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Costruire il proprio destino. Intervista a Vladimiro Giacchè
Meno di un mese fa Giuseppe Conte affermava “faremo da soli”, qualora la scelta per l’Italia fosse stata quella di ricorrere al Meccanismo Europeo di Stabilità. La decisione del Consiglio europeo del 23 aprile è stata, invece, proprio quella di ricorrere al MES, alla BEI, al fondo per la disoccupazione SURE, con l’ipotesi, ancora poco chiara, d’istituire un Recovery Fund temporaneo, finanziato dai singoli Stati e che dia, non si sa bene se prestiti o trasferimenti ai paesi che ne necessitano. Ne abbiamo discusso con Vladimiro Giacchè, Presidente del Centro Europa Ricerche, dalla metà degli anni Novanta nel settore bancario e finanziario, nonché storico della filosofia e autore di saggi e monografie tra cui La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (2008), Anschluss. L’annessione: l’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (2013, nuova ed. 2019).
Dott. Giacchè, come valuta le misure adottate dall’ultimo Consiglio Europeo? Perché non liberare la BCE dal divieto di monetizzare gli Stati, come stanno facendo le maggiori banche centrali del mondo?
Si è passati dal proclamato rifiuto di utilizzare uno strumento come il MES che non ha senso in questo contesto, perché basato sul debito e perché a noi porterebbe molto poco denaro rispetto al fabbisogno che si è creato a seguito di quest’emergenza (stiamo parlando di qualcosa come 37 miliardi di euro al massimo), all’accettazione di un pacchetto di strumenti che include il MES e in cui l’aspetto comune è che tutti comportano un aumento del debito. Questo vale per il MES, per la BEI e anche per il fondo di assicurazione SURE, che è sostanzialmente diverso da quello che fu proposto dall’Italia qualche anno fa. Allora non si parlava di prestiti, ma si parlava di fondi (simili ai fondi strutturali) per consentire un assorbimento della disoccupazione meno traumatico ai paesi che erano in difficoltà. Fu una proposta lanciata dall’allora ministro Padoan nel 2014, ma per la quale non si trattava di prestiti.
Tutto questo non va bene perché c’è un’altra possibilità per affrontare quest’emergenza, ed è qualcosa di più di una possibilità, nel senso che è quello che stanno facendo tutte le banche centrali del mondo tranne una, ossia monetizzare il debito: consentire un’espansione monetaria finalizzata alla spesa per l’emergenza in atto, ossia attuare una monetizzazione del maggiore debito derivante dalle spese che (non la sola Italia, ma tutti gli Stati europei) dovranno sostenere. Si rifiuta questa via perché nei Trattati europei è scritto chiaramente che è fatto in generale divieto alla BCE di finanziare il debito degli Stati. In realtà si potrebbe osservare che probabilmente con un po’ di buona volontà – tenendo presenti i rischi per la tenuta della moneta unica nella presente situazione – anche questa previsione potrebbe essere superata senza dover neppure cambiare i Trattati. Ma accettiamo il presupposto: noi siamo quindi di fronte a un meccanismo scritto nei Trattati che non si vuole cambiare e su cui non si vuole intervenire neppure in presenza di un’evidente catastrofe come quella attuale.
All’obiezione secondo cui “è scritto nei trattati” bisognerebbe rispondere rovesciando il discorso. È possibile che neppure quando crolla il mondo e ti rendi conto che gli strumenti che messi in campo sono inadeguati e pericolosi ti viene voglia di cambiare strada? Questa secondo me è una perfetta metafora dell’Unione Europea attuale. L’Unione Europea attuale è quella cosa che non cambia strada neppure in presenza di calamità di questo tipo. E qui c’è un tema che secondo me è assolutamente fondamentale, perché è del tutto evidente, ma lo era già nella crisi precedente, che questo approccio sia stato fortemente negativo, soprattutto per alcuni paesi. Ma allora perché dobbiamo riproporlo all’infinito?
Quali saranno gli effetti del MES sull’economia italiana e sul suo sistema bancario?
Ciò a cui ci si è formalmente attaccati negli ultimi giorni è che il MES, presuntamente, non avrebbe condizionalità in questo caso. Questo è assolutamente falso. Già il dire che si possano spendere i soldi esclusivamente per le spese mediche è una condizionalità. Ma c’è di peggio: come previsto dal trattato istitutivo del MES, che non è stato modificato in quest’occasione, il MES stesso potrà decidere a posteriori, non all’unanimità ma a maggioranza qualificata, di applicare delle condizionalità ai prestiti che sono stati fatti. È stato detto abbastanza chiaramente anche dai nostri interlocutori europei in questi giorni che così sarà. Per cui siamo di fronte a una situazione paradossale, in cui per avere dei prestiti che sono assolutamente insufficienti rispetto al fabbisogno attuale, ci andiamo a infilare sostanzialmente in un meccanismo che ci imporrà delle politiche restrittive e di austerità.
