personal Data Protection, il 13 settembre 2004, Stefano Rodotà nel suo discorso riassume molto bene l’importanza della tutela dei nostri dati personali e sul legame forte fra privacy, libertà e dignità.
“Noi pensiamo di discutere soltanto di protezione dei dati, ma in realtà ci occupiamo del destino delle nostre società, del loro presente e soprattutto del loro futuro. Abbiamo cominciato questa conferenza discutendo di sicurezza interna e internazionale, poi abbiamo rivolto la nostra attenzione al funzionamento del mercato ed all´organizzazione dell´impresa, al sistema dei media ed ai problemi della globalizzazione, al rapporto tra tecnologie e politica ed al modo in cui i cittadini fanno i conti con il loro passato. L’intero orizzonte dei temi di questi tempi difficili è davanti a noi. Emerge un legame profondo tra libertà, dignità e privacy, che ci impone di guardare a quest´ultima al di là della sua storica definizione come diritto ad essere lasciato solo. Senza una forte tutela delle informazioni che le riguardano, le persone rischiano sempre di più di essere discriminate per le loro opinioni, credenze religiose, condizioni di salute: la privacy si presenta così come un elemento fondamentale dalla società dell‘eguaglianza. Senza una forte tutela dei dati riguardanti le convinzioni politiche o l´appartenenza a partiti, sindacati, associazioni, i cittadini rischiano d´essere esclusi dai processi democratici: così la privacy diventa una condizione essenziale per essere inclusi nella società della partecipazione. Senza una forte tutela del “corpo elettronico”, dell´insieme delle informazioni raccolte sul nostro conto, la stessa libertà personale è in pericolo diventa così evidente che: la privacy è uno strumento necessario per difendere la società della libertà , e per opporsi alle spinte verso la costruzione di una società della sorveglianza, della classificazione, della selezione sociale.
Anche nella lotta al terrorismo non bisogna mai perdere la memoria di quel che è avvenuto nei regimi totalitari, dove violazioni profonde dei diritti fondamentali sono state possibili proprio grazie a massicce raccolte di informazioni che hanno consentito un controllo continuo, capillare e oppressivo della stessa vita quotidiana: la privacy si specifica così come una componente ineliminabile della società della dignità : parola, questa, scritta all´inizio della Costituzione tedesca proprio come reazione alla logica nazista e che, oggi, apre la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea.
Ma il titolo di questa conferenza ci ha soprattutto proposto una associazione assai impegnativa, quella tra privacy e dignità. Ci obbliga così a considerare tutti i problemi specifici in un contesto caratterizzato dalla preminenza della persona e dei suoi valori, della sua libertà e autonomia.”
In queste poche righe estrapolate dal discorso di Rodotà possiamo capire in modo tecnicamente preciso il legame fortissimo fra la tutela dei nostri dati e la nostra stessa dignità, nonché libertà.
Mi rendo conto che forse sto entrando in tecnicismi giuridici, ma credo che facciano parte di quella base fondamentale di informazione di cui bisogna munirsi prima di parlare di qualcosa.
Tornando su un piano più pratico, pragmatico, e meno teorico, le parole di Rodotà possono facilmente riadattarsi al contesto di cui stiamo parlando.
I famosi e sopracitati “dati personali” in questo caso possono banalmente essere considerati un numero di cellulare, un numero di telefono aziendale, un indirizzo, un nome e cognome.
In questi gruppi Telegram, che come spiega bene l’articolo hanno una sorta di “piano di ricostruzione”, per cui ogni qualvolta periodicamente vengono chiusi per “contenuti pedopornografici”, in pochissimo tempo vengono ricreati da capo con un numero sempre più grande di utenti che partecipano, vengono condivisi SENZA AUTORIZZAZIONE DELLE PARTI INTERESSATE tutti i dati di cui sopra.
Questo, a livello legale rappresenta già una fortissima violazione di dati personali nonché un reato. In aggiunta a questo, molto molto spesso vengono condivise fotografie e video da contenuti pornografici di donne che sono state ex compagne, ex mogli, o in alcuni casi, attuali fidanzate, con il preciso scopo di far insultare le protagoniste o farle essere oggetto di eccitazione sessuale.
Ora, come Simone Fontana ha perfettamente detto nel suo articolo, si parla di STUPRO DI GRUPPO VIRTUALE. A questa definizione in molti hanno gridato all’esagerazione, che è un termine troppo forte. Ma torniamo alla constatazione perfettamente oggettiva della dualità di esistenza che tutti conduciamo. A livello virtuale, quello che i membri di questi gruppi fanno è uno stupro a tutti gli effetti. Leggendo i messaggi che si sono scambiati, la veemenza, la brutalità con cui si esprimono rivolgendosi alle vittime è talmente forte che non è così difficile crearne una trasposizione sul piano reale.
È vero, prima ho detto che sul piano virtuale attuiamo una trasposizione anche di nostri desideri. Come potrebbe essere quello, in alcuni casi, di una violenza erotica. Che crea una sorta di appagamento sessuale in chi la pratica. Questa è una cosa che esiste, e per la quale non penso ci sia nulla di male. Esiste sul piano virtuale come in quello reale. Basti pensare alla pornografia reperibile su qualsiasi piattaforma video in ambito BDSM.
