Dopo quasi un mese di coprifuoco, siamo in parecchi ad aver raggiunto un certo grado di rassegnazione per la nuova drammatica quotidianità in cui siamo piombati. Quell’interesse morboso, quello che tutte le sere imponeva di infliggerci il bollettino di guerra scandito da Mentana, è già scemato. È un po’ come in trincea: all’angoscia dei primi tempi, è subentrata un’ansia costante e pungente che riaccende l’acume. Proviamo dunque ad approfittare di questo sprazzo di lucidità per valutare come si è dipanata la narrazione dell’emergenza Covid-19 offertaci dal mainstream. Mai come in questa vicenda infatti si è manifestato palesemente il controllo capillare a cui è soggetto l’apparato dell’informazione in tutto l’Occidente, con buona pace delle benemerite classifiche sulla libertà di stampa – che al più certificano la bontà della massima popolare “mai chiedere all’oste se il vino è buono”.
Se ben ricordate, già nelle prime settimane di febbraio le televisioni di tutto il mondo trasmettevano filmati che ritraevano la città di Wuhan messa in ginocchio dall’epidemia, diffondendo così l’immagine di una Cina malata e sotto coprifuoco. Ebbene, nulla di più artificioso: le misure messe in campo nella provincia dell’Hubei dal 23 gennaio non sono state estremamente più rigide di quelle messe in campo nei primi focolai italiani e soprattutto hanno riguardato una zona ben circoscritta dell’enorme Repubblica Popolare. Anzi, val la pena sottolineare che le autorità cinesi hanno potuto bloccare praticamente tutte le attività produttive della regione proprio perché potevano far affidamento sul resto del Paese che, seppur a rilento, ha continuato a correre. Eppure, per settimane, tutti i mezzi di comunicazione del “primo” mondo hanno propagandato il messaggio che la Cina fosse una nazione completamente infetta e contagiosa. E lo hanno fatto con un impeto tale da intaccare i già rarefatti flussi commerciali dall’Oriente e addirittura suscitare atti di sinofobia senza precedenti. Atti che naturalmente venivano poi stigmatizzati dalle stesse vestali dell’Informazione che vi avevano dato adito. Val la pena ricordare in proposito la fortunata campagna #abbracciauncinese o il mantra “Il vero virus è il razzismo”, invecchiato decisamente malino.
Ma se una compatta serrata anti-cinese dei mass media occidentali non era un’eventualità poi così imprevedibile per chi segue lo sviluppo degli equilibri globali, quello che è accaduto nelle settimane successive è qualcosa di davvero singolare. Mentre in Italia fioccavano casi su casi positivi al Covid-19 e già si intravedeva la portata di quello che stava per abbattersi sul continente, in Francia e in Germania giornali e televisioni trasmettevano monoliticamente la notizia di uno straordinario boom dell’influenza stagionale [i]. Senza nessuno sprezzo del ridicolo, fior fior di giornalisti tedeschi riportavano acriticamente questa novella per poi tornare immediamente a discettare sulla cattiva gestione della crisi sanitaria da parte degli italiani fannulloni e schuldigen [ii].
Nelle scorse settimane non sono stati pochi gli analisti che hanno voluto vedere in questo “isolamento mediatico” del nostro Paese una forma di ritorsione dei premurosi fratelli europei per l’asse commerciale con Pechino stipulato un anno fa attraverso il memorandum per la Via della Seta. È una speculazione assolutamente verosimile anche se al momento, a quanto mi risulta, non ci sono abbastanza elementi per accertarsi della fondatezza dell’ipotesi. Cionondimeno il dato fenomenologico rimane: nell’Europa continentale, pur di legittimare agli occhi dell’opinione pubblica la precisa scelta di salvaguardare l’economia anche a discapito della salute [iii], sono state messe le briglie a tutti gli editori. Mentre in Italia il circo dell’informazione alimentava la psicosi da contagio, in spregio al senso civico e in ottemperanza alle crude leggi del mercato della comunicazione, fuori dai confini del bel paese neppure un’ondata di polmoniti atipiche poteva destare qualche sospetto. Ora, le possibilità sono due: o i giornalisti d’oltralpe sono molto più scrupolosi dei nostri e sono stati molto attenti a non destare il panico nella popolazione in un momento potenzialmente difficile o a tutte le redazioni è stato diramato un ordine di scuderia chiaro e tondo. Ai lettori l’ardua sentenza.
