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Intervista a Nello Preterossi
Ripubblichiamo questa intervista al nostro direttore da parte di Maurizio Caverzan apparsa oggi 19 aprile sul giornale “La Verità”
Un sito che si chiama La Fionda. Un blog no global nell’era dei giganti del web, delle piattaforme, di Instagram. Fresco di nascita, il 31 marzo scorso, ma già ricco di interventi e approfondimenti di una trentina di autori, tra i quali Carlo Galli e Umberto Vincenti. Diretti da Geminello Preterossi, toscano, laureato alla Normale di Pisa, docente di filosofia del diritto e storia delle dottrine politiche a Salerno, autore di studi sulla democrazia, sul populismo, su Carl Schmitt e direttore dell’Istituto italiano per gli studi filosofici. Uno che si definisce «di sinistra», anche se, ormai, per l’evoluzione subita negli ultimi decenni, «dire sinistra è quasi dire una parolaccia».
Invece l’idea della Fionda è romantica. Ce la spiega?
«È un sito-rivista, espressione di una comunità di studiosi di politica e diritto, insegnanti, informatici, semplici appassionati. Persone sparse in tutta Italia, impegnate fuori dai partiti tradizionali. Dalla crisi del 2008, primo scossone alla globalizzazione, abbiamo approfondito le istanze di ciò che viene chiamato populismo. Ribellandoci all’espropriazione della sovranità democratica e riproponendo i diritti sociali e del lavoro».
Una comunità orientata a sinistra?
«Una comunità plurale, convinta che la sinergia tra neoliberismo e globalizzazione abbia effetti esiziali».
Chi è Davide e chi è Golia?
«Golia sono i giganti digitali e la grande finanza. Ciò che il sociologo Luciano Gallino chiamava <il finanzcapitalismo>. Se i colossi finanziari, che non rispondono alla comunità politica, impongono ovunque l’ordine mondiale neoliberale, il risultato è il caos con strati crescenti di popolazione inferiorizzata».
E Davide?
«Sono le comunità, i cittadini. Direi il popolo, se non sembrasse una provocazione. Davide è qualcuno che non ha paura di mirare dritto. Il popolo è fatto di tanti interessi e componenti, ma una cosa lo caratterizza, oggi: è tutto ciò che non è establishment. Sono gli esclusi, in aumento nel sud Europa e nel ceto medio, sempre più sottomesso».
Nell’editoriale d’esordio ha scritto che uno degli obiettivi è mostrare «l’inconsistenza della filosofia global-progressista»: come?
«Smentendo l’idea che globale è bello di per sé. E smontando l’illusione che, sulle ali della tecnologia, dalla famiglia e dalla tribù si arrivi direttamente alla dimensione planetaria. In mezzo ci sono le città, gli Stati e gli imperi, le strutture reali della convivenza».
L’esplosione della pandemia rafforza le visioni globaliste e l’universalismo politico?
«Ci sono forze che spingono verso questa omologazione. Una grande convergenza, svincolata dai popoli, ognuno con la propria storia. Credo che al posto di universo, si dovrebbe parlare di multiverso o pluriverso. Ci sono identità, tradizioni, interpretazioni. In passato c’erano la Nato e i Paesi del Patto di Varsavia. Poi c’è stata l’ondata neoliberista con Margaret Tatcher e Ronald Reagan. C’era comunque un grande dibattito. Dopo l’avvento di Tony Blair e Bill Clinton si è immaginata una prospettiva irenica universale, che appiattisce le differenze e cancella la mediazione dei conflitti. I quali, teoricamente, dovrebbero scomparire. Invece aumentano…».
Se il virus non conosce confini lo si può combattere solo in una prospettiva globale?
«Il virus è globalista, non sovranista. È l’inveramento della globalizzazione finanziaria. Il virus ha bloccato il motore della globalizzazione, riproponendo la necessità del ruolo dello Stato».
Il virus ha messo in evidenza anche la fragilità dell’Europa. Le scuse di Ursula von Der Leyen sono un’inversione di tendenza reale?
«Per carità, con quel profilo da visitor… Guardiamo ai fatti, non alla retorica. I fatti sono che ogni Paese guarda a sé stesso. A partire dalla Germania che si è fatta il bazooka di 550 miliardi fuori dal bilancio dello Stato. C’è una banca centrale senza uno Stato unitario. Si dovevano costruire gli Stati Uniti d’Europa, ognuno con la propria autonomia, ma non è andata così. La tecnocrazia non può sostituire la politica. Gli Stati del nord rifiutano la condivisione dei rischi. Lo si è visto durante la crisi della Grecia. Lo stiamo vedendo oggi. L’emissione degli eurobond sarebbe un inizio di condivisione del rischio. Ma non ci sarà».
Invece ci sarà il Meccanismo europeo di stabilità?
«Alla fine ce lo faranno ingoiare. Ci sono spinte forti, tutto l’establishment italiano – Pd, Italia viva, Forza Italia – è favorevole. Anche se accettassimo la parte che riguarda la sanità, il trattato di base ci porterà la Troika sull’uscio di casa. Ci sarebbero conseguenze nefaste sul welfare, le pensioni, l’occupazione. Non credo che i fautori del Mes non sappiano che su questa strada diventeremo un protettorato votato al vincolo esterno, imposto dall’economia tedesca che privilegia la lotta all’inflazione su quella alla disoccupazione».
E allora perché insistono?
