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Per un 25 aprile di riflessione, ostinata e contraria
La quarantena ci consegna un 25 aprile anomalo: siamo costretti a celebrarlo rimanendo nelle nostre case per gli effetti di un «virus globalista», come Geminello Preterossi ha brillantemente definito il Coronavirus. Prima di abbandonarci alla malinconia, questa può essere l’occasione per riflettere sull’effettiva centralità della Festa di liberazione e i suoi molteplici significati. La natura ambigua, mutevole e controversa dei riti nazionali non sempre sfocia nella forte contrapposizione che ha attraversato la narrazione della Resistenza (termine già di per sé problematico e problematizzabile), separando il racconto neutralizzante delle istituzioni repubblicane da quello connotato politicamente da movimenti e forze partitiche. Questa divisività non è solo frutto di quella conflittualità di pretta marca individualistica che il senso comune e una storiografia esterofila, snob, compiaciuta e compiacente allusivamente attribuisce agli Italiani: le date fondative, le cesure, le periodizzazioni, soprattutto quando hanno valenza collettiva, sono sempre, in una certa misura, divisive. Pensiamo ai conflitti sorti in Francia sull’interpretazione del mito nazionale di Giovanna d’Arco, della Rivoluzione o dell’età napoleonica. Il 25 aprile è per me un mito: di unità e solidarietà, di popolo e di istituzioni repubblicane, di libertà, uguaglianza e fratellanza, di patria e di nazione. Naturalmente, il mito non è storia. Nella civiltà greca, mythos è l’opposto di logos: da una parte, il discorso, popolato da epifanie, divinità, culti e riti, sulle fondazioni mitiche della realtà; dall’altra, il discorso razionale, scientifico e ordinato, motore di un sapere laico e secolarizzato. Il mythos naturalmente può essere veicolo di contraffazione, strumento di potere, modo per occultare la verità, cancellare i diritti, la democrazia. Ma il mito è solo questo? Intanto, si dica che il mito è sempre un campo di battaglia – come dimostrato dalle infinite quaestiones sul significato da attribuirsi alle celebrazioni appuntate nei calendari nazionali –, e il “genere” è oggetto di molteplici variazioni letterarie. Si pensi, per fare un esempio, ai Promessi Sposi, exemplum di romanzo storico italiano, nel quale l’espediente narrativo del ritrovamento di un manoscritto del Seicento è occasione per Alessandro Manzoni per addivenire a una ricostruzione storiografica della Milano governata dagli Spagnoli psicologicamente e sociologicamente accuratissima, e capace, più della maggior parte della letteratura “scientifica”, di catturare l’intrico tra storia e immaginazione, memoria e desiderio, potere e consenso, popolo e classe dirigente, religione e secolo, credulità e fede. Il genere del romanzo storico trova nel passato la spiegazione del presente, il mito raccontato dall’epica fantasy o fantascientifica proietta il tempo storico in una dimensione atemporale, nella quale i rimandi alla storia non rivestono un ruolo fondamentale per l’economia simbolica dell’opera. La differenza tra il mito repubblicano del 25 aprile e il mito della fondazione della Comunità europea è la stessa che intercorre tra i Promessi Sposi e la saga di Tolkien.
Il mito della Resistenza porta con sé una storia nazionale che sarebbe quantomeno ingeneroso, quando non “scientificamente” scorretto, far coincidere con la parabola dello Stato unitario. Come argomenta in modo piuttosto convincente l’antropologo e sociologo Anthony D. Smith, le nazioni moderne nascono su un fondo di memorie etniche[i], miti e tradizioni collettive trasmesse di generazione in generazione già in epoca premoderna. Senza storia non c’è nazione e senza nazione si riduce il raggio dei sentimenti necessari alla coesione sociale, come la solidarietà o la fratellanza tra diversi, sentimenti che divengono caratteristiche permanenti dell’agire in una res publica nel momento in cui si viene educati a pensarsi entro una certa forma di pensiero e di azione: educazione è in fondo sempre ricondurre al limite senza sopprimere il movimento e l’espansione del sé. Del resto, come ricorda Benedict Anderson, il problema della nazione non è nella sua presunta falsità o genuinità, quanto nello stile in cui è immaginata. Ogni comunità ha un’immagine di sé stessa e quando questa immagine vuole avere dei contorni, deve immaginarsi dei confini, ancorché elastici: «Nessuna nazione s’immagina confinante con l’umanità»[ii]. Senza il contenitore politico e culturale della nazione, i sentimenti di fedeltà e solidarietà li riverseremmo unicamente nel raggio ristretto del nucleo familiare, tribale, clanico, lobbistico.
