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Lo spieghino: cosa ha deciso ieri il parlamento europeo?
Solitamente non commento le risoluzioni del Parlamento europeo (PE) visto che si tratta di un’istituzione che conta meno dell’assemblea di condominio della casa delle bambole di mia figlia, ma in questo caso farò un’eccezione, in parte perché mi sono arrivate diverse richieste per uno “spieghino” sulla risoluzione di ieri 17 aprile (in effetti a cercare di capirci qualcosa sui giornali si usciva pazzi) e in parte perché rappresenta comunque una buona indicazione di cosa aspettarsi dal Consiglio europeo del 23 aprile prossimo.
In breve, l’aspetto politicamente più rilevante della risoluzione di ieri, passata a larga maggioranza, è la bocciatura degli eurobond (o coronabond che dir si voglia), cioè di una piena mutualizzazione del debito futuro degli Stati membri, a favore invece dei cosiddetti “recovery bond”. In cosa consistono? Nella versione auspicata dal Parlamento UE, si tratterebbe di titoli emessi da un organismo europeo (probabilmente la Commissione europea) e basati su garanzie comuni fornite dal nuovo bilancio UE 2021-2027, con l’obiettivo di reperire fondi da destinare, appunto, alla ripresa economica degli Stati membri. La differenza sostanziale rispetto agli eurobond è che, laddove questi ultimi verrebbero emessi a carico dell’eurozona nel suo complesso (e dunque non sarebbe conteggiati nel debito nazionale dei singoli Stati) e rimborsati con risorse comuni (cioè dal gettito fiscale di tutti gli Stati) – certo, tecnicamente li potrebbe sempre monetizzare la BCE, ma questa è fantascienza –, i “recovery bond” rimarrebbero invece debito nazionale da ripagare con risorse nazionali.
L’unico vantaggio, di fatto, sarebbe quello di poter contare probabilmente su tassi di interesse più bassi e termini di scadenza più lunghi rispetto ai titoli emessi dai singoli Stati (anche se i tassi, come sappiamo, non dipendono dai singoli Stati ma dalle politiche della BCE). Non siamo dunque di fronte a una vera mutualizzazione del debito, anche se probabilmente verrà presentata così dai capi di Stato al prossimo Consiglio europeo, sempre che finiscano per recepire il “suggerimento” del Parlamento, come è probabile (la risoluzione non è ovviamente vincolante per gli Stati).
In realtà la proposta si colloca saldamente all’interno della logica del debito su cui è fondata l’architettura dell’euro: siamo ben lungi da quella “naturale” collaborazione tra banche centrali e governi (anche sotto forma di monetizzazione diretta del deficit/debito) che sussiste in qualunque paese avanzato “normale”. C’è poi un altro punto: se mai questo strumento verrà attivato, a prescindere dalla sua dubbia utilità, i tempi saranno piuttosto lunghi: come si diceva, si baserà sul prossimo bilancio UE (2021-2027) e dunque prevedibilmente inizierà ad essere disponibile non prima di gennaio 2021 (a meno che non si riesca a reperire qualche spicciolo da ciò che rimane del bilancio attuale).
Fino a quel momento, dunque, le uniche risorse fiscali “europee” a disposizione degli Stati membri rimarranno quelle del Meccanismo europeo di stabilità (MES). Non è casuale, infatti, che la risoluzione di ieri, al paragrafo 23, «invita gli Stati membri della zona euro ad attivare i 410 miliardi di EUR del meccanismo europeo di stabilità con una linea di credito specifica». Insomma, nihil sub sole novum.
Il voto dei partiti italiani nel Parlamento europeo offre, infine, qualche spunto di riflessione interessante. Il Movimento 5 Stelle ha votato – insieme al PD e, curiosamente, ai “sovranisti” di Fratelli d’Italia – a favore della mozione dei Verdi che chiedeva l’emissione di eurobond/coronabond, cioè una piena mutualizzazione del debito futuro, mozione bocciata però grazie al voto contrario della quasi totalità del PPE. Mentre ha votato contro il paragrafo 17 della risoluzione, ovvero quello in cui si parla dei “recovery bond”. Come ha dichiarato l’europarlamentare pentastellato Ignazio Corrao: «Abbiamo votato contro perché si prestava a cattive interpretazioni e prevedeva, inoltre, un aumento dei contributi nazionali dei paesi membri attraverso il bilancio europeo e un pacchetto di misure per la ricostruzione basato sul MES, che noi non condividiamo. Inoltre lì si parla di recovery bond solo attraverso una garanzia del bilancio UE, ma senza alcuna mutualizzazione del debito, che noi invece auspichiamo come dimostrato dal voto a favore all’emendamento presentato dai Verdi». Sempre per questa ragione – riferimento al MES e assenza degli eurobond – i 5 Stelle si sono poi astenuti sul voto finale, mentre solo tre di loro – Ignazio Corrao, Piernicola Pedicini e Rosa D’Amato – hanno votato contro.
La Lega invece ha votato contro la mozione che chiedeva l’emissione di eurobond – come ha dichiarato Zanni, capo delegazione della Lega al Parlamento europeo: «Non siamo mai stati a favore dello strumento coronabond, che corrisponderebbe alla totale cessione di sovranità all’UE» –, mentre si è astenuta sul paragrafo 17, quello che chiede la creazione dei recovery bond, probabilmente per gli stessi motivi dei 5 Stelle (il riferimento al MES), anche se allora non si capisce perché non abbia votato contro anch’essa invece di limitarsi all’astensione. La Lega, insieme a Fratelli d’Italia, ha poi votato contro la risoluzione finale.
A ben vedere, il voto della Lega – in particolare l’opposizione agli eurobond, che nei fatti rafforzerebbero il carattere oligarchico della UE, accentrando ulteriore potere nelle mani di istituzioni anti-democratiche quali la Commissione europea – appare quello più coerente con lo spirito di un partito suppostamente “sovranista”, seppure a giorni alterni. Semmai l’incoerenza consiste nel rifiutare qualunque strumento europeo senza però avere il coraggio di abbracciare esplicitamente l’ipotesi di un’uscita dalla moneta unica (o accarezzando ipotesi fantasiose come la monetizzazione del deficit/debito da parte della BCE), lasciando così l’Italia nel limbo delle regole attuali. Più curioso invece il sostegno del Movimento 5 Stelle e di Fratelli d’Italia alla proposta degli eurobond, che colloca saldamente i due partiti nell’area dell’“ultra-europeismo”.
Insomma, grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione – ahinoi – è tutt’altro che eccellente.
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