«Per due motivi. Uno ideologico: l’illusione globalista contraria alle identità e fautrice dell’omologazione. L’altro strategico: il timore che l’unica alternativa sarebbe finire in mano ai populisti».
Di che cosa è sintomo la proliferazione in Italia di commissioni, comitati, task force a tutti i livelli?
«La sensazione di una delega ai tecnici è molto più di una sensazione. Personalmente sono convinto che il potere decisionale deve rimanere in capo alla politica, titolare di una visione complessa e dell’opera di bilanciamento fra le varie componenti».
Crede anche lei che siamo di fronte a una sorta di clonazione del governo?
«Di fronte a questo evento inedito la compagine governativa ha mostrato i suoi limiti. Ma c’è anche una tendenza che viene da lontano. Nel sistema neoliberista, lo Stato si funzionalizza e spoliticizza, mentre, al contrario, le tecnocrazie si politicizzano. Così, però, i cittadini non si ritrovano perché con il voto legittimano dei rappresentanti, ma le decisioni le prendono altri».
Si ricorre ai tecnici quando il gioco si fa duro?
«Sulla scorta dell’illusione che siano neutrali. L’abbiamo già visto con il governo di Mario Monti».
Arrivato come il salvatore…
«In realtà, si è comportato come un emissario straniero. Per caso ha ridotto il debito pubblico? Semmai ha ridotto il debito con l’estero e i salari. Per non parlare del disastro degli esodati. I tecnici non sono mai neutrali. Dietro l’aura dell’oggettività, fanno passare una visione».
Per esempio?
«Se ci si occupa solo di domanda estera significa che si privilegiano le grandi imprese a scapito di chi vive di domanda interna, piccole aziende, commercianti, partite Iva».
La soluzione?
«Dev’essere la politica a guidare».
Anche se è di tutta evidenza che i governanti attuali non siano all’altezza di questa situazione?
«Nella prima fase di fatto hanno governato i virologi. Ora avanzano priorità economiche, strategiche, psicologiche, di orientamento».
Per questo è nata la task force per la Ricostruzione guidata da Vittorio Colao.
«Persona stimata, come lo sono gli altri esperti».
Forse un po’ tantini… La ricostruzione del dopoguerra la guidò Alcide De Gasperi, che non era un tecnico.
«Nemmeno Pietro Nenni e Palmiro Togliatti lo erano. Siamo in presenza dell’ennesima delega: dicci come dobbiamo fare».
Per il dopo si sente molto parlare di Mario Draghi.
«Lo vuole un bel pezzo di establishment, apparati dello Stato, il Pd, Italia viva. Non credo che Lega e Fratelli d’Italia approvino un governo tecnico. Forse potrebbe servire a liberarsi del premier attuale. Personalmente, auspicherei un governo di unità nazionale».
Ci sono le condizioni?
«Probabilmente no. Resta la via maestra del voto, il bagno di democrazia. Quando si devono affrontare sfide alte la legittimazione popolare è fondamentale. Se non c’è, il limite strutturale viene a galla. E poi dobbiamo tener conto di un altro fattore».
Quale?
«Che dopo ogni governo tecnico, come abbiamo visto con Monti, la divaricazione tra élite e popolo aumenta».
Anche il conflitto tra regioni e governo non fa ben sperare.
«La riforma del Titolo V della Costituzione fatta dal centrosinistra è venuta al pettine. È mancata una definizione delle competenze. Infatti, la Corte costituzionale non fa che occuparsi di questo. Dove ci sono regioni più organizzate come al nord, l’Emilia Romagna e la Toscana, ci si salva. Altrove la situazione è tragica. La sanità della Calabria e della Sicilia sono perennemente commissariate. L’attivismo del governatore della Campania serve a mascherare gravi responsabilità nella gestione del sistema ospedaliero».
L’ultima task force nata è quella delle Donne per il Nuovo Rinascimento. Serviva?
«Mi sembra un’operazione simbolica, piuttosto retorica. Se si vogliono dare segnali forti serve ben altro».
Per esempio?
«Sono favorevole alla riapertura di cinema e teatri. Ovviamente nel rispetto delle normative. Meno pubblico nelle sale e opere con pochi attori, ma sarebbe un segnale forte. Anche la riapertura di osterie e trattorie lo sarebbe, non siamo il Paese di McDonald. Ma se quelle attività resteranno chiuse un anno, potranno non riaprire più. Inoltre, La riapertura di scuole e università è fondamentale. Non bisogna trasmettere l’idea che far didattica online sia più figo. No, la cultura è un’esperienza incarnata, di relazioni reali. Paesi arrivati dopo di noi stanno già riaprendo».
La sinistra di governo sta pensando alla patrimoniale e alla regolarizzazione degli immigrati per l’agricoltura.
«Si comincia con la tassa sopra gli 80.000 euro e si arriva al prelievo nei conti conti correnti che sono il risparmio delle famiglie. Le vere ricchezze su cui intervenire sono nei paradisi fiscali. Questo è il momento di mettere denaro, non di toglierlo».
E la regolarizzazione degli immigrati?
«Per carità, buona cosa. Ma mi sembra il modo per buttare la palla in calcio d’angolo e parlar d’altro. Per regolarizzare gli immigrati servono vere politiche sociali. Che non si stanno facendo per nessuno. Altrimenti dopo averli regolarizzati li abbandoneremo nelle periferie alimentando il degrado sociale».
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