La Fionda è anche su Telegram.
Clicca qui per entrare e rimanere aggiornato.
La crisi della zona euro e la sorte della democrazia
—–
N.d.R: riproponiamo il presente articolo scritto dall’avvocato Roberto Passini e già pubblicato su Il Ponte on-line, luglio 2012; id., Lavoro & Politica, settembre 2012.
N.d.A: Adesso, che dire 8 anni dopo la crisi del 2011-2012 e l’infausta stagione del governo Monti, nel mezzo della più grave crisi sanitaria ed economico – sociale dell’intera storia repubblicana? Le questioni e I nodi trattati nell’articolo che desidero qui riproporre, sono non soltanto ancora sul tappeto ma ulteriormente aggravati e quindi quelli, ancora oggi, da cui occorre ripartire per un’analisi sensata, non parziale e di medio- lungo periodo. Questioni e nodi che, volenti o nolenti, sono di fatto nell’agenda politica dei vari governi europei: – l’immodificabilità delle regole dell’Ue e la loro pervicace attuazione anche durante la crisi del Covid-19; – l’urgenza di un piano B che metta in conto l’uscita dall’unione monetaria, nel caso di un rifiuto, pressoché certo, in base alla lettera dei trattati, da parte dei capi di stato e di governo e degli organi Ue, di mutualizzazione del debito tramite la Bce. L’unica vera emergenza “nuova” portata dall’epidemia Coronavirus è in realtà sul piano dei tempi che non sono, assolutamente, più prorogabili.
—
La morsa speculativa internazionale che attanaglia l’Italia e l’Europa mediterranea rimanda a un dato costante della nostra storia nazionale: un vistoso deficit d’indipendenza e sovranità nazionale – a parte la breve ma significativa eccezione della Resistenza antifascista, che, per la prima volta, porta in dote alla nuova Italia uscita dalla guerra la forma repubblicana e una concezione alta e progressiva di democrazia (sociale) consacrata nella Costituzione del ’47, e tra gli ideali inattuati della Resistenza vi era anche un progetto federalista-autonomista, europeo e nazionale.
La travagliata situazione politica ed economico-finanziaria che investe l’Europa, particolarmente quella mediterranea, con inusitata accelerazione nell’ultimo anno e mezzo, non è risolta, né risolvibile, bensí aggravata, dalle ricette di austerità imposte dalla Germania e dalla tecnocrazia europea, attuate con zelo in Italia dal governo Monti.
La persistente devastazione dei diritti umani (soprattutto sociali e del lavoro, ma insieme anche quelli politici e di libertà concrete) e delle condizioni di vita di milioni di concittadini, dei ceti popolari e medi, oltre ad avere una ricaduta negativa per l’intera nazione, oltre che ingiusta, è inefficace, è irrazionale. Le politiche restrittive, di austerità – da non confondere con autentiche politiche di rigore finalizzate all’azzeramento di privilegi e prebende -, rappresentano dei veri e propri trasferimenti di ricchezza dai ceti popolari e medi a favore dei ricchi, frutto evidente di scelte politiche, economiche, sociali e istituzionali compiute con pervicace determinazione 35-40 anni fa da ristrettissime oligarchie, internazionali ed europee, non rappresentative di istanze democratiche e popolari , e comunque, per venire agli ultimi 10-15 anni nell’Europa comunitaria, conseguenza diretta di una dogmatica ideologia liberistico-“concorrenziale” del tutto avulsa dalla storia.
Ben ricordiamo, al riguardo, come nel secolo scorso l’altra grande crisi del capitalismo venne affrontata e risolta con politiche economiche e sociali di segno diametralmente opposto a quelle praticate oggi in Italia e in Europa, che trovavano fondamento nelle famose «4 libertà» di Franklin Delano Roosvelt e nelle teorie economiche di John Maynard Keynes. E tutto ciò sotto la spinta politica e culturale – oggi ahimè assente – delle forze organizzate del movimento operaio.
Quella che oggi, con un chiaro intento riduzionistico viene definita «crisi finanziaria» e/o «speculativa» è soltanto una mezza verità. Ciò che in realtà infierisce sull’Europa (mediterranea) e sul nostro paese è la resultante di una micidiale e molteplice crisi che ha investito il sistema economico capitalistico, trascinato per lungo tempo dalla finanza privata (capitalismo finanziario dei grandi monopoli), nel suo meccanismo di accumulazione, in primis gli Usa, e poi l’Europa.
Questa crisi nel meccanismo di creazione della ricchezza ha progressivamente trascinato verso il basso la qualità della democrazia politica e, con essa, il principio di eguaglianza, vera e propria stella polare dello sviluppo civile e democratico novecentesco.
