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L’effetto fionda del petrolio sul Coronavirus

Le quarantene diffuse intorno al globo a causa dell’epidemia da coronavirus hanno generato un fermo biologico per gran parte delle economie mondiali, le quali in modo diretto o indiretto hanno subìto e continuano a subire una brusca frenata.
Dobbiamo certamente ringraziare il sottile equilibrio che ci ha portati a correre sul filo del rasoio chiamato “economia globalizzata”, ebbene quello che dai più era definito fino a pochi giorni fa il fisiologico frutto inevitabile degli eventi e dello sviluppo economico e sociale, adesso rischia seriamente di mostrarsi come un paradigma sbagliato e non più applicabile.
In un contesto nel quale tutte le economie sviluppate del mondo si apprestano a registrare tassi di crescita negativi, l’unico che si salva è il gigante dagli occhi a mandorla.
Come se non bastasse il fattore pandemico, il prezzo del greggio , elemento legato ad esso a filo diretto, rischia di essere una fionda elastica, una leva di grosse dimensioni nell’amplificare gli effetti recessivi dell’economia globale, influendo non esclusivamente sul piano economico – da cui ricordiamo deriva il “benessere” delle persone – ma mettendo una seria ipoteca sugli equilibri geopolitici e sociali dei restanti tre quarti del mondo.
Sin dal mese di Gennaio si è assistito ad una brusca discesa della domanda di greggio, causato dallo shutdown totale dell’intera provincia dell’Hubei, la regione cinese in cui si trova la ormai famosa città di Wuhan (origine geografica del virus) e che conta una popolazione di 58 milioni di abitanti, praticamente paragonabile all’intera Italia. A differenza di quanto disposto dalle misure restrittive italiane, nell’enorme provincia cinese il blocco è stato totale, riguardante sia i civili, limitandone le libertà di movimento, ma soprattutto intimando la sospensione di tutte le attività produttive, fattore che ha comportato una prima fase di choc dell’offerta in quanto si è fermata la produzione di interi segmenti di mercato, ma soprattutto andando a diminuire drasticamente la domanda di petrolio, materia prima necessaria non solo alla produzione di carburanti, ma fondamentale per tutte le trasformazioni di materiali plastici e chimici.
Gli choc petroliferi nel tempo sono abbastanza frequenti, seppur di minore entità, e sarebbero anche facilmente regolabili da parte dei produttori, purché essi si dimostrino in maggioranza d’accordo nel procedere nella stessa direzione, al fine di riequilibrare il punto d’incontro tra domanda e offerta, ad essi basterebbe infatti diminuirne momentaneamente l’estrazione, affinché se ne abbassi artificiosamente l’offerta e si raggiunga un prezzo a tutti egualmente favorevole.
La soluzione sembrerebbe semplice se tra i paesi del mondo non vi fossero situazioni di rivalità e antagonismo economico, a tal proposito è importante annoverare che la Russia, in virtù dei suoi più bassi costi di estrazione in confronto a quelli statunitensi, ha addirittura aumentato negli ultimi mesi le quantità offerte di greggio al puro scopo di fare un “dispetto” agli Americani, i quali non sono stati abbastanza celeri e incisivi nel trovare l’accordo col cartello dell’opec.
Ovviamente dal mese di Marzo in poi l’espandersi dell’epidemia e l’allargarsi diffusamente a macchia d’olio dei relativi shutdown in giro per il globo, non ha fatto altro che aggravare il problema riguardante il mercato dei combustibili fossili.
Addirittura nella giornata di lunedì 20 aprile il prezzo dei futures [i] del greggio hanno raggiunto il valore storico negativo di meno 37 dollari al barile, ovvero alcuni speculatori si sono visti costretti a pagare i propri clienti affinché si prendessero carico del proprio prodotto; non volendo entrare nello specifico di una trattazione sull’aleatorietà del mercato dell’oro nero, possiamo però fare alcune considerazioni sui frutti che questo choc senza precedenti potrebbe comportare.