È quello che abbiamo già visto in Grecia, anche se con tutte le differenze del caso, perché la situazione italiana è molto diversa per vari motivi: a cominciare da un motivo che tutti dimenticano sempre, cioè l’entità dell’economia italiana all’interno dell’eurozona. Mentre la Grecia poteva essere realisticamente minacciata da Schaeuble dicendo “vi sbatto fuori”, sbattere fuori l’Italia significherebbe che dopo un paio d’ore l’unione monetaria non esiste più. Questo è un punto abbastanza importante perché costituirebbe a mio giudizio, e continuerà oggettivamente a costituire, un elemento di forza negoziale per il nostro paese e non di debolezza.
Tuttavia, si è scelto prima d’imboccare la strada di un negoziato che non aveva molto senso, perché anche i Coronabonds sono ulteriore debito e perché era chiaro che alcuni paesi non li avrebbero accettati, per cui si sarebbe comunque finiti negozialmente in vicolo cieco. Come era logico che, poi, finiti in questo vicolo cieco, ci si sarebbe accontentati delle vaghe promesse sul Recovery Fund: un fondo che, se va bene partirà l’anno prossimo e le cui caratteristiche sono molto incerte – ma sono pronto a scommettere qualsiasi cosa che anche in quel caso si tratterà di prestiti, per cui non cambierebbe la sostanza. In ogni caso, ci si è accontentati da un lato di quelle promesse, dall’altro si è accettato quello che veniva offerto sin da subito, cioè il MES.
L’unico dato positivo in questa situazione, che di elementi positivi non ne ha molti, è che il MES nel quale ci siamo infilati o in cui ci infileremo a breve – e ho visto che venerdì 24 il Parlamento non ha votato una mozione che avrebbe impegnato il governo a rifiutare a ogni modo l’utilizzo del MES – non ha le clausole peggiorative su cui si lavorava da un annetto e mezzo e che stavano andando in approvazione proprio quando è scoppiata l’emergenza coronavirus. Per cui se non altro avremo la versione precedente, che è “meno peggiore” di quella che si stava mettendo in piedi. Ovviamente una parte consistente del nostro mondo politico sarebbe stata favorevole anche a questo secondo MES, con clausole parecchio peggiorative rispetto a quello in cui ci siamo comunque infilati. Ma questo è un altro discorso.
Nel 2012 la Corte costituzionale tedesca si è espressa sulla ratifica del MES, vietando che questo conservi per i ministri e il per Parlamento tedesco quel carattere di segretezza che possiede, invece, per gli altri paesi europei. Il prossimo 5 Maggio la stessa Corte si esprimerà per decidere della costituzionalità del programma di Quantitave Easing della BCE. Lei ha mostrato in un suo saggio (Costituzione italiana contro trattati europei: il conflitto inevitabile, 2015) l’incompatibilità dei principi della nostra Costituzione rispetto ai Trattati europei. Ma perché, allora, non agire anche noi di conseguenza? Si tratta d’incapacità o incomprensione?
Forse per un certo periodo per incomprensione. Ma credo che oggi non si possa più dire questo perché le cose sono ormai molto chiare. Ci sono molti lavori di costituzionalisti che evidenziano in maniera chiara le criticità che ha un’adozione acritica dei Trattati europei. Non sono neanche sicuro che si tratti d’incapacità. C’è la volontà di perseguire un disegno inscritto nella meccanica del “vincolo esterno”, cioè l’idea che questo paese abbia bisogno di un vincolo da fuori per migliorarsi, per essere più competitivo, per risolvere i problemi sociali che le sue classi dirigenti non sono riuscite a risolvere sul terreno della dialettica interna al paese. Questo secondo me è un gravissimo errore. Del resto, abbiamo ormai un’ampia base induttiva per dire che le cose non sono andate benissimo da quando abbiamo deciso di adottare vincoli esterni sempre più stringenti.
