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In virus veritas?


9 Apr , 2020|
| Visioni

Ovvero come ho iniziato a preoccuparmi e ad imparare dall’emergenza

Sulla gravità di questa emergenza sanitaria non dovrebbero più sussistere dubbi di sorta: a chi affermava il presunto carattere fittizio della crisi sanitaria, utilizzata strumentalmente come dispositivo biopolitico per imporre alla società nuove misure securitarie, risponde la gravità ormai inoppugnabile della situazione sanitaria, non solo in Italia, dove le vittime sono ormai più di 10.000. Che le misure che sono state adottate si esercitino prevalentemente attraverso dispositivi biopolitici di immunizzazione e sterilizzazione degli spazi sociali che possono svolgere e svolgono anche una funzione disciplinante, non implica però, di per sé, che lo scopo e la ragione principale della loro promulgazione sia quest’ultima. Una deduzione di questo tipo sarebbe costretta a rimuovere non solo la serietà dell’emergenza in atto e l’impatto drammatico che essa ha sotto il profilo sanitario, ma anche le devastanti conseguenze economiche che essa comporta per ampi settori produttivi. Per rendersene conto basta constatare la resistenza con cui le misure di profilassi sono state accolte da parte di Confindustria e la conseguente difficoltà per il governo di estenderle completamente anche al mondo del lavoro. Non pare allora esservi alcuna ragione plausibile da parte delle autorità per amplificare i termini di un’emergenza sanitaria che rischia di danneggiare non solo i cittadini, ma anche quei segmenti industriali del paese a cui lo stesso apparato statale fa riferimento nell’indirizzare le proprie politiche.  

Dovrebbe quindi essere ormai dato per scontato che per limitarne per quanto più possibile la portata dell’emergenza, sotto ogni riguardo, sia necessario prendere sul serio e rispettare scrupolosamente le indicazioni che ci provengono dal personale medico e dall’autorità pubblica.

Ma oltre a ciò, appare sempre più necessario approfittare di questi giorni di sospensione per fare qualcosa di più. Come ogni emergenza, anche questa infatti fa emergere ciò che in precedenza era solo latente, o veniva rimosso. Certo, come si potrebbe far notare, sono anni che siamo in una situazione di “emergenza permanente”: dalla crisi dei migranti, a quella siriana, fino a quella debitoria degli stati, il nostro mondo appare attraversato da costanti emergenze. Quest’ultima però ha qualcosa di diverso: essa non riguarda più gli altri, ma noi stessi; non più il fuori, ma l’immediata prossimità; non più una parte soltanto, ma l’intera società. Essa costringe anche chi fino ad oggi non ha voluto guardare in faccia alla realtà, a venire in chiaro su molte questioni. 

La società non è fatta di individui

Innanzitutto il fatto immediato, ma non per questo meno rimosso dalla nostra esperienza quotidiana, che la nostra vita dipende non solo dagli altri, ma dal lavoro degli altri. In questi giorni ci rendiamo conto di quanto la nostra esistenza dipenda essenzialmente non tanto da altri individui in generale, ma soprattutto dal loro lavoro. Mai come oggi riscopriamo, quasi attoniti, che, come diceva Brecht, è «là dove si lavora o dove si chiede lavoro» che sorge «l’unità minima» [i] della società; sono infermieri, medici, agricoltori, lavoratori della logistica, e della cura ecc., non “individui” generici, coloro che dobbiamo ringraziare di più se continua ad arrivare cibo sulle nostre tavole, se i nostri cari possono sperare di ricevere cure adeguate, se abbiamo qualcun* a cui rivolgerci in caso di difficoltà. Vista da questa prospettiva, la società appare improvvisamente come in controluce, risegmentata secondo quelle linee di privilegio che la normalità neoliberale smussava in un’opacità liscia e omogenea: divisa tra chi si può permettere di sospendere la propria attività, stando comodamente a casa, e chi, suo malgrado, si trova invece costrett* a tornare ogni giorno sul posto di lavoro, esponendo se stess* e i propri cari al rischio di contagio. In queste giornate siamo costrett* a sentire tutto il privilegio di chi può resistere alla sospensione di questo momento difficile per destinare il proprio tempo ad altro che al lavoro, e di chi invece non può: non tanto perché medico, anestesista o farmacista, ma semplicemente in quanto salariato, o lavoratore autonomo subordinato. Risalta così l’assurdità di una società nella quale il lavoro, invece che essere affermazione e creazione del sociale, è soprattutto comando, rinuncia, alienazione di sé. Mai come ora dovremmo quindi distinguere non tanto – adeguandoci al dettato di Confindustria – i lavori “essenziale” da quelli “inessenziali”, quanto i lavori che rendono possibile, dignitosa e ricca la vita di noi tutt*, da quelli che invece la danneggiano e la umiliano, perché estorti da un sistema produttivo che risponde più al profitto che ai bisogni della società. Di qui sarebbe possibile (e necessario) stabilire un nuovo “ordine dei bisogni” – che secondo Nietzsche determina l’essenza di una cultura: un ordine non più costretto dal lavoro astratto, ma fondato sul valore d’uso dell’operare umano. Non solo lavorare meno per lavorare tutt*, ma lavorare meglio e lavorare per tutt*. Si potrebbe e si dovrebbe allora non solo chiedere di sospendere tutte le attività produttive non strettamente necessarie, per mettere al primo posto la  tutela della salute dei lavoratori e delle lavoratrici ma anche, contestualmente, di assumere infermieri, medici, caregiver adeguatamente retribuiti, ma anche insegnanti, educatori, ricercatori ecc. per ricostruire la società sulla base dei suoi interessi condivisi, invece che su quelli di una sua ristretta minoranza.