Lo strapotere e la centralità della finanza privata (banche Usa e Ue, Fondi pensione, agenzie di rating e oscure società di scopo, di emanazione bancaria, finalizzate alle operazioni speculative più selvagge e allo scoperto, il tutto piú o meno intrecciato tra sé), insieme alla pluriennale e comprovata acquiescenza a essa degli Stati sovrani (Usa e Stati dell’Unione europea in testa), ha reso molte nazioni europee, sotto la spinta della burocrazia tecnocratica di Bruxelles e Francoforte, rispettivamente paladine di politiche economiche liberiste, e ostaggio di un attacco speculativo senza precedenti (al proprio debito sovrano e al patrimonio economico produttivo e culturale).
Eric Hobsbawn ha descritto questo processo disgregativo provocato del capitalismo contemporaneo (dei grandi oligopolisti privati) in atto da tempo, con i conseguenti micronazionalismi etnici e i fanatismi religiosi, come la «fine dello Stato».
L’attuale Europa comunitaria, formatasi quale entità economica di alta amministrazione, sprovvista sin dalla sua nascita di un vero disegno politico statuale (e federalista), e subalterna alla sfera d’influenza capitalistica nordamericana, è risultata incapace e non attrezzata, culturalmente e istituzionalmente, a difendere i sistemi economici e la democrazia dei singoli Stati membri, dinanzi al primo vero attacco della sua storia, da parte del capitale finanziario. Ma vi è di piú: con le politiche economiche di quest’ultimo decennio e in particolare dell’ultimo anno si è ulteriormente aggravato lo stato economico, sociale e finanziario dei singoli paesi già da tempo in recessione, rendendo sempre piú probabile, nei fatti, la deflagrazione, dichiarata o meno, della zona Euro.
Questo soverchiante deficit democratico dell’Europa attuale, tramontata la fase di (minima) costruzione comunitaria, a cavallo tra la metà degli anni ottanta e i primi anni novanta del secolo scorso (a partire dall’Atto unico europeo del 1985-86 per arrivare sino a Maastricht), per iniziativa determinante di Jacques Delors, Francois Mitterand ed Helmut Kohl, si è poi ulteriormente acuito anche grazie all’adozione, sempre piú marcata, di una prassi intergovernativa, di fatto a guida tedesca, o comunque tedesco-centrica, “costituzionalizzata” nel Trattato di Lisbona – eppure, dopo il 1989 ci saremmo attesi un salto di qualità nella costruzione democratica, statuale e federale dell’Europa comunitaria.
Il risultato a tutt’oggi è soltanto quello di una maggiore burocrazia e un rilancio sfrenato dell’ideologia liberista, con l’aggravante che l’Ue, anche dopo l’adozione della moneta unica, ha continuato a rimanere un’entità incompiuta, non dotata neppure degli strumenti istituzionali minimi e necessari alla sua (mera) sopravvivenza: una banca centrale quale istituto di emissione e prestatore di ultima istanza; un’unione fiscale e bancaria.
Allo stesso tempo, l’opposizione popolare, manifestatasi vittoriosamente con i «no» francese e olandese ai referendum sulla Costituzione europea del 2005, è stata totalmente ignorata e misconosciuta. Lo stesso impianto istituzionale, salvo piccole modifiche, bocciato con i referendum del 2005 è stato reinserito nel Trattato di Lisbona dell’ottobre 2007, che, in sordina sostituiva la Costituzione europea, senza alcuna discussione pubblica al riguardo.
Intanto la disoccupazione e le diseguaglianze crescono in maniera esponenziale, il settore produttivo nazionale è in ritirata continua, e i partiti politici, quasi di ogni «credo», ribadiscono, ossessivamente e dogmaticamente, la loro cieca fedeltà nell’Euro. Quasi fosse una divinità.
Parallelamente, i tentativi di arginare il potere della finanza privata dopo il settembre 2008, negli Stati Uniti d’America e in Europa, sono stati a dir poco insufficienti. Eppure si arrivò a un pelo dal fallimento delle principali banche di Wall Street, che si salvarono grazie all’intervento del Tesoro Usa, con i soldi del contribuente, da cui derivò il fallimento di Lemhan Brothers. Il mondo sembrò scandalizzarsi dell’avidità degli speculatori e della finanza, che avevano messo a rischio, così si diceva nei grandi media, l’economia mondiale e occidentale come mai era successo dal 1929, ma nella realtà tutto continuava come e piú di prima. La presidenza Obama ha adottato una riforma molto tenue in materia di finanza e borsa, scontando la prevedibile ostruzione di Wall Street, peraltro riforma in grandissima parte ancora da attuare.
