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Se eviteremo la catastrofe sanitaria, come eviteremo la catastrofe economica?
L’arrivo di Covid 19 ci ha portati in un mondo tragico e sospeso. Sospeso fra quello di prima che sembra rimosso e quello di dopo che sembra fuori dall’orizzonte politico.
Quali erano i problemi più importanti del nostro paese fino a due mesi fa?
Disoccupazione, precarietà del lavoro, depauperamento dei servizi pubblici, austerità, inquinamento e cambiamenti climatici, debolezza dei poteri dello Stato spostati e svuotati dentro la macchina della UE.
Poi è arrivata questa catastrofe naturale con il suo altissimo costo di morti che ci ha rivelato ulteriormente le tante debolezze e le storture di questo modello liberista che pretendeva ossequio e indiscutibilità. E però le morti e i rischi di contagio hanno occupato e occupano tuttora il primo piano. E con essi le misure di protezione sanitaria e quelle minime di sopravvivenza economica come risposta al blocco. Di qui i contributi in tutte le direzioni, alle varie tipologie dei redditi e di imprese. Con una improvvisa inversione di direzione in materia di debito e di aiuti economici dello Stato.
Ma quando avremo raggiunto una tregua accettabile, se non una vittoria, con questo nemico invisibile, quando sarà finita questa folle frenesia di ogni livello istituzionale a mettere divieti o a concedere permessi, avremo di fronte il paese di prima, ma più povero, con meno PIL, più disoccupati e più debito. E sicuramente più disperato e più incattivito.
Qualcuno pensa che potremo ricominciare in quelle condizioni la storia degli avanzi di bilancio, della austerty e delle ulteriori privatizzazioni, magari sotto l’occhio severo di una qualche troika? Una tragedia greca su più larga scala? Sì! Ci sono ambienti economici e intellettuali molto potenti, da sempre legati a doppio filo alle politiche europee, che si preparano a questo scenario e cercano di modellarne i possibili attori politici, ricomponendo su un nuovo schema un puzzle che pare ora tutt’altro che stabile.
Tuttavia queste forze, per quanto potenti ai vertici della società, potrebbero alla fine essere travolte dalla rivolta e dal malcontento popolare, che sarà esasperato dalla catena di fallimenti provocati dalla epidemia.
Per evitare questo esito avremmo bisogno di essere sostenuti da un cambiamento radicale delle politiche europee. Infatti, al di là di tutti i sofisticati tecnicismi di cui si sta discutendo in queste settimane a Bruxelles, l’unico strumento funzionante è per ora la BCE che ha allargato i cordoni della borsa dei prestiti. Ma questo allargamento non può essere infinito se non si arriverà a un cambio dello statuto della stessa BCE e dei trattati europei, ed essa non sarà autorizzata a monetizzare gran parte del debito vecchio e nuovo dei paesi in crisi, come fanno tutte le banche centrali dei più importanti paesi del mondo.
Questo significherebbe dare il via a quel sistema federale europeo che è finora rimasto nei sogni frustrati degli idealisti europei. Sarei contento di vedere realizzato il mito di Ventotene e giuro che spenderei le mie residue energie per aiutare a sgombrare le istituzioni europee delle tare antidemocratiche e dai meccanismi liberisti (veicolo del potere dominante della finanza e del mercato) che ne dominano il funzionamento. Ma i fatti ci confermeranno a breve ancora una volta, come dopo la crisi del 2008, che questa strada non ha prospettiva davanti a sé. Basti leggere la sentenza di ieri della Corte Costituzionale tedesca!
Gli interessi che hanno voluto questa Unione come vincolo esterno contro le politiche nazionali del compromesso socialdemocratico, il potere della finanza e del grande capitale, gli squilibri di potere e la diversità di interessi fra gli Stati membri, la mancanza in ultima istanza di un popolo europeo, ci presenteranno a breve l’Europa as usual. Presto si torneranno a far sentire i guardiani dei conti e dell’austerity (MES o non MES!), ma questa volta in molti paesi la risposta popolare potrebbe andare ben oltre il referendum smentito di Tsipras. Lo scenario più probabile resta quello della implosione della Unione Europea o di una sua sopravvivenza ulteriormente indebolita. Una vita da zombie!
