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Il ritorno del repubblicanesimo?


9 Apr , 2020|
| Visioni

I campioni del repubblicanesimo nella nostra contemporaneità parrebbero aver fin qui peccato di orgoglio intellettuale, e anche di irrimediabile passatismo: li si sarebbe potuti definire dei nostalgici o dei romantici. Per la verità, tra loro non sono mancati, particolarmente in Italia, i confusionari, i ripetenti, i monotoni; e ciò non ha giovato alla causa e ha dato fiato ai critici. Ne è scaturito un grave interrogativo: se non sia imminente la fine del repubblicanesimo. Ma è indubbio che, in questi ultimi decenni, esso sia apparso a parecchi come consegnato quasi definitivamente alla storia del pensiero politico. E’ pur vero che la nostra contemporaneità ha lanciato almeno cinque formidabili sfide, l’una a rinforzo dell’altra, al repubblicanesimo classico e moderno: (1) la diffusione dell’economia di mercato e la sua influenza sul fenomeno che potremmo definire di privatizzazione dei cittadini; (2) la globalizzazione nei suoi vari aspetti (economici, tecnologici, legali, politici, istituzionali) e l’indebolimento conseguitone dell’etica e della pratica della partecipazione popolare al governo; (3) l’emergere di una pluralità di identità individuali, fluide e coesistenti, a fronte di un’identità sociale avvertita come ingombrante; (4) il declino di società omogenee, dal punto di vista etnico e culturale; (5) l’incremento del fondamentalismo religioso.

 Tutte queste sfide hanno dato luogo ad altrettante realtà o, almeno, a robuste tendenze. Ora, se ad esse corrispondono altrettante direttrici del mondo contemporaneo (che ora sembrano segnare un po’ il passo), il pensiero repubblicano è solidamente orientato all’opposto; e avrebbe potuto, e dovuto, combatterle e, forse, non l’ha fatto o, meglio, se lo ha tentato non ha ottenuto di farsi ascoltare. Ma il repubblicanesimo esprime l’aspirazione a una res publica non universale, dove i cittadini sono attivi secondo il modello aristotelico e spinti dal diffuso spirito pubblico alla promozione dell’interesse comune; e nella quale è articolata e onorata la griglia dei doveri prima di quella dei diritti. Si potrebbe proseguire e introdurre i dettagli di regime dell’optima res publica, della res publica perfecta o della repubblica bene ordinata: il pensiero repubblicano può contare su almeno duemila anni di esperienze. Ma questo deposito storico – composto di idee e di dispositivi giuridici, di teoria e prassi – ha finito con l’essere sepolto o quasi. Una sorte favorita dal rifiuto – o, almeno, dalla marginalizzazione – della storia e, insieme, dall’ossessione del presentismo; ma anche dalla metodica in uso presso alcuni cultori del repubblicanesimo, censurare le disfunzioni istituzionali e il malcostume dei politici di oggi attraverso la giustapposizione, un po’ banale, dei modelli costituzionali e degli eroi della classicità. Insomma, un modo semplicistico di costruire la proposta per la contemporaneità: il degenere presente come antimodello, il passato come modello per porvi rimedio. Quando però si cerca di proporre – o fare – cose con la tradizione repubblicana sarebbe sbagliato – anche in termini di comunicazione – partire e/o insistere con i dettagli o le citazioni erudite. Meglio introdurre il discorso dall’alto: il repubblicanesimo ne è capace, essendo un sistema organizzativo – della vita sociale – compiuto e coerente rispetto ai fini perseguiti.

 Proviamo a comporre – senza alcuna pretesa di completezza – un piccolo elenco delle coordinate fondamentali del modello repubblicano: (a) un insieme di forme e schemi ordinatori definiti, congrui, non ambigui, animati da alcune idee civili prima che economiche; (b) una tensione – da cui tutta una gamma di dispositivi giuridici – per i cittadini, intesi come massa prima che come singoli individui; (c) un patriottismo beninteso, la charitas rei publicae, l’amore verso il territorio e chi vi abita; (d) un diffuso spirito pubblico, innervato dalla virtù spontanea dell’altruismo prima ancora dell’elaborata solidarietà; (e) ovviamente, una costituzione autenticamente repubblicana, vale a dire non repubblicana fino a un certo punto (qual è la nostra). Queste coordinate, se rigorosamente utilizzate, dovrebbero restituirci qualcosa d’altro da quel che oggi disponiamo. Non possiamo più continuare confusamente ad avere e non avere: strutture nazionali ma anche no, rappresentative ma anche no, sociali ma anche no, pubbliche ma anche no, meritocratiche ma anche no ecc. Ora si potrà anche avere – e magari sarà un bene – una pluralità di alternative e, però, i confini dovranno essere definiti e ognuna di esse dovrà essere sostenuta da un razionale comprensibile. E, a livello di disciplina, dovremmo comunque generalizzare di più e individualizzare di meno, cioè consentire meno deviazioni, eccezioni, talora privilegi; altrimenti il cittadino sarà facilmente portato a considerarsi un caso a parte, a invocare un trattamento differenziato, qualche volta a valutarsi unico, con il che quel cittadino si chiamerà fuori dalla comunità e veramente non sarà più un cittadino.  

