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Parasite, Il Buco e la solidarietà
Il sociale è tornato soggetto: soggetto cinematografico. Periferia, miseria individuale e riscatto degli ultimi in Joker di Todd Philips, dove la pur evidente tensione tra alto-basso sconta una semplificazione oltremodo hollywoodiana, incapace di diventare oggetto autentico del film ma solo scenografia di un superlativo Phoenix. Il sociale, nella sua crudezza e complessità, nell’ultimo anno, proviene dal cinema internazionale. Sudcoreano e spagnolo. Anche spagnolo, perché il The Platform (Il Buco nella versione italiana) dell’esordiente Galder Gaztelu-Urrutia è un film che con il capolavoro di Bong Joon-ho può formare un ideale e inconsapevole dittico di genere.
Molto si è scritto del Parasite vincitore delle statuette più prestigiose: la verticalità che si sviluppa tra la casa Park e il suo bunker, tra casa Park e i sobborghi di Seul, costituisce l’immagine di una scala sociale che diventa una montagna, la cui vetta può essere raggiunta solo da invisibili parassiti. Qui il conflitto tra famiglia Kim e quella dell’ex domestica Moon-gwang, per il predominio della casa dei ricchi Park, è inaggirabile. Nel dramma che si consuma, con i padroni ignari di tutto – dal piano segreto dei Kim al segreto del bunker fino alla povertà che puzza come uno “straccio bollito” – la solidarietà tra i senza-speranza non è neanche contemplata. Il lavoro, come inservienti e badanti, per la famiglia Park è impossibile da spartire perché diseguale è la struttura stessa del rapporto sociale.
Apparentemente eguale il design della scena-mondo e spartibile l’oggetto del contendere nel Buco di Gaztelu-Urrutia. La struttura è una prigione verticale, dove il protagonista Goreng si trova gettato senza una ragione ben precisa, nella quale ogni primo del mese i detenuti, due per ogni piano, si risvegliano in un piano diverso del carcere. Il cibo arriva da una piattaforma, che passa al centro della cella, chiamato la Fossa, una volta al giorno, partendo dal piano zero e scendendo fino ad un numero imprecisato di piani. Al piano zero la tavolata è ricca e degna del miglior ristorante stellato, oltre il duecentesimo rimangono a malapena i vetri del coperto. Il cibo, il prodotto esemplare del lavoro sociale, è idealmente eguale per tutti, medesimo per tutti è il tempo per mangiarlo, eguale il bisogno. La redistribuzione è pura possibilità.
Scendendo, di piano in piano, il cibo-simulacro diventa sempre più scarso, più sporco, più profanato, fino a diventare realtà solo nei corpi dei compagni della camerata. L’essenza del cum panis, della condivisione del pasto, si capovolge nel perenne agguato perpetrato ai danni dell’altro. Nulla a che fare con la tragicomica rissa con le note di Morandi di sottofondo in Parasite: gli stomaci qui si bucano e con questi la ragione – giungendo al cannibalismo, pratica estrema della guerra tra poveri.
Eppure, il protagonista Goreng ha con sé il Don Chisciotte – ciascuno può portare soltanto un oggetto personale nella prigione – e introduce nella cella e tra i piani comunicanti un’idealistica razionalità. Chiede agli altri imprigionati, attraverso il buco che porta il cibo, quantomeno di provare empatia e lasciare qualcosa.
Il “mulino a vento” di Goreng è però la feroce antropologia che si adatta, di volta in volta, alla propria temporanea disposizione nella struttura. Chi è in alto gode, chi è in basso soffre. Un carattere talmente didascalico, ben più chiaro che in Bong Joon-ho, che ha il pregio di non voler essere oggetto d’interpretazione. Questa è la forza dell’immagine e del suo impatto.
La cifra di tutto non è però la diseguaglianza palese e l’efferatezza del bisogno, ma il Caso: è un caso che ogni primo del mese i detenuti possano risvegliarsi al piano 0 come al piano 300, che possano morire o persino ingrassare. La condizione umana è un prodotto della Fortuna. Non sono in gioco l’empatia e la carità, tantomeno l’amore del prossimo, nessuno tra i prigionieri si conosce. Queste alleviano il dolore e la necessità contingente, non risolvendo il puzzle degno del The Cube di Vincenzo Natali, al quale Il Buco sembra ispirarsi.
E’ in gioco piuttosto la solidarietà, la razionalità cooperativa più alta e più a lungo termine: se tutti sacrificassero porzioni in eccesso di cibo, persino coloro che vivono nei piani più profondi, quasi abissali, avrebbero speranza di mangiare, comunque vada la lotteria del piani. Teoria della giustizia fatta film.
Il massimo ideale diventa qui il razionale.I parassiti e i prigionieri, rispettivamente sudcoreani e spagnoli, sembrano mostrarci lo state of affairs in cui ci troviamo senza soluzione. Nessuna solidarietà possibile. Il figlio dei Kim cerca il riscatto nel modello Park, modello ideologico della struttura che li ha schiacciati, riacquistando, auspicabilmente, la casa e liberando così il padre isolatosi nel bunker. Gattopardismo neoliberale. Il film di Gaztelu-Urrutia cerca nella speranza ultima, incarnata nell’umanità incorrotta, la sua personalissima redenzione. Ma là dove il problema si indica, si riavvolge e si autoafferma, il sociale e le sue contraddizioni si riaprono. E’ (anche) questo che si vuole dal cinema.
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