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Maturità, salvare il rito per negarne il senso. Sulla distruzione della scuola pubblica italiana


9 Mag , 2020| e
| Visioni

La volontà della ministra dell’istruzione Lucia Azzolina di far sostenere gli esami di maturità in presenza, sebbene in modalità ridotta a un solo colloquio orale, si rivela essere più significativa di quanto apparentemente non sembri. Da un lato, una tale posizione segna apparentemente una mancanza di coerenza rispetto alle scelte fin qui fatte – chi scrive si riferisce alla «Didattica a distanza»[i], rispetto alla quale il ministero della ricerca e dell’istruzione ha rivelato fin da subito una capacità di reazione ed imposizione, almeno a livello di proclami (meno in termini di risorse economiche), tale per cui si è soprasseduto con inquietante naturalezza finanche a qualunque consultazione dei lavoratori della scuola. D’altra parte, se sottoposta a uno sguardo che consideri la storia degli ultimi trent’anni di riforme delle istituzioni scolastiche, la decisione del ministro sembra potersi invece sciogliere con estrema linearità all’interno di un iter che appare segnato da profonda continuità. Una continuità che, dalla Riforma Berlinguer sul riordino dei cicli scolastici[ii] – il cui cuore stava, come è noto, nell’autonomia scolastica[iii] e nei tagli – fino alla “Buona scuola” del Governo Renzi[iv] che quella autonomia portava a compimento, oggi trova un altro importante tassello per un puzzle che rappresenta la distruzione della scuola pubblica italiana.

In un momento in cui il normale svolgimento della vita sociale e democratica si trova di fatto  sospeso per salvaguardare il bene comune e collettivo il problema non è se i ragazzi possano o meno sostenere l’esame di maturità in presenza per serbare un ricordo significativo di quello che un tempo sarebbe stato un «rito di passaggio» – dal momento che proprio la maturità è stata fatta ostaggio negli ultimi anni da una volontà bipartisan di ridurre gli esami a mera formalità di un percorso formativo finalizzato alla certificazione di competenze, anziché  al completamento di quella che i Greci chiamavano paidéia. La volontà ministeriale, invece, è quella di preservare proprio l’aspetto più ritualistico dell’esame di maturità, «uno dei momenti più belli della mia vita» ha confessato la ministra, ed elevarlo a simbolo della ripresa, in realtà mai così poco scontata, del Paese, cedendo necessariamente, invece, sul carattere di uniformità nazionale delle prove finali, presupposto del valore legale del titolo di studio. Se quest’ultimo, infatti, viene garantito per i maturandi del 2020 esso risulterà nei fatti commisurato all’offerta formativa e al prestigio dei singoli istituti, alle relazioni con il tessuto economico e associativo del territorio, alle famose “competenze globali” (che l’emergenza sembra sancire come l’unica cosa sempre e comunque “valutabile”). Questa ulteriore erosione del significato didattico dell’esame finale e la necessità di occuparne il posto vuoto con una sorta di sua “foto ricordo” indica come l’esperienza maturata in questi mesi potrà, in modo analogo a quanto probabilmente avverrà in altri settori lavorativi e sociali, essere messa a valore e rivendicata in favore della trasformazione della relazione educativa e dell’istituzione scolastica in smart schooling, da intendersi in maniera più estesa rispetto al mero utilizzo delle tecnologie[v].  Ciò potrà avvenire finalmente con il plauso convinto di famiglie sottoposte per anni al plagio mediatico eterodiretto da classi dirigenti incapaci di riconoscere valore ai docenti, dal momento che proprio loro, per prime, sono le dirette responsabili della totale assenza di qualunque piano di investimento minimamente idoneo a conferire dignità al fondamentale compito democratico dell’istruzione. È decisamente triste dover riconoscere che servisse una pandemia in grado di mettere in ginocchio il mondo, oltre che il nostro Paese, affinché l’opinione pubblica si accorgesse del valore umano e professionale degli insegnanti, ma è ancora più triste il fatto che non potesse accorgersene che travisando l’importante ruolo della scuola, che non è quello di distrarre e raccogliere le energie dei più giovani in un momento estremamente difficile (sebbene vi sia indubbiamente un che di onorevole in tutto questo), ma quello di trasmettere conoscenza, formare persone, cittadini liberi in grado di partecipare alla vita politica, sociale, economica e culturale della nazione.

