La Fionda è anche su Telegram.
Clicca qui per entrare e rimanere aggiornato.

25 Aprile


4 Mag , 2020|
| Voci

Le campane suonarono dieci minuti prima dell’ora ufficiale.

Giovanni gettò lo sguardo sull’effigie della Madonna di Montevergine che sovrastava l’altarino decorato da fiori di campo e dalle immagini dei santini venerati dalla nonna, numi tutelari di quel vecchio appartamento di periferia, e si fece il segno della croce. Poi chiuse il libro di storia e lo ripose sullo scaffale, cercando di scolpire nella mente il senso di quella nota che lui stesso aveva appuntato a matita tra le pagine sulla seconda guerra mondiale: “La resistenza: guerra di liberazione dal nazi-fascismo, guerra civile, guerra di classe”. Chiamò per l’ennesima volta sua nonna esortandola a sbrigarsi e ad uscire dalla sua camera e si avviò alla finestra. Le solite palazzine bianche, in fila una dietro l’altra, ammassi di ferraglia e cemento bruciati dal sole, precludevano all’orizzonte la vista del mare. Alle diciotto in punto i rintocchi ripresero in maniera continua, falciando il silenzio assordante di quel pomeriggio di festa.

Di lì a breve sarebbe stata celebrata l’ennesima messa di quarantena, la solita  messa vacua, la solita scena che si ripeteva ormai uguale da quarantacinque giorni: don Felice sull’altare affiancato dal suo assistente cerimoniale, e lungo la navata centrale, isolate come appestate, le due suorine sudamericane ad ossequiare il rito, vestite di bianco e di blu, con il solito velo laico sul capo e con una mascherina bianca sul viso che lasciava scoperti soltanto gli occhi dai quali traspariva l’angoscia dell’abbandono e l’estremo senso di colpa che il nuovo potere stava infliggendo all’umanità.

Credo in un solo Dio, padre onnipotente, creatore del cielo e della Terra, di tutte le cose visibili e invisibili… Questa litania confessionale gli era stata insegnata al catechismo, ma lui non l’aveva mai digerita, la trovava troppo lunga, noiosa, senza alcuna poesia. Ne ricordava delle parti soltanto perché spesso accompagnava la nonna a messa, ma non si era mai interrogato realmente sul significato, a differenza di lei, che non solo era custode di autentica fede ma anche esperta di dottrina e di storia della Chiesa e delle religioni del mondo.  

Da quando era scoppiata quella pandemia il mondo era finito in ginocchio, le nazioni e i popoli confinati entro quattro mura, le istituzioni soggiogate alle volontà decisionali di organizzazioni sanitarie. Persino l’autorità ecclesiale, che per secoli aveva esercitato un dominio pressoché assoluto sulla società italiana, nel bene e nel male, ne usciva piegata davanti all’invisibile nemico globale. Il trono di Pietro era spoglio, il re era nudo, le messe pubbliche sospese, tutta la nazione era finita preda di un’isteria collettiva e privata dei diritti fondamentali della Costituzione. Le aule del Parlamento deserte, le piazze vuote, i parchi desolati. La città, priva dei suoi umori e desaturata nei colori, sembrava vivere lo stesso incubo dei suoi abitanti. Soltanto la natura e il mare parevano essersi rigenerati, così almeno raccontava la gente ed alcuni filmati lo testimoniavano, come quello dei due delfini avvistati nella baia che saltavano fuori dall’acqua, felici di essersi finalmente liberati dell’umana presenza.  

Ma se Dio è davvero il creatore di tutte le cose allora è lui l’artefice dei virus e dei batteri? È lui a diffondere epidemie e sciagure? Troppo facile come pensiero, ribadiva a se stesso ogni volta. Giovanni non riusciva mai a decidere se pensare che tutto l’universo fosse governato dalla volontà di Dio oppure dall’involontarietà del Caso. Ed ogni volta che si imbatteva in tali quesiti preferiva affidare l’origine di tutte le cose a Dio, fatta eccezione per il male. Dio non può aver creato il male e di questo ne era certo anche sua nonna Maria. Cattolica fervente e comunista fino al midollo, figlia di Antonio Esposito, napoletano, uno tra i tanti che nel 1944 avevano alzato le barricate contro i nazisti liberando la città di Napoli durante le celeberrime quattro giornate.

«Il male deriva dall’obbligo imposto all’uomo di vivere in solitudine. Quando disprezziamo la comunità e privilegiamo gli interessi individuali, quando utilizziamo tutti gli stessi strumenti per favorire il capitale, quando azzeriamo le differenze culturali, quando crediamo di non aver più niente da imparare né da insegnare, quando decidiamo di voler essere eterni per non invecchiare: questo allora è il male.»