L’Europa di Berlino, Francoforte e Bruxelles, con automatismi decisori su Atene, prima, e poi su Lisbona, Madrid e Roma, nel frattempo ha fatto di meglio. Da almeno un anno e mezzo-due, si è “convertita” a una lettura della crisi, non piú causata, sinteticamente, dalla deriva finanziaria e iperliberista dell’economia, a scapito dell’economia reale e soprattutto, a nostro avviso, dei diritti del lavoro e del ruolo del pubblico in generale (sia in termini di regolamentazione che di pianificazione), ma ha rilanciato in grande stile la vulgata della crisi da eccessivo debito pubblico.
Il governo Monti, di questa (falsa) rappresentazione della realtà, e, purtroppo, delle conseguenti azioni politiche e legislative (taglio delle pensioni e dei diritti del lavoro come nessun altro governo in Europa, Imu sui ceti medio-piccoli, mancata azione per far rientrare i capitali dalla Svizzera, mancata adozione di una necessaria patrimoniale sui grandi patrimoni), ne è divenuto l’alfiere, il “primo della classe” in Europa. Questa situazione è oramai insostenibile.
In questi anni, in Italia, soltanto pochi intellettuali ed economisti hanno coraggiosamente denunciato il mainstream economico e culturale che giustificava al di là di ogni decenza la presente struttura oligarchica e burocratica dell’Unione europea, della Bce, e le politiche liberiste e monetariste di cui sono fautrici assieme ai singoli Stati nazionali.
Tra questi Emiliano Brancaccio , il quale, insieme ad altri colleghi, nel giugno 2010 ha dato vita alla «Lettera degli economisti», vero e proprio manifesto di critica delle politiche economiche liberiste e restrittive adottate dai governi europei e italiani, che in poche settimane ha raggiuntò oltre 300 adesioni di docenti italiani e europei. La «Lettera» cosí terminava: «qualora le opportune pressioni che il Governo e i rappresentanti italiani delle istituzioni dovranno esercitare in Europa non sortissero effetti, la crisi della zona euro tenderà a intensificarsi e le forze politiche e le autorità del nostro Paese potrebbero esser chiamate a compiere scelte di politica economica tali da restituire all’Italia un’autonoma prospettiva di sostegno dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione».
Le previsioni, e ancora di piú le conclusioni, della «Lettera» si sono rivelate profetiche. La crisi della zona Euro, secondo gli estensori, è da ricondurre piú che all’alto debito pubblico, principalmente alle asimmetrie venutesi a creare tra le bilance dei pagamenti della Germania, in costante surplus, e degli altri paesi Ue, specialmente quelli mediterranei, in perenne saldo negativo, nonché alla progressiva svalorizzazione del lavoro, in termini di diritti e di partecipazione al reddito, e delle politiche pubbliche.
Le recentissime prese di posizioni del governatore della Bce, Draghi, in difesa dell’Euro, anche qualora venissero seguite da fatti concreti (acquisto, sul mercato primario e/o secondario, dei titoli pubblici dei paesi sotto diretto attacco, rifinanziamento delle banche, riduzione del tasso di sconto), preludono, comunque, al mantenimento dello status quo, contrassegnato rispettivamente dal consolidamento delle politiche economiche liberiste e restrittive volute dal “direttorio” Ue-Imf, già in fase di avanzatissima attuazione (Fiscal compact, pareggio di bilancio nelle Costituzioni, dismissioni degli assets nazionali in favore delle grandi Corporations …) e dallo strapotere della finanza, nelle sue varie e opache articolazioni.
Per le suddette ragioni, pur nella consapevolezza della difficoltà del momento, riteniamo che sia saggio scegliere la strada della difesa della democrazia, anziché continuare a subire, passivamente, gli eventi determinati da oligarchie finanziarie irresponsabili, o comunque continuare a consentire ostinate scelte di politica economica e finanziaria rivelatesi, all’evidenza, fallaci e dannose per le condizioni di vita della stragrande maggioranza delle persone.
Ci auspichiamo pertanto che tutti i cittadini, ma soprattutto le forze politiche e sociali del paese, progressiste e della sinistra, si predispongano velocemente, da un punto di vista politico e culturale, per affrontare, nel modo migliore da un punto di vista democratico e sociale, una, si voglia o meno, non piú escludibile uscita “controllata” dall’Unione monetaria, mirando a porre fine a quest’insostenibile e sbagliata politica depressiva, di vera e propria macelleria sociale, di cui non si vede la fine all’orizzonte (per citare solo due “provvedimenti”, il pareggio di bilancio in Costituzione e il cosiddetto Fiscal compact, appena approvati, stanno a testimoniarlo).