Dobbiamo considerare che esistono intere economie nazionali che si basano del tutto sull’esportazione di petrolio, e allora così come negli ultimi decenni essa ha generato incalcolabili ricchezze per i paesi arabi come Emirati, Arabia Saudita, Quwait, allo stesso modo oggi rischia di gettare sul lastrico intere economie nazionali.
È anzitutto necessario comprendere come tra i diversi produttori non tutti subiscano gli stessi costi di produzione (dislocazione geografica dei pozzi, profondità di estrazione, costi della manodopera, costi d’impianto) il che comporta che per qualsiasi quantità essi siano impegnati a produrre, al di sotto di un determinato prezzo alcuni tra i produttori siano costretti a vendere in perdita, cosa chiaramente non sopportabile nel lungo periodo.
Le nazioni arabe annoverate in precedenza hanno avuto anni per differenziare le loro economie, investendo sia internamente che all’estero in settori strategici del tutto diversi, grazie alle ricchezze prodotte dal petrolio e dalla sua crescente domanda; contestualmente esistono realtà totalmente diverse di paesi che non disponendo di un substrato economico strutturato devono all’esportazione del greggio la loro stessa sopravvivenza: Algeria, Libia, Iran, Siria, Venezuela, solo per citarne alcuni, non godendo di autosufficienza economica e produttiva dei rispettivi mercati interni, hanno costante necessità di rivolgersi al mercato internazionale per l’approvvigionamento di tutta una serie di prodotti, specialmente semilavorati e prodotti finiti, talvolta anche di vitale importanza.
Il probabile perdurare della pandemia rischia di generare una crisi simmetrica perenne – sia della domanda che dell’offerta – della durata di anni, e prefigurandosi un crollo del greggio che difficilmente possa ristabilizzarsi ai valori pre-covid19, con tutta probabilità i paesi esportatori si troveranno in una scomoda posizione delle loro bilance commerciali.
Le minori entrate di moneta estera andranno a scompensare la capacità di acquisto dei paesi interessati anche su quei prodotti di vitali importanza come farmaci, dispositivi di protezione e medicali, articoli certamente sempre più strategici in questo momento. Essi potrebbero essere tentati di monetizzare il loro scompenso andando ad aumentare fortemente l’offerta di moneta interna, che contestualmente alla crisi di bilancia dei pagamenti, vedrebbe sempre più ridurre il suo valore proporzionalmente alle altre monete sovrane, trasferendo così la perdita di valore anche nell’economia interna e generando perciò alti livelli di inflazione.
Non volendo appesantire la trattazione, è comunque facile ipotizzare come a livello internazionale la caduta di prezzo del petrolio possa innescare dei processi di acutizzazione del disagio sociale oltre che economico anche in paesi che contano svariati milioni di abitanti, mettendo a rischio non solo la vita dei propri cittadini ma l’intero equilibrio geopolitico del globo.
A questo punto, che ci sia l’eurone o la liretta, viene quasi il dubbio che dovremmo per una volta esultare di vivere in un paese produttore di prodotti finiti e scarso di materie prime, in quanto, almeno in quest’ambito, la crisi petrolifera potrebbe solo avvantaggiarci rendendo quasi gratis l’approvvigionamento energetico e producendo un qualche vantaggio nella nostra bilancia commerciale.
Tutto sta a vedere su quale sarà da qui a pochi mesi la condizione della nostra economia nazionale, a tal proposito l’ottimismo del pluricitato “Andrà Tutto Bene”, potrebbe non bastare.
[i] I futures, (dall’ing. future contracts) sono dei contratti a termine futuro definito. Nel caso descritto essi rappresentano una promessa di fornitura ad una data certa, nello specifico quella da svolgersi nel mese di maggio.
I futures sono uno strumento ideale per gli investitori speculativi, essi in realtà non hanno alcuna volontà di acquistare ingenti quantità di petrolio al fine di utilizzarle, bensì tentano di marginare la differenza tra il valore pagato al momento dell’acquisto e quello ricevuto al momento della cessione del contratto.⇑
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