E questa era la confessione laica di Nonna Maria. Lei non riusciva proprio a starsene da sola. Era figlia di un’epoca bella, quella che cominciava a raccogliere i frutti elargiti dalla Costituzione repubblicana, quella delle lotte nelle piazze, della bella gioventù cantata dai poeti. Figlia delle utopie, ripeteva spesso che la vita è fatta di sogni e non importa se puoi realizzarli o meno, l’importante è riuscire ad inseguirli. «Il futuro non è quello che arriverà ma quello che farai» –  gli ripeteva. Credeva fermamente nei buoni propositi e per tradizione e amore familiare aveva deciso di farsi schiava della libertà, non poteva proprio farne a meno, a costo di rimetterci la vita. I suoi tempi non erano sterilizzati, erano tempi che profumavano di vita. Maria non amava mai interpellare il medico per un’influenza. Quando le scoppiava la febbre si metteva buona a letto e aspettava che la temperatura calasse. Le piaceva vivere alla giornata, come tutti quelli della sua generazione. Le piaceva fare all’amore senza prendere precauzioni, forse perché ai suoi tempi l’unico rischio in cui si incorreva era quello di ritrovarsi col ventre gonfio e con un marmocchio nel grembo da partorire. Erano tempi di lunghi tragitti su treni che viaggiavano lenti, in carrozze che sembravano salotti, dove ciascuno poteva parlare la propria lingua, dove ciascuno poteva raccontare la storia della propria vita fino a destinazione e senza essere disturbato dal trillo dei telefonini. E, poco prima dell’arrivo in stazione, il primo che scendeva lasciava sempre un pensiero gentile su un qualche libro sgualcito e abbracciava il suo vicino facendogli la promessa di una cartolina. I viaggi erano lunghi, i posti più lontani ma tutto era più connesso, tutto era più umano.

Boom!!! D’improvviso il rimbombo di un boato si riversò nel soggiorno scomponendo l’ordine apparente delle cose.

Qualcosa stava accadendo giù in strada. Giovanni si precipitò alla finestra e volse lo sguardo verso i portici di cemento della palazzina G da dove proveniva il frastuono. Manifesti elettorali strappati dai muri giacevano stremati sull’asfalto già lurido dei detriti industriali trascinati dal vento. Al terzo piano della palazzina B una donna grassa in camicia da notte sostava alla finestra, tirando boccate di fumo compulsivamente, una dietro l’altra. Giovanni accennò col capo un saluto ma lei non si degnò nemmeno di ricambiare con lo sguardo: lanciò la cicca nel vuoto, fissò l’obiettivo dello schermo del telefono e gonfiando le labbra e mettendosi a posto i capelli, si scattò una foto.

Una nuova esplosione, forse un petardo avanzato dall’ultimo capodanno, fece da preludio a una musica elettronica ad altissimo volume. All’angolo dei portici fece capolino un carro colorato, addobbato con festoni e striscioni elettorali, che avanzava lungo il viale, seguito da un corteo di uomini e donne, tutti con occhiali scuri e mascherine, che volteggiavano e danzavano come scimmie. Quello spettacolo somigliava a una processione tribale. Al centro del carro, su un trono in stile imperiale, sedeva il boss del quartiere.  Indossava dei pantaloni a macchia di leopardo, il torace nudo ma ricoperto di orpelli, sul viso un casco da chirurgo con la visiera trasparente. Agitava scompostamente le braccia a ritmo di musica, la pelle ustionata da raggi di abbronzature artificiali, l’espressione ebbra e balorda, le sue grida bestiali lanciate verso il cielo sovrastavano quel pandemonio di tecnologia e disumanità. Ad ogni strepitio si batteva il petto sul quale s’era fatto tatuare una croce celtica,  che sembrava trafiggergli lo sterno con violenza. «Chissà dove stanno andando!» si chiese Giovanni. Dietro di lui una gigantografia di un divo della televisione, un virologo famoso, che aveva promesso un vaccino per la salvezza dell’umanità. In coda al corteo una volante dei carabinieri faceva da scorta alla parata.

Giovanni si ritrasse dalla finestra e andò a stendersi sul divano. Aveva gli occhi spalancati per  il susseguirsi di immagini che si accavallavano nella mente.  L’asse del suo pensiero oscillava tra l’immaginario onirico e la reale visione delle cose. Le quattro mura che lo tenevano in prigione contenevano un universo fatto di idee che si replicavano all’infinito, di oggetti che ne ricordavano altri, di odori che filtrando tra gli anfratti della memoria riproducevano frangenti di vita del tempo perduto.