Il mito europeista, invece, è un mito in fuga dalla storia, per citare il titolo di un pregevole articolo di Federico Petroni, pubblicato di recente da Limes[iii]. È in fuga, anzitutto, dalle sue stesse supposte radici. Come segnala Smith, i miti, le memorie e i simboli unificanti europei sono «divisivi e inaccettabili come il cattolicesimo o il Sacro Romano Impero, oppure carichi di ricordi amari come le tradizioni rivoluzionarie o le guerre mondiali»[iv]. A ciò si aggiunga la presenza di altre tradizioni culturali europee (la tradizione umanistica, romantica, socialdemocratica) che va a complicare ulteriormente la possibilità di successo di una ricomposizione unitaria, facilitando paradossalmente il ripiegamento nazionalistico. Più in generale, poi, se la nazione è, come concetto operativo, una «popolazione umana provvista di nome che occupa un territorio o una madrepatria storici e condivide miti e memorie, una cultura pubblica di massa, una singola economia, diritti e doveri comuni per tutti i membri»[v], possiamo accostare questa caratterizzazione alla realtà effettiva della polis europea? Basterebbe citare tutti i casi nei quali la cosiddetta “Europa” ha voltato il capo dall’altra parte quando si è trattato di aiutare i Paesi in difficoltà sul piano economico o nella gestione delle periodiche crisi migratorie. Al discorso fondativo europeo, inoltre, manca, a tutti gli effetti, quel momento di fondamentale valore rivestito dal farsi di una coscienza collettiva che emerge dalla lotta di un popolo contro il nemico, dall’autentica sofferenza provata nel nome di un codice culturale, morale, spirituale, sentito come unitario. Sofferenza e memoria, come sosteneva Theodor W. Adorno, sono i poli fondamentali entro cui giocarsi la comprensione della storia: «L’elemento storico nelle cose non è che l’espressione della sofferenza passata» (Minima moralia); lo stesso ovviamente può dirsi anche della nazione. Se prendiamo la Seconda guerra mondiale, non possiamo parlare di un popolo europeo che lotta in nome dell’indipendenza e della libertà. Al più, possiamo individuare nazioni che si ribellano all’invasore nazista, nazioni divise da una guerra civile (come l’Italia) al cui interno una parte lotta per affermarsi sull’altra nel nome di una patria sovrana, libera e indipendente. Non c’è nessun europeismo nella lotta contro il nazifascismo. Semmai, andò in scena una guerra civile europea, nella quale la lotta era tra il principio nazionale e il principio imperialista della dittatura fascista e nazista. D’altronde, nessuno potrà mai negare che la nascita della Comunità europea avvenisse in perfetta conformità con il progetto geopolitico atlantico di contenere il comunismo, cioè con l’imperialismo americano. Che cosa vi è di unitario, di indipendente, di sovrano, di libero, di eroico, alle radici dell’europeismo? Pressoché nulla. Eppure, l’europeismo nasce dal proposito di assicurare una via di pace e benessere a un’Europa travagliata dagli orrori e le distruzioni della Seconda guerra mondiale. Può essere sufficiente a costruire sentimenti di fedeltà, solidarietà, coesione sociale? Gli ideali astratti non bastano ad assicurare un saldo legame con l’elemento popolare, come insegnò Vincenzo Cuoco nel suo celebre Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, opera a lungo e ingiustamente considerata come manifesto moderato e antigiacobino, quando invece andrebbe letta come il primo passo di una «ricerca su come realizzare davvero uno Stato costituzionale su scala nazionale»[vi]. Cuoco attribuiva la responsabilità del fallimento della rivoluzione alla scrittura di una carta costituzionale il cui elitismo ignorava le comunità locali, i suoi interessi materiali, il suo linguaggio. Storicamente, la ragione del successo del nazionalismo è connaturata alla sua stessa genesi: al fatto di essere il prodotto della nazione (non il contrario), cioè di riuscire a stipulare legami reali, tanto materiali quanto etnosimbolici, con la collettività: il nazionalismo, infatti, ha la duplice capacità di dare una rappresentanza tangibile agli ideali comunitari e soddisfazione alle problematiche individuali[vii]. A guardare il racconto delle origini dell’Ue, troviamo uomini disincarnati, figure ideali che si siedono attorno a uno stesso tavolo nel segno di un kantiano consenso cooperativo su principî universali e nel nome di un’Europa (e presumibilmente di un mondo) atteggiato a nobili sentimenti di pace e a una materiale prosperità»[viii]. Questo, insomma, il paradigma mitologico dell’Unione Europea: l’idea archetipicamente