La spregiudicata indipendenza, che un occhio benevolo – molto benevolo – avrebbe potuto lì per lì attribuire al giornalismo nostrano, ha avuto le gambe tragicamente corte. La chiamata alle armi più clamorosa è arrivata infatti di lì a poco, nella fase in cui l’Italia diventava tutta zona rossa. In conformità all’ormai canonico processo di colpevolizzazione dell’individuo che serve a far fronte alle crisi di sistema [iv], le redazioni di televisioni, radio e giornali hanno improvvisamente riconosciuto il nemico della Nazione in coloro che si affannavano a prender il treno per tornare a casa dopo il decreto dell’8 marzo. Assurdo, eh? Solo dei pazzi scriteriati potevano voler tornare dalle proprie famiglie dopo la diffusione di un provvedimento senza precedenti nella storia repubblicana, è chiaro. E state ben attenti: se pensate che chi si è lasciato prendere dal panico precipitandosi in stazione potrebbe aver tenuto un comportamento non proprio incomprensibile, anche voi siete degli analfabeti funzionali. Burioni docet.
Ma il meglio doveva ancora arrivare. Finita l’ondata dell’odio per i disertori, l’armata del mainstream ha saputo scovare e mettere all’indice una nuova formidabile categoria di untori: i podisti. Con servizi di una veemenza che manco i bandi di manzoniana memoria, tutti i tiggì d’Italia hanno aperto la stagione della caccia al corridore. Così, nell’arco di poche settimane, al Ministero degli Interni sono pervenute diverse decine di migliaia di denunce a carico di malcapitati che avevano avuto la sventurata idea di mettere il becco fuori di casa. Nel frattempo, uffici e fabbriche hanno continuato ad andare avanti, per giunta con i mezzi pubblici delle grandi città completamente saturi per la riduzione delle corse, ma di tutto questo importava ben poco ai paladini dell’informazione corretta e accurata.
Ora, dopo una breve parentesi dedicata alla stigmatizzazione delle “fake news”, l’ultimo capitolo della narrazione che stiamo vivendo è quello dedicato alle misure per fronteggiare l’incombente crisi economica. In particolare, il menù prevede in apertura un piagnisteo per la scarsa solidarietà europea e come piatto forte una campagna di santificazione di Mario Draghi. Certo, qualcuno potrebbe osservare che la storiellina di un’UE messa tutto d’un tratto sotto ricatto da tedeschi e olandesi debba esser dettata dal mero analfabetismo economico delle redazioni. Più difficile è appellarsi a una spiegazione analoga per l’inno all’ex presidente della BCE: solo un’ignoranza assoluta del nostro passato recente permetterebbe di elevare uno come Draghi ad alfiere della lotta all’austerità. Del resto, tutti coloro che negli anni abbiano seguito anche solo di striscio le notizie da Bruxelles e Francoforte sanno perfettamente che, di fronte all’emergenza Covid-19, l’Unione Europea non sta facendo altro che mostrare la sua vera natura. Altro che incidente di percorso dettato dal proceduralismo teutonico: è del tutto chiaro che l’UE, di cui Draghi si fece salvatore nel 2012, è sempre stata questa roba qua e non può non esserlo neppure ora. Senza dire che per una volta a Berlino hanno tutte le ragioni per rifiutare un nonsense politico come gli eurobond… Ma non è questa la sede per addentrarsi oltre nel merito [v].
No, non è proprio possibile che sia tutto frutto della beata ignoranza. D’altronde, se lo fosse, ci sarebbe modo di scorgere un ventaglio variegato di opinioni più o meno balzane. Invece niente, quando si parla di Europa, persino durante la crisi più nera, tutti cantano la stessa nota e oggi Draghi viene invocato all’unisono da ogni testata. Bisogna rendere merito al merito: quello dei media incoronati è un canto corale ben concertato, studiato nei minimi dettagli, degno della miglior tradizione gregoriana. Risponde a interessi precisi e con la sua compattezza granitica collima un disegno egemonico che assicura ai monaci il quieto vivere e spesso anche qualcosa in più.
A questi solerti coristi, cui Giunone offre ogni giorno una generosa ispirazione [vi], rivolgo un appello sincero. Occhio, ché il vostro tripudio monodico ha un lieve difetto: dopo troppi anni diventa stantio. Prima o poi rischiate davvero che la gente si scocci. E forse più prima che poi.
[ii] Per chi come me non sapesse il tedesco, schuldigen vuol dire sia “colpevoli” che “debitori”. Ah, Lutero… ⇑
[iii] Del resto la conclamata tendenza tedesca a tirar dritto anche di fronte al muro della realtà non è esattamente una novità per chi ricorda un po’ di storia. ⇑
[iv] La colpevolizzazione dell’individuo è un ben rodato meccanismo di autoconservazione messo in atto da tutti i sistemi di potere e perfezionato con il capitalismo. Mettere i penultimi contro gli ultimi non solo distrugge la coesione sociale delle fasce più deboli, ma soprattutto assicura che le vittime non poggino lo sguardo sui carnefici. ⇑
[v] Questa invece lo è. La vera soluzione è una Banca centrale che assuma un ruolo di prestatore di ultima istanza. ⇑
[vi] Non una Giunone qualsiasi, ma quella con l’epiclesi giusta. ⇑
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