Allora, se siete arrivati a leggere fino a qui, vi starete chiedendo: “Elisabetta, ma allora prima condanni questi comportamenti, poi dici che vanno bene i desideri di violenza erotica. È incoerente, no?”.
Bene, lecita domanda. Risposta: NO.
La differenza? Il consenso.
Il consenso è quella semplice azione che definisce il lecito dall’illecito. In questo caso nessuna vittima ha dato il suo consenso alla pubblicazione di dati personali, fotografie o video.
Le conseguenze di tutto questo? Le più svariate. Dall’isolamento volontario della vittima, ai complessi di inferiorità rispetto a figure apparentemente più autoritarie, depressione, perdita di impiego, isolamento sociale, allontanamento dalla famiglia, fino a casi più drastici (come purtroppo più noti) di suicidio.
Sapete qual è la cosa che più mi colpisce? Che non è una caccia alle streghe verso “l’uomo cattivo”. Quel famigerato “uomo cattivo” è nostro padre, nostro marito, il nostro compagno, il nostro migliore amico, nostro cugino, il nostro collega, il nostro professore, il tassista. Ma non solo. L’ “uomo cattivo” è nostra madre, nostra sorella, la nostra migliore amica, siamo noi stesse.
Questo atteggiamento di violenza verbale e fisica è nel nostro DNA sociale, è parte del nostro substrato culturale che ci porta a dare automaticamente della “puttana” a quella ragazza che non ha risposto positivamente al nostro invito, a quella cassiera scortese, a quella ragazza che sabato sera aveva la gonna molto corta e una bella scollatura.
Esagerato anche questo?
Siamo tutti responsabili di questo. Di questo e molto altro. Ogni qualvolta ci sentiamo autorizzate e autorizzati a dare della puttana ad una donna, ogni qualvolta reputiamo giusto fischiare per strada ad una ragazza, ogni qual volta una pacca sul culo che vuoi che sia, ogni qualvolta pensiamo sia meglio non rispondere, non intervenire, non alzare un polverone, ogni volta che “non è niente”:
Tutto questo substrato culturale posta in un certo senso ad un’alienazione dalla realtà, e ad una trasposizione totalitaria sul piano virtuale. E da qui la classica risposta “Vabbè ma che vuoi che sia, è un messaggio su facebook”. Una totale deresponsabilizzazione dell’uomo verso le proprie azioni di sfogo. Perché?
Perché fa paura. Fa paura prendere coscienza che tu che stai chiedendo foto di una dodicenne, sei padre e baci tua figlia prima di addormentarti. Fa paura perché tu che pubblichi foto e video pornografici della tua ex compagna, sei il figlio che bacia sua mamma quando gli prepara da mangiare.
Perché nel 2020, dopo guerre e millenni di storia vissuti, l’uomo ancora non è pronto a guardarsi negli occhi e prendersi la responsabilità non solo delle proprie azioni, ma non è pronto a prendere coscienza e responsabilità di se stesso, dei propri desideri, e di chi egli sia nella realtà più vera e profonda.
Questo è quello che fa più male.
Mi direte “si vabbè ma pure quelle che pubblicano le foto nude, o mandano video porno su. Dovrebbero aspettarselo”.
NO.
Un “No” grande come quello di Brannox alla stampa in “The New Pope”.
Un no che deve riecheggiare per sempre nel cuore.
Un no che deve essere chiaramente rappresentante della mia, vostra e di tutti, liberà di fotografarsi, riprendersi, pubblicare e postare DOVE E COME si preferisce, ciò che si vuole. Il tutto con IL PROPRIO CONSENSO, nel totale RISPETTO di tutti.
Credo fortemente che tutto questo dolore, tutta questa cattiveria non sia necessaria. Penso che attraverso una profonda rieducazione del nostro substrato culturale tutto questo può cambiare, maturare, evolversi.
E se allora l’uomo ancora non è pronto a guardarsi negli occhi ed essere cosciente di se, dopo millenni di storia e di errori, e per questo non riesce ad essere parte di una comunità, e invece finalmente ad essere pronta fosse la Donna?
La Donna madre di quegli uomini, la Donna moglie, la Donna figlia, la Donna amica, la Donna collega. Noi.
E se noi per prime ci abbracciassimo senza pugnalarci per invidia, cattiveria, gelosia, noia. E se riuscissimo a fare una comune rete di forza e tenacia che possa sorreggere tutte le donne che da sole non riescono a trovarla questa forza?
E se in fondo il segreto fosse questo? Tenerci la mano, anziché darci schiaffi?
Io in fondo, nel mio piccolo, nonostante abbia dovuto privatizzare e poi riaprire i miei profili, nonostante abbia dovuto cambiare numero di telefono, nonostante tutto io mi sento forte e fortunata. Io so di essere circondata di donne che ti tengono la mano. Ma non è mai abbastanza.
Per essere libere, per essere liberi dobbiamo stringerci tutti.
Senza eccezioni.
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