Il basso numero di vittime del nuovo Coronavirus in Germania (al 23 aprile 2020, 5.094 decessi su 148.046 casi registrati secondo il Robert Koch Institut), relativamente basso ovviamente se confrontato con quello di altri Paesi, rappresenta una questione su cui istituzioni, scienziati ed esperti stanno discutendo ormai da tempo. I numeri provenienti dalle varie parti del mondo, infatti, sono difficilmente confrontabili per diverse ragioni di ordine tecnico. Alcuni mettono in discussione però la metodologia della raccolta dati effettuata a Berlino. Altri, invece, sostengono che l’enorme quantità di test effettuati, soprattutto all’inizio dell’epidemia, ha permesso di interrompere le linee di contagio e di controllare meglio la diffusione del virus.
È opportuno precisare fin dall’inizio che tutto quello che si può sapere adesso sulla mortalità e/o letalità del nuovo coronavirus, battezzato con troppa indulgenza Sars-CoV-2, rientra nel campo delle ipotesi e che le reali cifre della virulenza del patogeno ci saranno consegnate dagli scienziati solo a pandemia conclusa. Per questo i numeri che circolano, precisano gli esperti del Robert Koch-Institut di Berlino (RKI), il centro di ricerca responsabile per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive in Germania, vanno prese con estrema cautela, visto che ad esempio solamente da pochi giorni si sono registrati i primi casi di contagio all’interno delle case di cura e di riposo per anziani, cosa che sta facendo aumentare il numero di vittime nella Repubblica federale.
Tuttavia, i dati della John Hopkins University aggiornati alle prime ore del 23 aprile 2020 (orario europeo) che registrano il rapporto fra decessi per coronavirus ogni 100 casi registrati (observed case-fatality ratio) sono eloquenti: in cima alla lista c’è il Belgio, con un tasso di mortalità del 14,9%. Seguono poi Francia, Regno Unito e Italia con, rispettivamente, il 13,6%, il 13,5% e il 13,4%. La Germania è l’ultimo dei dieci Paesi presi in considerazione dall’università di Baltimora con un tasso del 3,5% (https://coronavirus.jhu.edu/data/mortality).
Naturalmente, il numero delle persone sottoposte a test, e quindi il numero di casi totale, ha un enorme impatto sul tasso di mortalità: se un Paese riesce a fare molti tamponi, come ha fatto la Germania fin dall’inizio dell’emergenza (al 9 aprile erano 1,3 milioni di tamponi effettuati, fonte Reuters), trova anche molti contagiati con sintomi lievi che riuscirà a curare.
Anche prendendo in considerazione i dati dello stesso giorno (23 aprile) della Hopkins University relativi al rapporto fra vittime di Covid19 ogni 100.000 abitanti, sani o malati che siano, la Germania registra 6,37 deceduti ogni 100mila persone, tasso relativamente esiguo se confrontato con il 54,82 del Belgio, il 46,48 della Spagna o il 41,51 dell’Italia.
Le ragioni che stanno dietro questa disparità di numeri sono numerose e complesse, molte delle quali ancora sconosciute. Un articolo del New York Times (NYT, A German Exception? Why the Country’s Coronavirus Death Rate Is Low, 4 aprile), rilanciato e approfondito successivamente dai media tedeschi, ha provato a fare un’analisi di questa apparente deutsche Ausnahme, questa “eccezione tedesca”. In realtà, alcune ragioni ci sono e abbastanza convincenti. Prima fra tutte l’elevato numero di tamponi effettuati fin dall’inizio dell’emergenza, 350.000 mila a settimana come riporta il Robert Koch-Institut. Già a metà gennaio, l’ospedale universitario berlinese della Charitè aveva messo a punto un modello di test e ne aveva condiviso la formula online con i laboratori di tutto il Paese, così da prepararsi al previsto arrivo della pandemia. Naturalmente, il numero di persone contagiate che sfuggono ai test, come gli asintomatici, è sicuramente più alto nei Paesi dove si sono fatti finora meno tamponi rispetto alla Germania, cosa che nel complesso relativizzerebbe l’alto tasso di mortalità del virus in quei Paesi.