Per un attimo il suo pensiero tornò cosciente. Notò che la porta della stanza di sua nonna era ancora chiusa e la sua immaginazione si rimise in moto. Vide la nonna Maria riflessa allo specchio intenta a colorarsi le labbra di rosso, con quel rossetto che amava mettere da ragazza quando scendeva in piazza tra le folle a lottare per la libertà.

Quel giorno era il 25 aprile, la festa della Liberazione, quindi il rossetto lo avrebbe messo come tutti gli anni. Di lì a poco sarebbe apparsa come un’amazzone del ventesimo secolo, vestita di rosso, con i capelli raccolti da una ghirlanda di fiori, gli occhi verdi luccicanti di gioia. Gli avrebbe sorriso e lo avrebbe teneramente abbracciato. Avrebbero parlato delle quattro giornate, degli scioperi operai, dei desaparecidos cileni. Avrebbero riso e forse ballato un tango. Si sarebbero ricordati del cinema all’aperto nelle sere d’estate, delle ciambelle e del tiro a segno alle feste dell’Unità. Avrebbero aperto una bottiglia di rosso,  avrebbero pranzato e brindato alla libertà.

Eh già, la libertà! Sulla quale si interrogava spesso soprattutto da quando era cominciata quella maledetta quarantena.

Forse il valore della libertà è soggettivo, ciascuno è detentore di un proprio modello di libertà. Forse persino gli schiamazzi giù in strada, il volgare esibizionismo, quell’incedere di passi altisonanti senza grazia, significavano che ciascuno può celebrare la propria condizione di uomo libero a suo modo. Il grande virologo, il divo delle TV, aveva dato loro una speranza: il vaccino globale, l’antidoto che li avrebbe liberati e riconsegnati nuovamente alla vita. Ma a quale vita? A quella disperata di sempre, fatta di spostamenti frenetici, di lavoro sottopagato, di insalubrità, di oppressioni, di affari e di truffe. E loro festeggiavano per questo? Si, festeggiavano per questo! Perché non importa che tu sia schiavo, l’importante che sei in vita e respiri, e se respiri tocca fare festa, ed ecco quelle danze oscene, quella confusione, ecco quelle grida strozzate di gioia. Perché se sul calendario il giorno è scritto in rosso significa che va celebrato ed ognuno lo fa come meglio crede: quelli più audaci fregandosene delle regole e facendo parate, scortate addirittura dalle forze dell’ordine, quelli più rispettosi cantando a squarciagola sui balconi simulando una dannata felicità, quelli più pavidi infiocchettando parole a caso sopra schermi impolverati e pubblicando piatti di spaghetti al pomodoro, taglieri di salumi e torte al cioccolato digitali. Perché ciascuno di loro è felice e libero come meglio crede.

Ma quanti di loro sapevano cosa realmente fosse il 25 aprile? 

Giovanni serrò gli occhi e cominciò a cantare un verso di una canzone cilena: “la vida es eterna en cinco minutos”, e mentre cantava si rivedeva nelle sere d’inverno davanti al braciere a suonare con la chitarra questa canzone, di fronte a lui nonna Maria che cantava.

«Come fate ad essere in pace? Come fate a pensare di essere liberi quando siete soli di fronte ad uno schermo?». I rimproveri della nonna si alternavano ai versi di Victor Jara e tutto gli rimbombava nella testa. Sentiva i suoi passi avvicinarsi o forse si trattava di un’allucinazione?

«Le idee non viaggiano sui bit digitali! Nessun dibattito digitale è formativo! Con quel telefono non ci fai nessuna rivoluzione!». Ancora rimproveri, sempre più assordanti.

La voce della nonna gli giungeva più forte e chiara. Quelle frequenze sonore sovrastavano il chiasso proveniente dalla strada.

«La libertà è il valore più grande, più della vita stessa!». Ma la libertà che amava Maria non era più così popolare.

Maria amava Gesù perché non aveva avuto paura di compiere il sacrificio estremo per la  salvezza del mondo. Amava Socrate perché aveva scelto di morire per il bene della polis bevendo la cicuta. Amava Giovanna D’Arco immolatasi per il suo popolo. Amava Gramsci perché lottava per cambiare la società. Amava Che Guevara perché dall’Argentina arrivò a Cuba e fece scoppiare la rivoluzione. Amava tutti i partigiani della nostra Resistenza, quelli delle quattro giornate di Napoli e quelli che avevano combattuto sulle colline del Nord. Amava tutti gli uomini che lottavano per la libertà dei popoli. Per Maria la libertà era un valore oggettivo, non poteva essere un bene individuale, come il capitale.

