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Unione Europea: food for thought


30 Apr , 2020|
| Visioni

Da qualche mese l’Europa è chiamata a fronteggiare un nemico invisibile, il Covid-19, che potrebbe avere – anche se al momento attuale non è possibile quantificarne in modo preciso i costi economici – un impatto assai negativo su produzione e occupazione in tutti i paesi dell’UE. La realtà ci restituisce l’immagine di Stati per certi versi impotenti, alle prese con una emergenza sanitaria, in cui a soffrire sono quei paesi che hanno operato i maggiori tagli alle politiche sociali, mentre ci rendiamo conto – tutti credo – di quanto le politiche neoliberali abbiano «legato le mani» ai governi.

Come è noto, a partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, il processo di integrazione sovranazionale è stato «riarrangiato» in toni neoliberali, così determinando un ripensamento dei vincoli garantisti del costituzionalismo democratico-sociale del secondo dopoguerra. A trionfare è oggi il diritto privato d’impresa, la libera concorrenza è assunta a dogma centrale del diritto europeo, mentre la logica solidaristica, espressa dalle costituzioni nazionali, è sacrificata a vantaggio del libero mercato. Sarebbe pertanto un errore credere che sia soltanto la pandemia in atto ad aver messo in pericolo il processo di integrazione europea. Basta guardare alla storia degli ultimi decenni per rendersi conto di come l’Unione sia da anni sottoposta a politiche che ne hanno reso traballanti le fondamenta e che il virus ha mostrato in tutta la loro debolezza strutturale.

Si attendeva il Consiglio Europeo del 23 aprile come un punto di «svolta», ma così non è stato. L’incontro tra i Capi di Stato ha nei fatti confermato le misure decise nell’ultima riunione dell’Eurogruppo (come era prevedibile), ovverosia il MES senza condizioni per le spese sanitarie, i fondi BEI per le imprese e il piano SURE per finanziare la cassa integrazione, sigle che insieme significano 540 miliardi di euro. Non intendo in questa sede argomentare di queste misure, sulle quali molto si è scritto e molto ancora ci sarebbe da dire, quanto piuttosto evidenziare come – mettendo definitivamente da parte la proposta sugli Eurobond – si sia convenuto di creare un fondo per la ripresa economica, il Recovery Fund, del quale tuttavia molti aspetti sono controversi.

La discussione su tale strumento – che si propone di finanziare attraverso il nuovo bilancio dell’UE (2021-2027) – ha reso nuovamente palesi le distanze tra il blocco dei paesi del Nord e quello dei paesi del Sud. Mentre i primi hanno escluso finanziamenti a fondo perduto, i secondi invece li hanno richiesti a gran voce. I «rigoristi» del Nord molto difficilmente infatti accetteranno di elargire sussidi ai paesi del Sud, quanto piuttosto pretenderanno che i trasferimenti assumano la forma di prestiti (è difficile pensare che non sia così, posto che i Trattati, nella cui cornice ci si muove, sono molto chiari sul punto). Nondimeno, un’altra incertezza è relativa all’entità di tale strumento. Come è noto, i paesi del Sud chiedono che questo abbia una dotazione di 1500 miliardi di euro, ma sul tavolo la cifra sembra essere diversa, per quanto Ursula von der Leyen non si sia sbilanciata.

Ciò che è certo è che, nonostante l’emergenza imponga di agire con celerità, lo strumento di cui si discute non verrà attivato in breve tempo (probabilmente a partire da gennaio 2021), nonostante, nelle conclusioni del Presidente Michel, sia stato definito «necessario» ed «urgente». In attesa pertanto che venga trovata una mediazione tra le parti, ad oggi complicata, i problemi economici e sociali assumono dimensioni drammatiche. La palla è ora passata alla Commissione che è stata incaricata – si legge sempre nelle conclusioni di Michel – «di analizzare le esigenze esatte e di presentare con urgenza una proposta all’altezza della sfida» che ci trova ad affrontare.

Ora che l’Europa si sta scontrando con una crisi di dimensioni enormi, ci si rende conto di come l’architettura istituzionale europea sia per certi versi grottesca. Si è creata una unione monetaria senza parallelamente creare una unione fiscale ed un governo europeo. Per correggere l’asimmetria tra la politica monetaria, nelle mani della BCE, e la politica economica e di bilancio, rimasta di competenza degli Stati, sono stati codificati i noti criteri di convergenza – i più noti fra questi sono certamente i parametri macroeconomici su deficit e debito, posti rispettivamente al 3% ed al 60% del PIL – che hanno imposto precisi limiti all’indebitamento di ciascun paese. Attraverso l’imposizione di tali soglie si è di fatto vietata qualsiasi politica d’ispirazione keynesiana, così sottraendo alla politica le leve dell’economia. Si consideri inoltre che la nascita dell’unione monetaria europea ha favorito un sistema concorrenziale tra le diverse economie nazionali, laddove gli Stati possono finanziare la propria spesa solo ricorrendo alla leva fiscale o ai mercati finanziari. È dunque così che, mentre negli Stati Uniti d’America (e non solo) si interviene con politiche fiscali e monetarie all’altezza di una crisi di enormi proporzioni, gli Stati europei sono imbrigliati in una «ragnatela» di regole, che li rende del tutto impreparati ad affrontare l’emergenza in atto, mentre il principio di solidarietà, che dovrebbe costituire un architrave del processo di integrazione europea, sembra «liquefarsi» in un complesso universo di rapporti di debito/credito reciproci.

La liquidità della BCE – per quanto le dichiarazioni di Christine Lagarde del 12 marzo scorso non facessero ben sperare – sta aiutando, garantendo stabilità a tutta l’eurozona, attraverso acquisti che evitano squilibri fra i vari paesi. Ma ricordiamoci che l’Istituto di Francoforte ha posto in essere un intervento, che, come è noto, non è «illimitato» e che pertanto potrebbe esaurirsi già in autunno. E lì potrebbero arrivare i problemi (senza considerare che il 5 maggio la Corte costituzionale tedesca si pronuncerà sulla legittimità del Quantitative Easing).

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