C’è quindi questo elemento fortemente ideologico, ma anche un aspetto che credo stia diventando sempre più cruciale, cioè il fatto che abbiamo fatto ruotare tutto intorno a un’interpretazione eccessivamente generosa, e quindi sbagliata, dell’articolo 11 della Costituzione. Si è dato per scontato che la CEE, poi l’Unione Europea, non fossero incompatibili rispetto alla nostra Costituzione e quindi da accettare, senza discutere, tutte le norme particolari emanate all’interno del framework normativo dei Trattati europei; cosa che, appunto, gli altri non fanno. Peraltro, proprio gli esempi contenuti nella domanda ci dimostrano l’importanza di leggere bene l’articolo 11 della Costituzione, che non parla di “cessione”, ma di “limitazioni” della sovranità, e le condiziona tra l’altro alla “parità di condizioni” con gli altri Stati.
Ora, è evidente che se rispetto a una norma europea ho dei vincoli che valgono verso il mio parlamento, ma non verso il parlamento di un altro paese che ha firmato quello stesso accordo, qui la parità di condizioni è venuta meno. Dal mio punto di vista, la parità di condizioni è venuta meno in misura assolutamente sostanziale a partire dalla crisi dei subprime e con la cosiddetta crisi del debito pubblico in Europa, perché lì si sono alterati profondamente i rapporti di forza, per cui i Trattati successivi sono stati firmati da alcuni paesi sotto un vincolo di ricatto. Questo è il punto fondamentale. Il fiscal compact è un gigantesco ricatto nei confronti di alcuni paesi e non ha alcuna motivazione economica plausibile in termini di benessere per questi paesi, come del resto abbiamo visto molto chiaramente nel nostro caso. Sicuramente occorrerebbe una maggiore consapevolezza dei problemi che sono impliciti in un’accettazione acritica e totale di quello che è contenuto nei Trattati europei, sin dai trattati istitutivi ma anche a livello di singole normative. Penso di poter dire che per quanto concerne per esempio la cosiddetta unione bancaria europea, si tratta di una normativa dagli effetti fortemente asimmetrici sui paesi membri e che nel nostro caso ci hanno pesantemente sfavorito. In molti casi, credo ci sia un tema di migliore capacità negoziale, ma anche poi di necessità di un intervento della Corte costituzionale, quando le asimmetrie siano troppo stridenti.
Lo scorso ottobre, all’Università la Sapienza, lei ha presentato una relazione sulla storia dell’economia cinese. Ci sono elementi della storia economica cinese degli ultimi cinquant’anni che possono essere applicati o utili all’Italia?
Parlerei sempre con molta cautela di applicazioni. Questa cautela è fatta propria dagli stessi cinesi, i quali sono sempre molti attenti a non porre la loro esperienza come un modello, sostenendo – ritengo a ragione – che in passato il concetto di modello e di Stato guida abbia fatto abbastanza danni. L’economia cinese attuale credo possa essere caratterizzabile come un’economia mista, in cui c’è una forte componente privata, ma in cui le leve strategiche non sono in mano ai privati. Questo avviene attraverso un uso della programmazione molto spinto e attraverso un particolare tipo di imprese, ovvero quelle di proprietà pubblica, semi pubblica o con partecipazione pubblica, le quali sono il braccio che traduce in pratica gli orientamenti strategici di Pechino in economia.
Il primo tema è proprio questa parola: strategia o orientamenti strategici. Non è un caso, secondo me, che Stephen Roach, uno dei massimi esperti della Cina contemporanea, abbia individuato qualche anno fa nella perdurante presenza di una strategia economica una caratteristica importante della Cina contemporanea. Qui abbiamo un primo elemento, secondo me, che è un elemento molto divisivo: ha senso nel 2020, parlare di strategia in termini economici? La strategia è qualcosa che pianifico in partenza e che adatto alle situazioni. È questa la metodologia della Cina, che è sempre molto attenta a fare un passo dopo l’altro, adattandosi alle situazioni esterne, ma sempre sulla base di una strategia, di una pianificazione. Questo è molto diverso dagli aggiustamenti a posteriori che avvengono in un’economia esclusivamente di mercato in cui tutto è lasciato alla libera dinamica di domanda (pagante) e offerta.
La cosa forse più interessante dell’esperimento cinese è che se noi andiamo a vedere in profondità come funziona, c’è un mix delle due cose: vengono rifiutati gli opposti fondamentalismi, quello del mercato che ha trionfato dopo gli anni Novanta, così come quello di una pianificazione assoluta e presuntamente onnisciente, che in realtà non è mai esistita in concreto da nessuna parte, se non nella mente e nelle intenzioni di qualcuno. L’economia cinese sembra riuscire a muoversi, almeno sino a questa crisi, con successo combinando questi due estremi. E questo non è un fatto soggetto a opinione, ma lo dicono i numeri.