Salute delle persone o delle istituzioni?

L’emergenza mette inoltre in luce lo stato di salute non solo delle persone, ma anche delle nostre istituzioni: ormai è evidente e incontrovertibile non solo la fragilità della nostra sanità pubblica, delle sue drammatiche differenze territoriali, della sua strutturale carenza di organico e di finanziamenti, ma più in generale l’inadeguatezza del nostro welfare, che continua a scaricare il lavoro di cura sulle famiglie e quindi, nella maggior parte dei casi, sulle sole donne. 

Ma in questo momento è venuta alla luce anche la situazione di disagio permanente che regna nelle nostre carceri, la cui condizione, diceva Voltaire, misura il grado di civiltà di un paese. Le violente e drammatiche rivolte delle scorse settimane – che hanno fatto numerose vittime, apparentemente tutte per overdose, ma le dinamiche precise restano ancora poco chiare – fanno emergere quella che è la disumana condizione quotidiana dei detenuti e delle detenute in Italia, costrette a vivere in strutture sistematicamente sovraffollate, talvolta fatiscenti, che spesso mancano di adeguati presidi medici. Adesso appare chiaramente l’assurdità di un quadro normativo che privilegia sempre la repressione al reinserimento, il carcere alle pene alternative, criminalizzando alcuni comportamenti ritenuti devianti o problematici e facendo esplodere la popolazione carceraria oltre i limiti di sopportazione delle strutture. A questo punto, l’unica cosa sensata da fare sarebbe svuotare gli istituti per limitare il sovraffollamento, attraverso un’amnistia parziale – come hanno fatto in Iran – oppure – là dove possibile – attraverso la conversione della pena detentiva in arresti domiciliari o in libertà vigilata.

Le magnifiche sorti e progressive all’apparir del vero

L’emergenza mette infine alla prova della verità le nostre categorie politiche: intanto, essa ci costringe a constatare – dopo anni di rimozione e di ideologia – che lo Stato continua a rappresentare l’istituzione fondamentale attraverso la quale si organizzano e si articolano le nostre società. Se la diffusione del contagio ci mette di fronte alla dimensione transnazionale e globale della comunità umana mondiale di cui facciamo tutti parte, le misure che si rendono necessarie per farvi fronte appaiono invece ancora saldamente ancorate ai diversi stati nazione: in questo senso, le ipotesi contrapposte – ma speculari – dell’isolazionismo nazionalista da un lato, e dell’instaurazione di un effettivo governo politico sovranazionale dall’altro, appaiono entrambe ridimensionate. Se infatti ci scopriamo tutti parte di uno stesso mondo inevitabilmente interconnesso, allo stesso modo vediamo come gli Stati continuino a rappresentare gli unici soggetti giuridici in condizione di regolare i rapporti sia a livello internazionale sia locale. I servizi e gli interventi pubblici che oggi appaiono quanto mai urgenti e necessari, possono essere concordati attraverso un coordinamento inter-nazionale, ma devono essere realizzati dallo Stato: non solo ospedali e servizi pubblici, ma anche misure economiche di sostegno al welfare, di continuità salariale per i lavoratori, di sostegno fiscale alle imprese in difficoltà ed ai lavoratori autonomi, di investimento in opere pubbliche e di ammodernamento delle strutture esistenti ecc., possono e potranno essere concretamente realizzate solo se si riaffermerà la funzione politica degli Stati. Tanto le istituzioni internazionali a livello macro – come l’Unione Europea o l’Organizzazione Mondiale della Sanità – quanto le regioni e le città a livello micro sono apparse, ancora una volta, del tutto prive di capacità di indirizzo davanti alla crisi. In questa emergenza siamo costretti a prendere atto di quanto la nostra vita dipenda effettivamente dalla solidità e dalla capacità operativa degli stati nazionali di cui, lo si voglia o meno, siamo parte.

La politica è decisione, ovvero la decisione è politica

Questa emergenza ci mette infine davanti ad un’altra evidenza, forse la più importante per il nostro futuro collettivo: misure che fino a ieri prima apparivano “tecnicamente” impraticabili, divengono oggi auspicabili e necessarie. Se fino a qualche giorno fa ogni ipotesi di spesa in deficit pubblico era dichiarata impossibile, oggi, davanti all’emergenza sanitaria, appare improvvisamente plausibile ed auspicabile: è chiaro allora che quell’impossibilità era determinata non da immutabili leggi dell’economia, ma da decisioni politiche. 