Un’altra delle ragioni del minore numero di vittime in Germania è da rintracciare sicuramente nell’organizzazione e nella “stazza” del sistema sanitario tedesco, il quattordicesimo nel mondo, secondo il ranking del Global Health Security Index sui Paesi meglio attrezzati a fronteggiare la pandemia pubblicati sul giornale economico-finanziario Handelsblatt il 25 marzo 2020. Il 27 marzo il parlamento tedesco ha approvato un pacchetto di leggi che mette a disposizione del solo sistema sanitario 55 miliardi di euro e intende raddoppiare i posti letto in terapia intensiva. Inoltre, è previsto un bonus di 50.000 euro per ogni posto letto di terapia intensiva che gli ospedali riescono a creare. Al momento i posti letto disponibili per i reparti di terapia intensiva sono circa 6.000 e alcuni di questi ospitano anche pazienti italiani e francesi. È ovvio che il tasso di mortalità può salire rapidamente se gli ospedali sono impreparati, sovraccaricati e si hanno a disposizione poche risorse, che è purtroppo quello che è successo in Italia o in Spagna.
Il modo in cui la mortalità del Sars-CoV-2 varia così in tutto il mondo può dipendere anche da fattori demografici: ad esempio, il Coronavirus tende a colpire di più la popolazione più vecchia. Anche in questo caso è possibile fare un confronto fra Italia e Germania, nazioni entrambe con circa la stessa percentuale della propria popolazione composta da anziani: l’Italia, con il 22,8% dei propri cittadini over 65 (circa 14 milioni di persone), è la nazione con la popolazione più vecchia d’Europa. In Germania la popolazione con più di 65 anni raggiunge il 21,5% del totale (16,1 milioni), come comunica lo Statistisches Bundesamt, l’Ufficio di statistica federale tedesco.
Anche in questo caso le cifre sono chiare: i dati del Ministero della Salute dicono che l’età media dei deceduti per Coronavirus in Italia al 16 aprile 2020 è di 79 anni. In Germania, il RKI riferisce che fra le 4.598 vittime registrate al 21 aprile la metà è sotto gli 82 anni e l’altra metà aveva più di 82 anni. Quindi, nella Repubblica federale tedesca ci sono “soltanto” 2.300 vittime anziane, al 16 aprile 2020, mentre in Italia 79 anni è la media in quel momento di tutti i morti per Coronavirus
Due cose possono aiutare a capire meglio queste ultime cifre. La prima è un’ipotesi, ma un fattore potrebbe essere il fatto che le persone anziane, soprattutto nel Nord della Germania, spesso vivono da sole e non hanno occasione di prendersi il virus dai membri della famiglia, come invece accade in Italia. Il pranzo domenicale con i genitori anziani è una cosa abbastanza rara a queste latitudini.
La seconda, invece, è una circostanza fortuita. Inizialmente, il maggior numero di contagiati in Germania riguardava la fascia di età 30-39 anni, che si spiegava con il fatto che i primi malati di Covid19 erano giovani che erano stati a sciare in Austria e in Italia e che una volta ritornati avevano trasportato il virus in giro per bar e discoteche. Ora però, come ha spiegato il 14 aprile Lothar Wieler, presidente del Robert Koch-Institut, questo “vantaggio” sta svanendo perché, come abbiamo detto, il virus è entrato nei centri di ricovero per anziani.
Secondo il New York Times, fra le cause all’origine dell’”eccezione tedesca”, rientra anche il fatto i medici tedeschi sono molto engagiert, impegnati, nel combattere la battaglia al coronavirus e cita al riguardo il caso di Heidelberg dove il 17 marzo è partito un progetto che prevede che i medici, insieme a studenti volontari di medicina, si rechino con i taxi messi a disposizione dalle autorità locali a casa dei pazienti, facciano i test e controllino il decorso della malattia. In questo modo, i posti letto in ospedale sono lasciati liberi per i casi gravi e nel caso le cose dovessero peggiorare improvvisamente (cosa che si verifica spesso con la malattia Covid19), allora c’è il trasferimento con il “Corona-Taxi” in ospedale o in terapia intensiva. Attualmente, sparsi nel territorio della Repubblica federale ci sono circa 2.000 fra ospedali e cliniche, 1200 dei quali attrezzati con stazioni destinate alle terapie intensive.