Alcuni liberi intellettuali, di diversa formazione politica e culturale – come Giulio Sapelli, Guido Rossi, Alberto Burgio, Luciano Gallino, Gianni Ferrara -, hanno descritto, già da tempo, questo stato di cose come il trionfo dell’irrazionalità e di un’ottusa “tecnicalità neoclassica”, oltre che come crisi strutturale ed estinzione della democrazia.
Ma in gran parte ancora non si vuol vedere e sentire, si tende a rimuovere il problema, quasi accettando, in maniera irriflessa e cinica, che la democrazia si sia lentamente trasformata in un’ineluttabile governo della finanza, o, nella migliore delle ipotesi, che basti una sorta di meccanica ripetizione dei meccanismi elettorali e della rappresentanza, completamente sconnessa da qualsivoglia connotato valoriale, con l’ulteriore e beffarda aggravante dell’evanescenza e residualità conclamata delle assemblee elettive.
Auspichiamo vivamente che l’analisi qui sommariamente esposta venga assunta e fatta propria in altri paesi europei (come in Francia, ma in primis nei paesi mediterranei), anch’essi sotto il giogo della finanza internazionale e dei capitali piú forti.
A tal fine, in vista della prossima e imminente campagna elettorale, riteniamo importante che venga da subito prospettata e divulgata la necessità di adottare tutta una serie di azioni e misure pubbliche, conservative, per la protezione degli interessi economici e sociali del nostro paese, prepararsi ad un’uscita controllata dall’Unione monetaria, per la riaffermazione della sovranità nazionale costituzionale:
– tutela dei risparmi e dei depositi bancari dei cittadini e delle imprese;
– controllo amministrativo dei prezzi;
– salvaguardia dei salari e degli stipendi (attraverso la reintroduzione dell’indicizzazione);
– salvaguardia del patrimonio pubblico e degli assets economici e societari del paese, dichiarandoli tutti di preminente interesse nazionale;
– limitazione e il controllo della circolazione dei capitali e di parte delle merci;
– negoziazione e rientro immediati dei capitali portati all’estero (Confederazione svizzera);
– adozione di un’adeguata tassa patrimoniale.
Tutto ciò dovrà essere urgentemente accompagnato da un rilancio di politiche di intervento pubblico e di piano, con particolare riguardo ai settori strategici quali l’energia (in particolare e in prospettiva da fonti rinnovabili, con norme nuove e democratiche in tema di produzione e distribuzione, l’efficienza energetica del patrimonio immobiliare pubblico e privato), il manifatturiero (vera eccellenza italiana), le opere pubbliche (principalmente di salvaguardia e recupero dell’ambiente e del suolo), il credito e il risparmio, e la ripubblicizzazione-nazionalizzazione delle banche, la ricerca e l’istruzione – e un piano pluriennale di ristrutturazione-riconversione energetica del patrimonio edilizio pubblico e privato.
Nel contempo, ci facciamo promotori di una proposta da rivolgere ai paesi europei (mediterranei), affinché sia dia vita a una costituente per una Federazione europea socialista, che si concretizzi, nell’immediato, in un’iniziale cooperazione rafforzata, tanto nel far fronte agli attacchi speculativi, quanto nel porre in essere politiche economiche e finanziarie che guardino allo sviluppo umano e sostenibile, prevedendo un’economia mista, dove il pubblico, nelle sue varie articolazioni, assuma un ruolo guida nell’orientare le scelte fondamentali.
Nel breve periodo, intanto, riteniamo di massima urgenza che vengano adottate politiche concertate a difesa delle economie nazionali. Alla luce degli ultimi venticinque anni, solo rovesciando la prospettiva generale e gestendo la difficile transizione, si potrà ambire a ricostruire, razionalmente, un’Europa all’insegna della libertà, dell’eguaglianza, della democrazia reale.
da: Il Ponte, on-line, luglio 2012; id., Lavoro & Politica, settembre 2012.
La Fionda è una rivista di battaglia politico-culturale che non ha alle spalle finanziatori di alcun tipo. I pensieri espressi nelle pagine del cartaceo, sul blog online e sui nostri social sono il frutto di un dibattito interno aperto, libero e autonomo. Aprendo il sito de La Fionda non sarai mai tempestato di pubblicità e pop up invasivi, a tutto beneficio dei nostri lettori. Se apprezzi il nostro lavoro e vuoi aiutarci a crescere e migliorare, sia a livello di contenuti che di iniziative, hai la possibilità di cliccare qui di seguito e offrirci un contributo. Un grazie enorme da tutta la redazione!