 In quest’epoca di transizione – di crisi come giudizio e, dunque, di ricerca e valutazione delle responsabilità – il vocabolario del repubblicanesimo può ispirare costruzioni, assetti, strutture più rette: l’assolutamente nuovo non si è mai dato, nemmeno a seguito delle grandi rivoluzioni, e la novità è sempre stata, più o meno, relativa, nuove combinazioni di elementi trasmessi dal passato, un ripensamento più che una tabula rasa. Ecco allora che termini, espressioni, concetti, categorie della tradizione repubblicana si riproporranno o, forse, si presenteranno spontaneamente a chi cercherà di ri-costruire: popolo e sovranità popolare, interesse comune e legge generale, virtù civile e patriottismo, universitas civium e res publica e così via. A dirla in una, sono sequenze che evocano l’idea di comunità: nella res publica la comunità è, in certo senso, organica, i suoi membri sono saldamente legati gli uni con gli altri, tutti e ciascuno non hanno un’identità diversa o molto diversa, sia questa naturale (per nascita in uno stesso luogo) oppure artificiale (per la cultura che condividano in posizione di primazia, magari accanto ad altre derivate dall’esterno). 

 Nell’editoriale introduttivo di questa Rivista, Nello Preterossi indica nel rovesciamento della gerarchia fra i diritti una delle contraddizioni di questi ultimi – non felici – decenni: i diritti della collettività – sociali ma anche politici, quelli che Rousseau chiamava i diritti del Sovrano – posposti ai diritti dei singoli, diritti economici ma anche civili. La teoria non avrà magari ratificato questa de-gerarchizzazione; ma nei fatti essa è una realtà. Ce ne siamo accorti (anche) durante questa esiziale epidemia (essa stessa, in fondo, non del tutto estranea al ribaltamento gerarchico di cui ci stiamo occupando): la produzione avvertita da molti (e da tutte le associazioni imprenditoriali) come superiore rispetto alla salute. Probabilmente questa prospettiva ha contribuito a ritardare l’adozione delle misure restrittive e ha impedito l’assunzione di misure più rigorose; diversamente si può ipotizzare che avremmo avuto meno morti e ciò deve indurre a una severa riflessione. 

La primazia, almeno fattuale, dei diritti dei singoli ha determinato la parcellizzazione della massa (o delle masse). Abilmente il neo-liberismo ha incoraggiato e sfruttato la crescente considerazione (e auto-considerazione) dell’individuo: la libertà dell’uomo dei diritti ha progressivamente assunto la dimensione (anche) della volubilità; e la sua (relativa) emancipazione economica gli garantisce un portafoglio i cui denari gli sono utili per soddisfare risorgenti desideri creati da una pubblicità costruita ad arte per ammaliare. Così l’uomo dei diritti è divenuto un perfetto consumatore e le grandi imprese ne hanno approfittato; e la politica si è adeguata a tutelare soprattutto gli individui (non solo quelli disagiati), quasi dimenticandosi della comunità generale. Ma questa non è scomparsa e le difficoltà che toccano tutti – o quasi – la destano e rapidamente la ricompongono. Così, al di là della dicotomia stato-mercato, si riaffaccia il corpo dei cittadini, i cui interessi comuni fan presto a trasformarlo in quel solo corpo di cui scriveva ancora Rousseau. E cos’è il corpo dei cittadini – cittadini non categorizzati – se non il “pubblico” di una repubblica? In quest’area, settore, sfera civile dovremmo vedere i cittadini tout court: non utenti di servizi pubblici o titolari di diritti against the State o meri votanti; e nemmeno frequentatori e acquirenti nei centri commerciali. Di questa comunità le elites contemporanee hanno troppe volte omesso di ricercare l’utilitas: cado in contraddizione se ricordo a questo punto un passaggio del de re publica dove Cicerone scrive che compito di una res publica è almeno di impegnarsi, se non proprio di assicurare, affinchè i cives possano godere di una beata vita? Ma quanti politici si mettono realmente in ascolto di questi cives? Vi è poi, per il corpo dei cittadini, una via istituzionale per comunicare, opporsi, proporre, decidere? Ma esiste un sistema di informazione, pubblica e/o privata, indipendente e, dunque, capace di informare veridicamente i cittadini desiderosi di attivismo?  Vi è l’assoluta necessità che questa sfera civile – dei cittadini senza qualificazione – sia recuperata all’agere nello spazio pubblico aggiungendosi al binomio stato-mercato. A questo scopo la tradizione repubblicana, se introdotta con sapienza negli assetti in crisi, può dare il suo contributo al fine di riequilibrare una realtà in più aspetti squilibrata: un contributo di idee e di ideali, ma anche di dispositivi giuridici che potrebbero rivelarsi utili per sistemare la costituzione del 1948 che, al di là della retorica di parte, è difettosa in più punti, per esempio laddove scoraggia o impedisce iniziative politiche provenienti dal basso; oppure laddove consente l’investitura di organi di vertice privi di un sufficiente tasso di rappresentatività o in completa assenza di rappresentatività. Last but non least, teniamo presente che, con il repubblicanesimo, abbiamo a che fare con una tradizione politica in gran parte italiana; e la prima eccellenza di questo Paese è la sua unica, straordinaria storia.

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