La verità è che parlare di questo ha per noi un effetto un po’ straniante, dato che noi un’economia mista la eravamo fino a prima delle privatizzazioni di massa degli anni Novanta. Era un modello che, con tutti i suoi limiti e una crescente fatica nel mantenersi (dovuta a tanti fattori ma non alla proprietà pubblica delle imprese), era riuscito a far avanzare l’economia italiana. I più straordinari successi dell’economia italiana, quelli che vengono colti nel secondo dopo guerra, dal 1945 alla metà degli anni Sessanta, avvengono sotto l’egida di questo sistema che era appunto un’economia mista. Io credo che un’organizzazione dell’economia che sappia contemperare questi due elementi sia assolutamente necessaria e che, da questo punto di vista, si possa imparare anche dal modello cinese in qualche modo, benché come dicevo di modello in senso proprio non si possa parlare, e non se ne possa parlare in particolare per i paesi industrialmente avanzati. La Cina, se è in qualche modo un modello, lo è per paesi in via di sviluppo che stanno cercando di effettuare anch’essi quel catching up, quel recupero di un’arretratezza storicamente determinata rispetto ai paesi più avanzati, che sinora è riuscito in maniera abbastanza spettacolare alla Cina. Ma per noi il discorso è differente: noi alcune caratteristiche dell’economia mista le avevamo e abbiamo deciso di disfarcene e, a mio giudizio, con risultati non troppo brillanti.
Potremmo riacquisire quegli strumenti che abbiamo abbandonato? Quale sarebbe il percorso da intraprendere per riacquisire anche solo un po’ di quella sovranità necessaria per attuare il programma di Stato sociale espresso dalla Costituzione? Che fare o cosa è possibile fare?
La verità è che attualmente in Italia non è possibile fare molto. Siamo in un contesto caratterizzato da numerose rigidità e da numerose impossibilità. Questo contesto è segnato dalla cornice che è stata creata, costruita in particolare dal trattato di Maastricht, ma a ben vedere già dall’atto unico europeo e che ha il suo condensato, anche simbolico, nella moneta unica. Ora, il problema è che l’assetto dei trattati dice molto chiaramente che i paesi che sono uniti, si trovano in una mutua concorrenza imperniata sulla concorrenza sul piano dei diritti del lavoro tra gli Stati (la “moderazione salariale”) e sul piano della fiscalità. È evidente che, finché questo meccanismo è in essere e finché non si riesce a trovare la capacità di cambiare schema, sarà molto difficile invertire la tendenza.
Mi sembra però che d’altra parte la situazione attuale richieda in qualche modo degli atti di coraggio e li imponga anche. Questo è contraddittorio rispetto ai trattati.
Altre contraddizioni sono emerse in passato. Nel 2008 e nel 2009 tutta la normativa sugli aiuti di Stato è stata buttata alle ortiche per qualche anno, così che gli altri Stati hanno messo a posto i problemi del loro sistema finanziario, mentre noi non lo abbiamo fatto e ci siamo trovati con un grave gap dopo. Anche adesso ci sono forti tensioni ed è evidente che gli aiuti di Stato vengono alleggeriti, come le normative sull’unione bancaria stanno già venendo alleggerite. Ecco, forse questo è un momento buono per osare qualcosa. Ma bisogna avere le idee chiare su un punto: il punto di caduta non è una generica liberazione da Bruxelles o da Francoforte. Il problema è che cosa in concreto vuoi costruire. Perché è evidente che se io voglio costruire il liberismo più liberista del mondo, non ho alcun interesse a uscire da questa cornice di riferimento. Viceversa, ce l’ho se intendo ripristinare uno Stato sociale degno di questo nome, tornare a conferire allo Stato un ruolo che non sia soltanto quello di tappare i buchi quando c’è una crisi.
Questa è una fase in cui probabilmente una capacità di sperimentazione e anche di rottura di certi schemi sarebbe pagante. E questo è anche uno dei motivi per cui sono profondamente deluso dal comportamento del governo italiano in occasione della trattativa di queste settimane. Perché trovo veramente singolare che non sia abbia neppure la capacità di dire quello che ormai scrive anche il Financial Times, ossia che questa è una fase in cui è necessario che vi siano degli interventi delle banche centrali che monetizzino il debito. Se non siamo neppure capaci di ottenere questo in una situazione di emergenza di questo tipo, è lecito nutrire qualche dubbio sulla possibilità di modificare il modello economico che è stato costruito negli ultimi decenni.