debole di ogni fondazione illuministica, priva di interesse verso le particolarità, le asperità, le differenze, in una parola la storia, il passato, ciò che per natura è indisponibile al livellamento. La comunità europea deve guardare avanti: a un futuro radioso, «orizzonte perenne, pace e prosperità, come promesse su cui forgiare la nuova comunità, l’avanguardia di élite illuminate, insomma un progetto visionario pensato per liberare i popoli dalle trappole delle nazioni e del nazionalismo, nella convinzione che procedendo per gradi, mattoncino dopo mattoncino, mettendo in comune prima carbone e acciaio, poi i mercati economici, quindi le frontiere, addirittura la moneta, un giorno spontanea l’identità europea sorgerà. Per sciogliere le genti tutte del continente in un unico abbraccio. Fine della storia»[ix]. Fine della storia, appunto, e inizio di un mito senza storia, ovvero “ideologia” nell’accezione spregiativa di costrutto sul nulla: flatus vocis. È questo il significato da attribuirsi alla celebre affermazione di Konrad Adenauer, quella in cui si esprime la necessità che la gente sia soddisfatta nella sua sete di «ideologia e questa ideologia non può che essere europea»[x]; “ideologia” che, quando assolve a questa deliberata funzione, è deliberatamente chiamata in causa in quanto ai suoi effetti oppiacei, ipnotici e cognitivamente distorsivi: un dispositivo ideologico fondato su ciò che John Peel definì «presentismo bloccante»[xi], cioè su una narrazione che riscrive il passato a partire dai bisogni e dalle inquietudini del presente, con il risultato che si cancellano le storie nazionali preesistenti e le si sostituisce con la delegittimazione della memoria nazionalista. È un dispositivo il cui unico e vero scopo è cancellare le identità, non costruirne una nuova.
Ecco, dunque, perché credo che si debba ancora festeggiare il 25 aprile. Non solo per le sue storiche radici risorgimentali, socialiste e democratiche, non solo per le sue idealità di giustizia sociale, libertà, solidarietà ed eguaglianza. Ma anche e forse soprattutto per la sua forza narrativa di dispositivo che rende la patria italiana quella che è; dispositivo che dice l’intraducibilità della patria repubblicana classica nella “neolingua” neoliberale e globalista. Il rito è celebrazione che reimmette all’interno di un tempo ciclico, eterno. Che restituisce all’essere umano una dimensione di trascendenza. Che lo rende capace di vedersi dall’alto e di autopercepirsi sia come parte di un tutto, sia come un tutto in quanto parte. Il 25 aprile è a mio parere celebrazione bifronte: Giano della liberazione della patria italiana dal nazifascismo e della rivendicazione all’esistenza di ogni patria particolare. Come ricorda opportunamente il filosofo conservatore Yoram Hazony, infatti, non si tratta di «negare o giustificare le numerose ingiustizie perpetrate dai nazionalisti di vari Paesi, né di credere che un ordinamento di Stati nazionali ci trasformi in santi nel futuro. Credo, però, che patrocinare la causa dell’impero, assieme all’ideale di ricondurre il mondo sotto un’unica autorità e un’unica dottrina, sia sostenere qualcosa di ancora peggiore»[xii]. Quando i neoliberali sostengono che l’imperialismo globalista sia molto diverso da quelli del passato poiché animato da nobili ideali (pace e prosperità), sarebbe forse opportuno suggerir loro che l’esperienza passata dovrebbe indurre la diffidenza invece della fiducia: l’utopismo astratto, infatti, spesso consuma i nobili ideali, convertendoli nell’odio dell’universale verso la causa particolare che non si sottometterà. Così, i nobili assertori della pace universale potranno un giorno ritenere che non vi sia «altra alternativa se non il ricorso alla coercizione dei dissenzienti – siano singole persone o nazioni – con cui conformarli forzatamente alla teoria universale, per il loro stesso bene (il corsivo è mio)»[xiii]. La mancanza di questa consapevolezza ha spesso fatto percepire la celebrazione del 25 aprile in termini consapevolmente spregiativi di liturgia. Erano altri tempi, si dirà: tempi che, però, si allineano su un piano di coerenza discorsiva, all’oggi, in virtù di una comune avversione nei confronti di patria e nazione (quindi nei confronti dell’ordine tanto politico e culturale che emerge dalla storia profonda delle comunità collettive) espressa ai nostri tempi dal vernacolo scetticista postmarxista/postmodernista. Significativa (ma non sorprendente) coincidenza discorsiva tra coloro che lottavano (anche militarmente) per una resistenza eterna («Ora e