In un certo senso, può allora essere utile ricorrere alla categoria – in questi giorni variamente abusata – di «stato di eccezione»: questa emergenza sanitaria rende infatti evidente e inoppugnabile non solo e non tanto che il potere si esercita decidendo sullo stato d’eccezione, ma anche e soprattutto che questa decisione è sempre possibile sotto il profilo tecnico. Se la gravità inaudita dell’epidemia ha costretto a far riemergere il protagonismo dello Stato come attore e decisore politico-economico, allora è chiaro come fino ad ora la sua inibizione attraverso l’evocazione di vincoli indisponibili alle richieste democratiche sia stata il frutto di una decisione politica, non di una necessità tecnica. Fino ad ora infatti, l’induzione dello “stato di emergenza” – ad esempio attraverso l’innalzamento dei tassi di interesse sui titoli di Stato – era servita innanzitutto ad interdire la capacità operativa dello Stato. Nel momento in cui però, in seguito ad un’epidemia, si impone lo “stato d’emergenza”, allora risorse divenute inspiegabilmente disponibili vengono improvvisamente mobilitate: risulta così evidente come sia sempre stato tecnicamente possibile mettere in discussione i vincoli di bilancio, porre fine all’austerità e riscattare dal degrado le strutture pubbliche assumendo medici, infermieri ecc. Evidentemente però, quella non era ritenuta un’emergenza. Davanti a questa inversione di tendenza dettata dall’emergenza sanitaria è allora possibile dimostrare quello che in fondo si è sempre saputo: vale a dire che è stato per tutelare determinati interessi sociali e non per ragioni “oggettive”, se davanti ai 700 bambini greci morti in seguito ai tagli imposti dall’Unione Europea, davanti ai morti di Taranto per l’inquinamento dell’ILVA, davanti alle quotidiane morti in mare dei migranti in fuga, insomma davanti alle tante crisi sociali, ambientali e politiche del nostro tempo non si è voluto intervenire. Allo stesso modo oggi, anche nel mezzo di questa devastante crisi sanitaria, è sempre per tutelare interessi particolari che il lavoro salariato resta “eccezionalmente” escluso dalle misure profilattiche: perché evidentemente chi esprime la decisione nello Stato risponde ancora oggi agli interessi di settori determinati, piuttosto che a quelli delle maggioranze sociali della nostra società. 

Cerchiamo allora di far tesoro di quanto accade in questi giorni: mai come ora, possiamo e dobbiamo vedere ciò che siamo, capire ciò che vogliamo. Quando domani l’Unione Europea, con la complicità di larga parte delle nostre classi dirigenti, ci dirà che non possiamo sforare il deficit, che dobbiamo tagliare ancora la sanità, la scuola, che non possiamo fare investimenti infrastrutturali, che non possiamo nazionalizzare l’ILVA per risanarla come si deve, che non ci sono i soldi per riconvertire le centrali a carbone, né per un Green New Deal che metta insieme piena occupazione e riconversione ecologica; quando i nazionalisti diranno che non possiamo accogliere i migranti e che bisogna decidere se aiutare i pensionati e i lavoratori italiani o salvare chi arriva; quando ci diranno che lo Stato è impotente, perché non ci sono i soldi, allora ricordiamoci di quello che in questi giorni è stato possibile. Perché domani, è bene saperlo, si porrà ancora una volta la questione su come risolvere e su chi far ricadere i costi della crisi finanziaria, sociale ed ecologica che ci attende e di cui questo “cigno nero” non è che il preludio; e se mancheranno i soggetti politici capaci organizzare gli interessi delle maggioranze sociali, se cioè non saremo capaci di appropriare ad esse «il maggior numero possibile di termini concreti necessari e sufficienti per fissare un processo di sviluppo», se non saremo capaci «di anticipare il futuro prossimo e remoto e sulla linea di questa intuizione impostare l’attività di uno Stato» allora, ancora una volta, torneremo a subire i quotidiani stati emergenziali che la prassi di governo neoliberale non può non imporre sistematicamente alla società.

Questa emergenza fa emergere ciò che non volevamo vedere, o che non volevano farci vedere: la miseria delle nostre analisi politiche, l’impostura quotidiana degli “esperti” economici, la faziosità tutta apparente del dibattito politico, il degrado del welfare, l’ignavia delle istituzioni che regolano il nostro stare assieme, la disarmante inadeguatezza delle nostre organizzazioni politiche. A preoccuparci forse anche più dei sintomi clinici di questa epidemia, dovrebbero essere allora i «sintomi morbosi» del nostro mondo spaventato e incerto, in cui «il vecchio muore e il nuovo non può nascere». 

O pensavamo davvero di essere in buona salute prima di questa emergenza?


[i] Bertold Brecht, Me-ti – Libro delle svolte, L’orma editore, Roma, 2019, p. 67.

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