A quel punto le soluzioni continuiste in Italia avranno ben poco spazio e avanzeranno ipotesi più radicali che richiederanno soggetti capaci di guardare gli scenari possibili con occhi liberi e disincantati.
Questo Governo non ne ha la forza, non ha le fisique du role per gestire un futuro senza una BCE che si muova come le grandi banche centrali di paesi come gli Usa, l’UK o il Giappone. Oggi esso gode di un buon credito nell’opinione pubblica solo perché appare l’unico bastione attorno a cui stringersi per difendersi dall’epidemia, di fronte a una opposizione cinica e strepitante come le oche del Campidoglio. Ma nonostante Conte abbia detto una volta che se non ci sarà l’Europa “faremo da soli”, non mi pare abbia idea di cosa questo possa significare. Qualche idea l’hanno invece le forze di destra dalla Lega a Fratelli d’Italia, che pur non godendo dell’appoggio sicuro della borghesia industriale del nord-est integrata nelle catene del valore tedesche, si preparano a cavalcare il malcontento dell’uscita dalla crisi epidemica mantenendo l’essenza di politiche liberiste, mercatiste e contro il lavoro, ma condite di demagogia nazionalista, xenofoba e autoritaria.
Il vero problema quasi disperante è che non c’è ancora una sinistra in Italia capace di mettere a fuoco questa foto post-covid e post-europeista. Una sinistra del genere sarebbe stata necessaria anche prima, e nuclei intellettuali erano già nati negli ultimi anni sfidando le accuse di sovranismo e di rossobrunismo. Ma ora, di fronte all’aggravamento determinato dalla epidemia e alla accelerazione dei processi già in corso, occorre andare oltre questi piccoli nuclei e costruire una sinistra socialista che abbia il coraggio di ripensare la società dal punto di vista delle ragioni del lavoro e dell’ambiente. E alla luce di queste ragioni sfidare tutti i cambiamenti e i difficili nodi culturali e pratici che il dopo-Covid ci metterà brutalmente di fronte. La crisi della globalizzazione finanziaria, e della Unione Europea che ne ha recepito i paradigmi, ripropongono lo spazio e l’esigenza di una sinistra che faccia della sovranità costituzionale la sua bandiera, riconquistandone gli strumenti, a cominciare dalla moneta nazionale e dal potere di intervento dello Stato nell’economia. Uno Stato capace di determinare gli indirizzi dello sviluppo, di riprendere in mano la politica monetaria e le principali leve economiche, di offrire lavoro e non assistenza a chi può lavorare, di costruire punti di eccellenza nella ricerca e nella politica per l’ambiente, di ridare voce al lavoro e ai suoi diritti.
Ben poco verrà fuori dalla sinistra euro-liberista raccolta attorno al PD, che continuerà a puntare sulle briciole concesse dalla Europa e sui suoi postulati economici, anche in assenza della mitica svolta verso gli Stati Uniti d’Europa. Né possiamo continuare a contare sui residui nuclei ormai spompati della cosiddetta sinistra radicale. Radicale nel linguaggio, cosmopolita e individualista nella cultura politica.
Occorre una sinistra socialista che recuperi appieno la sovranità nazionale e i suoi poteri non per chiudere l’Italia in se stessa , come una impossibile monade nel mondo, ma per essere libera di proporre le collaborazioni e le alleanze del nostro paese fuori dalle costrizioni economiche della UE e dai vincoli internazionali della Nato, con una nuova consapevolezza dei nostri interessi nazionali nel cambiamento geopolitico in atto.
E’ urgente contrapporre alla destra un fronte ampio che si basi su tre perni: sovranità dello Stato, lavoro e ambiente. Il dopo-Covid va pensato adesso. Questo vale anche per le forze interne a questo Governo che non si illudono sia possibile proseguire sulla linea euro-liberista
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