sempre») nei confronti del fascismo eterno dello Stato (italiano) e la reductio ad unum offerta oggi dall’«antifascismo militante» sui generis della langue globalista[xiv]: versione aggiornatissima di concordia discordantium canonum che trova in un paradigma antinazione fortemente ideologizzato uno zoccolo duro di straordinaria forza e capacità egemonica. Tale paradigma si basa su una serie di costrutti “ideologici” (nella sullodata accezione) che non ci possiamo esimere dal ricordare, soprattutto in ragione dell’imminenza del 25 aprile: patria/nazione come frutto avvelenato del nazionalismo (cagione degli orrori novecenteschi) e della modernità capitalistica; patria/nazione come manufatto culturale consapevolmente prodotto dalle élite; patria/nazione come invenzione artificiale, frutto dell’immaginazione massmediatica e sociale. Per conferirvi forza, un po’ più “da sinistra”, l’operaismo infioretta il tutto con la considerazione che nazione e nazionalismo sono ciarpame retrogrado e barbarico, da superare con l’apertura a merci e persone, perché in fondo l’impero è fragile e le moltitudini desideranti e intimamente comuniste hanno in sé la potenza più che sufficiente per ribaltarlo: basta volerlo, praticando la pluralità, l’apertura, l’inclusione, l’illimitatezza della fantasia creatrice: dove coltivare meglio questi frutti proibiti se non nel meraviglioso giardino d’Armida delle élite emancipate, illuminate e globalizzanti del nostro tempo? Credo, in modo ostinato e contrario, che per cominciare a liberare il 25 aprile da sé stesso, per così dire, lo si debba ricollocare da dove viene, e cioè da tutto ciò che non ci è permesso di vedere rimanendo all’interno della Weltanschauung neoliberale e postnazionalista, modernista e postmodernista, scettica e costruttivista di gran parte della storiografia mainstream e del senso comune. Ricominciare a dare fiducia alle formule apparentemente vetuste che abbiamo ereditato: a partire dalla significazione della Resistenza come Secondo Risorgimento, per esempio; o da interpretazioni che leggevano la continuità tra il pensiero repubblicano ottocentesco e la lotta partigiana, tra il “popolo” delle plebi urbane del 1848 e della Repubblica romana a quello proletario e partigiano che decise di prendere le armi per difendere la patria contro il fascismo e il nazismo. L’Italia di oggi è principalmente ostaggio del «presentismo bloccante» e gli Italiani non sembrano più in grado di capire come il passato sia stato ridisegnato all’interno dell’ideologia dominante. Tuttavia, il 25 aprile è ancora lì, alle porte, e occorre aprirgli: per opportunamente ripensarlo e riviverlo, per permetterci di recuperare il passato e farlo incontrare con il presente. È solo in questo modo che si riuscirà a modificare i parametri culturali e simbolici del presente: rovesciando copernicamente di senso alla traiettoria del discorso storiografico: dal passato al presente e non dal presente al passato.
[i] L’elemento etnico, per lo scienziato sociale britannico va inteso nell’accezione neutrale e operativa di matrice etimologica francese e inglese, si vedano i lemmi e sintagmi ethnie, ethnic group e ethnicity, non nel senso biologico di razza. ⇑
[ii] Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Laterza, Bari-Roma 2018, p. 11 ⇑
[iii] Federico Petroni, Il mito europeista in fuga dalla storia, in «Limes», n. 2 (2020), pp. 161-172. ⇑
[iv] Anthony D. Smith, La nazione. Storia di un’idea, a cura di Alessandro Campi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, p. 107. ⇑
[vi] Paolo Peluffo, Il risorgimento lungo. L’Italia nazione che non si vuole impero, in «Limes», n. 2 (2020), p. 52. ⇑
[vii] A. Smith, La nazione, cit., p. 89. ⇑
[viii] F. Petroni, Il mito europeista, cit., p. 161. ⇑
[xi] A. D. Smith, La nazione, cit., p. 89. ⇑
[xii] Yoram Hazony, Le virtù del nazionalismo, Guerini e associati, Milano 2019, p. 315. ⇑
[xiv] È forse qui quasi inutile citare le opere dell’intellettualità ed editoria italiane in merito; ma si citino almeno due casi in certo modo esemplari: la scrittrice Michela Murgia, che da «abbacadora» si fa levatrice di novella patria ribattezzata, ça va sans dire, «matria», nonché teorica socio-politica con la pubblicazione del catechismo della “Chiesa globalista-alt-left” intitolato Istruzioni per diventare fascista, ma dal sottotitolo, ben più alto e istruttivo, di «Fascista è chi il fascista fa»; l’estenuante ristampa del libercolo echiano sul fascismo come tentazione eterna dello spirito delle masse italiane.⇑
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