Vorrei porle un’ultima domanda che guarda alla sua formazione storico-filosofica. Lei si è formato alla Scuola Normale di Pisa, con una tesi sulla Scienza della Logica di Hegel, ed è di recente di recente pubblicazione il suo Hegel. La dialettica (2020). Qual è stato, a suo avviso, il ruolo della filosofia negli ultimi trent’anni all’interno delle logiche e delle dinamiche del libero mercato, e quale quello che auspicherebbe per essa oggi?
È una domanda complicata. Dagli anni della mia formazione non mi sono poi più occupato di filosofia in termini accademici. Mi sono formato in Normale tra il 1982 e il 1986, poi ho fatto il perfezionamento, quello che oggi si chiama dottorato di ricerca, interrompendolo per un anno per il servizio militare, e terminandolo nel 1990.
Certi processi che poi son venuti chiarendosi erano in fieri, ma già abbastanza visibili, allora. Iniziava una fase fondamentale di sfiducia nelle capacità degli esseri umani associati di decidere il proprio destino. L’Unione Sovietica e i paesi dell’est europeo erano già palesemente in crisi nella seconda metà degli anni Ottanta, in realtà già da molto prima. Non si capiva molto bene quello che stava succedendo in Cina – e devo dire che qualcuno non l’ha capito neppure adesso, quindi allora eravamo giustificati… In generale era tutta la filosofia che cominciava a cambiare il suo orientamento: non era più un orientamento politico, approccio che aveva avuto dei limiti, perché significava avere una filosofia ancella della politica, cosa che dal mio punto di vista non è mai andata bene. Ma ora la filosofia diventava edificazione scissa dalla prassi, proposizione di modelli un po’ astratti di vita, di vita morale, di vita buona, sempre più mild, sempre più smussati, sempre meno spigolosi, sempre meno – per usare questa brutta parola – classici.
Se qualcuno mi dovesse chiedere cosa auspico per l’immediato futuro direi una ripresa dei classici. Il che non significa tornare a pensare che lì dentro ci sia tutto. Non sto parlando nemmeno di singoli autori, quanto di un’impostazione, della classicità come solidità di modelli di vita, come organicità di modelli di società. Io non credo che questa fase, che qualcuno ha contraddistinto come “liquida”, aggettivo applicato un po’ a tutto, sia una fase destinata a rimanere tale. Penso che anche l’ellenismo fosse una fase liquida. Ci sono dei periodi storici che possono essere confrontati con la nostra. Credo che quello su cui si debba avere fiducia è la capacità del pensiero di afferrare la propria storia. O magari come voleva Hegel, comprendere la storia appena passata, quella che sta tramontando e che il pensiero sistematizza, seppur vi sia in lui anche una spinta abbastanza evidente verso la costruzione attuale e il futuro. Credo che la cosa più importante sia ripristinare e recuperare la fiducia nella capacità del pensiero di comprendere il proprio mondo. Ecco, da questo punto di vista, quando penso alla classicità penso a questo, a questo tipo di fiducia. Dopo di che, alla fiducia devono seguire anche i risultati e i risultati devono essere vagliati da una filosofia ulteriore che rifletterà su quello che si è costruito, sul rapporto che si è riusciti a costruire con le conoscenze scientifiche dell’epoca. Quest’ultimo è un punto particolarmente importante che si è spesso banalizzato in un senso o nell’altro: da un lato, la filosofia regina delle scienze; dall’altro, la filosofia come guardiano delle scienze, come chi viene a spiegare agli scienziati la metodologia che loro hanno adoperato per fare una scoperta (com’è ovvio, generalmente gli scienziati ritengono completamente inutile questo tipo di lavoro e di approccio). Credo, però, che questa sorta di conoscenza, questa meta conoscenza, questa riflessione di secondo livello sia, invece, il carattere proprio della filosofia e sia il suo carattere proprio anche quello di far parlare tra loro livelli di linguaggio e di realtà differenti. Credo che sia questo il proprium autentico della filosofia. Quello che auspicherei è una ripresa di tutto questo, il che significa un recupero della fiducia per gli esseri umani associati di contribuire a costruire il proprio destino. Ecco, questa è la fiducia che si è persa negli ultimi anni: credo che questo sia riscontrabile a livello sociale e anche nei risultati più recenti della filosofia.
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