«Nessuno è libero da solo, si è liberi insieme!». Ancora dei moniti, sempre più assordanti.

«Apri gli occhi Giovanni! Apri gli occhi! L’uomo tecnologico è ossessionato dalla vita eterna, dal diventare immune da ogni pericolo, ed è proprio questa sua vanità che lo consegnerà ad una condizione di eterna schiavitù. Per salvarsi la vita sceglie una non-vita. La tecnologia non può garantire alcuna bellezza ed è nemica della memoria. Apri gli occhi Giovanni, apri gli occhi!».

Il frastuono in strada si arrestò definitivamente e con esso la danza orgiastica dei suoi pensieri. E Giovanni gli occhi li aprì ma Maria non era lì. Eppure la sua voce gli era sembrata così reale. Si alzò dal divano e corse a staccare la spina al computer. «Va’ al diavolo!» esclamò con disprezzo. Si avviò lungo il corridoio a passi svelti. Tutte le porte erano chiuse, i quadri tutti al loro posto, i fiori sulle mensole sbocciati. Provò a chiamarla. Nessuna risposta. Poi bussò alla porta una volta, poi un’altra ancora. Nessun segno, nessun rumore in camera.

Allora afferrò la maniglia e diede uno spintone.

Un profumo di mimose lo invase, l’odore della primavera. Sul letto vi erano cinque libri aperti e sul comò una foto che non aveva mai visto: Roma 1974, Piazza del Popolo, Maria ragazza che esultava davanti all’obelisco Flaminio, in mano aveva un garofano rosso. Tutto era in ordine lì dentro, tranne il rossetto aperto e  una mascherina bianca abbandonata sul pavimento.

Giovanni andò a sedersi sul letto e raccolse i libri sparsi qua e là: Il nuovo Testamento, L’apologia di Socrate di Platone in un’edizione del 1963, La vérité de Jeanne d’Arc di Caze, I quaderni dal carcere di Gramsci e Il socialismo e l’uomo a Cuba del Che. Mentre li ordinava con cura, un foglio di carta gli scivolò sulle ginocchia. Lo aprì tremante, sopra vi era scritto a penna Ti voglio bene Giovannino.

Si diresse nel soggiorno, sistemò i libri sulla credenza e afferrò il suo mazzo di chiavi, poi indossò la sua mascherina e si precipitò sul pianerottolo.

Fece tre piani di corsa senza incontrare nessuno e, arrivato al portone di ferro, intravide attraverso i vetri opachi una volante dei carabinieri con la luce blu intermittente che circolava sulla strada. Aspettò che l’automobile scomparisse dietro i piloni della palazzina B, respirò profondamente, poi soffiò con violenza, aprì il portone ed uscì.

Il sole in cielo era alto. Quasi trenta gradi. Non c’era più un bel niente lì intorno, soltanto il cemento dei palazzoni che reggevano file di antenne. Giovanni percorse circa due miglia a sud e vide in lontananza che il portale della chiesa era sbarrato, nessuno era potuto entrare in quel luogo, nemmeno in quel giorno di festa. Si era celebrato il solito miserevole e vacuo rito quotidiano, così come l’aveva immaginato poco prima. Forse Dio era scappato o semplicemente non riusciva più a salvare nessuno: umani e cittadini volevano salvarsi da soli, barattando la propria immunità con lo spirito di carità e di libertà. Si avvicinò al portale e inginocchiandosi si fece il segno della croce, poi si tolse la mascherina e la lanciò con forza sull’asfalto bruciato. Volteggiò due volte su se stesso per verificare se attorno ci fosse un umano mascherato da cui scappare. Per fortuna vide soltanto la sua ombra. Si voltò verso ovest, dirigendosi a passo spedito lungo il viale che porta al mare.

Forse Maria e tutti gli altri erano già lì.

Di:

La Fionda è una rivista di battaglia politico-culturale che non ha alle spalle finanziatori di alcun tipo. I pensieri espressi nelle pagine del cartaceo, sul blog online e sui nostri social sono il frutto di un dibattito interno aperto, libero e autonomo. Aprendo il sito de La Fionda non sarai mai tempestato di pubblicità e pop up invasivi, a tutto beneficio dei nostri lettori. Se apprezzi il nostro lavoro e vuoi aiutarci a crescere e migliorare, sia a livello di contenuti che di iniziative, hai la possibilità di cliccare qui di seguito e offrirci un contributo. Un grazie enorme da tutta la redazione!