È proprio la questione dei posti letto nei reparti destinati alle cure d’emergenza che preoccupa più di tutte le autorità sanitarie tedesche. Quello che spaventa sono le immagini degli ospedali al collasso in Lombardia, a Madrid o a New York, sorpresi e travolti da un’emergenza così devastante. Per evitare scenari del genere è nata da poche settimane la piattaforma digitale DIVI (Deutsche Interdisziplinäre Vereinigung für Intensiv- und Notfallmedizin, Associazione interdisciplinare tedesca per la terapia intensiva e la medicina d’urgenza), presso la quale nel frattempo la maggior parte degli ospedali tedeschi si sono registrati e stanno comunicando il numero dei posti letto liberi e occupati. È una mappa utile ed efficace che permette di sapere precisamente quanti letti a disposizione per i malati di Covid19 ci sono in quel particolare momento e in quel determinato ospedale. Il registro si aggiorna praticamente ogni ora. In Germania la sanità è cosa delle singole regioni, ma in questo caso c’è un’efficace coordinazione fra Bund e Länder.
Per i medici è fondamentale guadagnare tempo, dare tempo alla ricerca di andare avanti e al personale degli ospedali di attrezzarsi e difendersi. Di Faktor Zeit ha sempre parlato anche Angela Merkel. La Cancelliera di ghiaccio, dopo una partenza irritante l’11 marzo in cui in una conferenza stampa del governo aveva detto che “il virus infetterà il 60-70% della popolazione tedesca”, ha poi fatto per la prima volta da quando è cancelliere (ossia dal 2005) un discorso in Tv alla nazione in cui è apparsa di nuovo Mutti Merkel, Mamma Merkel, serena, calma, rassicurante (Emotional, empathisch und mit großer Kraft, ZEIT ONLINE, 19 marzo 2020).
Fra i motivi che contribuiscono a tenere basso il tasso di mortalità fra i tedeschi il New York Times individua anche quello del ritrovato consenso della popolazione verso il proprio governo e quindi verso la Cancelliera. Da quello che scrive il settimanale Der Spiegel nel suo ultimo numero (Das Comeback von Angela Merkel in der Coronakrise, Der Spiegel Nr. 17/18 aprile 2020), i tedeschi sono tornati ad apprezzare Angela Merkel, dopo la spaccatura da lei creata non solo all’interno del suo partito, la CDU, ma anche nel Paese in seguito alla crisi dei rifugiati dell’estate 2015.
La più strenua paladina della Soziale Marktwirtschaft – come lei e i suoi ministri, non ultimo quello dell’economia Peter Altmaier all’Handelsblatt il 24 marzo, dichiarano continuamente -, i cui principi teorici derivano dal pensiero ordoliberale tedesco e sono incardinati nel “Contratto di Stato sull’unione sociale, economica e monetaria” (Staatsvertrag über die Währungs-, Wirtschafts- und Sozialunion) del 18 maggio 1990, ed entrato in vigore il 1 luglio, che ha sancito la riunificazione delle due Germanie – quindi un’unione prima monetaria e poi politica. Il “Contratto di Stato” prevede che la Soziale Marktwirtschaft, l’economia sociale di mercato, sia adottata formalmente dalle due Germanie come modello economico-politico comune (Art. 1, commi 3 e 4 dello Staatsvertrag). Poi, l’economia sociale di mercato, anche se l’espressione non compare esplicitamente nel Trattato di Maastricht, è diventata il sistema economico dell’Unione europea previsto dal Trattato di Lisbona del 2007.
Fra i vari assunti, quasi dogmatici, del pensiero ordoliberale ce n’è uno che Angela Merkel sembra impersonare particolarmente bene ed è il fondamentale “principio di responsabilità”, secondo il quale, con le parole di Walter Eucken, uno dei padri del liberalismo tedesco, “chi ha dei profitti, ha il dovere di garantire anche le perdite” (Wer den Nutzen hat, muss auch den Schaden tragen).
In conclusione, la risposta alla domanda iniziale del New York Times sull’eccezione tedesca potrebbe essere proprio l’”eccezione tedesca”, cioè il fatto che è la Germania che guarda principalmente ai propri interessi e va dritto per la sua strada. Ecco allora che se per i tedeschi Angela Merkel è tornata mamma Merkel, per descrivere quello che crediamo sia il vero tratto distintivo della deutsche Ausnahme viene in mente un personaggio molto caro a tutti gli italiani. Si tratta del Marchese del Grillo, il film diretto da Mario Monicelli nel 1981, dove Alberto Sordi pronuncia la celebre battuta di Giuseppe Gioacchino Belli: “Ah…mi dispiace” dice voltandosi un attimo prima di salire in carrozza, “Ma io so’ io… e voi noi non siete un cazzo!”
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