A prendere oggi definitivamente forma è, insomma, un quadro che mostra la sostituzione di una classe docenti, un tempo tra le più preparate al mondo, con una massa di burocrati impegnati sempre più nella vuota metodologia didattica, coerente con una visione formale della conoscenza che ne ha facilitato ancor più la sostituzione con la logica delle competenze, ovvero con la dottrina del capitale umano. La metodologia, da vuota si è fatta in questi mesi virtuale, evaporando del tutto in favore del consolidamento di misure volte a fare indossare ai docenti, finalmente senza più grinze o strappi, i panni di «facilitatori», organizzatori di materiale online, comunicatori di informazioni, «motivatori» di un impegno  che è esso stesso auto-subordinazione[vi], in un mondo in cui l’impegno si fa sempre più ontologicamente improbabile se non impossibile, specie per le nuove generazioni, sempre più costrette a un orizzonte di nichilismo, insensatezza e paura. L’impegno dei docenti, invece, non si è fatto attendere, mostrando ancora una volta – se ce ne fosse stato bisogno – di quale dedizione siano capaci, essendogli impossibile non percepire il proprio lavoro se non come una missione. Peccato che l’invasione oramai pluridecennale del New public management nella sfera pubblica dello Stato e in particolare nel sistema dell’istruzione ha fatto da tempo di quella missione una mission aziendale; il sogno incarnato dai grandi nomi della pedagogia italiana ha lasciato spazio a un incubo in cui a prendere forma teratologica sono state le competenze-chiave promosse dall’Unione Europea come «imparare ad imparare» e l’«imprenditorialità»[vii]. Nel testo della «raccomandazione del Consiglio del 22 maggio 2018 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente» si descrive la «competenza personale, sociale e capacità di imparare ad imparare» come ciò che consiste «nella capacità di riflettere su sé stessi, di gestire efficacemente il tempo e le informazioni, di lavorare con gli altri in maniera costruttiva, di mantenersi resilienti e di gestire il proprio apprendimento e la propria carriera». L’apprendimento e la carriera vengono posti in naturale correlazione: basta mantenersi «resilienti», ovvero resistere senza opporre alcuna effettiva resistenza, bensì adeguarsi alla realtà così com’è. La suddetta competenza comprende, inoltre, «la capacità di far fronte all’incertezza e alla complessità» senza tentare di cambiare gli scenari che generano insicurezza, ma adeguandosi imparando ad imparare, ovvero favorendo «il proprio benessere fisico ed emotivo», mantenendo «la salute fisica e mentale», mostrandosi  «in grado di condurre una vita attenta alla salute e orientata al futuro», e soprattutto «di empatizzare e di gestire il conflitto in un contesto favorevole e inclusivo». Insomma, pensare alla salute, andare in palestra, dallo psicologo per potenziarsi e meglio adattarsi alla realtà così com’è, e non farsi mai venire in mente di porsi in modo conflittuale, mai uscire dal coro! La «competenza imprenditoriale» si riferisce, invece, alla «capacità di agire sulla base di idee e opportunità e di trasformarle in valori per gli altri». La figura dell’imprenditore viene, in pratica, identificata con una prospettiva di vita connotata positivamente da un punto di vista morale; essere «imprenditori di se stessi» vuol dire disporre di «creatività», saper esercitare «pensiero critico» – il che impedisce in teoria di essere critici nei confronti del modello impresa -, saper risolvere problemi, avere «iniziativa» ed essere perseveranti, nonché essere capaci di «lavorare in modalità collaborativa al fine di programmare e gestire progetti che hanno un valore culturale, sociale o finanziario». Si tratta di formule descrittive che sono al tempo stesso prescrittive che nella «tragedia» sembrano avere trovato la possibilità di attuarsi come «farsa», e per di più come beffa rispetto all’entità del dramma che la società è e sarà costretta a vivere. Di fronte alla precarizzazione del mondo del lavoro e dell’esistenza, la scuola fatica a dare gli strumenti minimi per orientarsi con spirito critico in una società ridotta a mercato e viene costretta a percorrere la strada di un sempre più spinto adattamento ad essa (si pensi alle motivazioni con cui sono state avviate le sperimentazioni sui licei di quattro anni[viii]). Lo stesso studio delle discipline storiche viene sempre più ridotto all’apprendimento di pochi eventi essenziali, per di più letti da una prospettiva mainstream, con l’aggiunta di un’«educazione civica» incaricata di cantare le lodi di una Costituzione mai applicata, oggi più che mai erosa e livellata a sprazzi di educazione alla legalità, alla sostenibilità, alla cittadinanza digitale, ad una visione pacificata e pacificante della UE e degli organismi internazionali. Il tutto, ovviamente, accuratamente purificato dai conflitti materiali e ideali che ne hanno segnato la genesi storica, in modo da potere svolgere appieno la propria funzione ideologica. Se oggi questi mostri partoriti da una «pedagogia economica» ed economicista – figlia e madre al tempo stesso del neoliberalismo – trovano e mostrano tutto il loro più autentico significato, senza nemmeno più il bisogno di nascondere la propria volontaria subalternità alle esigenze dell’ERT[ix] e di Confindustria, che cosa faranno domani? Che cosa faranno quando una recessione economica senza precedenti costringerà i nostri ragazzi a non immaginare alternative a una strada fatta di miseria, la miseria di non avere più nemmeno una scelta? La scelta di dire «no» al proprio sfruttamento, «no» a una vita da suddito anziché da cittadino?

Non è, allora, tornando a scuola a giugno, per consentire lo svolgimento di un esame in presenza quale completamento di un anno scolastico i cui ultimi quattro mesi sono stati svolti davanti allo schermo di un computer o di uno smartphone, che gli insegnanti dimostreranno a sé stessi e al mondo di non essere dei privilegiati o degli scansafatiche, ma chiedendo ad alta voce che la stessa sicurezza concessa a loro e agli studenti, sia altrettanto garantita a tutti. In situazioni come quella che ci troviamo a vivere, il ruolo di un insegnante, il compito di una persona dotata di un grado di istruzione medio-alta, è quello di contribuire a organizzare il dibattito pubblico, di scoperchiare il vaso delle ipocrisie e di contribuire a pensare a un’azione umana nel mondo che torni ad essere progettata, pianificata, programmata, sapendo che pandemie come questa sono anche e soprattutto il frutto di un sistema economico e di vita (la globalizzazione) che non tiene conto e non prende misure rispetto all’impatto che l’azione antropica ha per forza di cose sull’ambiente. Che vantaggio può trarre il Paese dall’avvio di una macchina che dal punto di vista della sicurezza individuale e sociale non è in grado di rispondere alle necessità più ovvie, non essendo stata evidentemente progettata e organizzata per tempo, quando non si sta nemmeno lavorando per rendere possibile il rientro nelle aule scolastiche al termine della prossima estate? I docenti dovrebbero invece organizzarsi per chiedere a gran voce al governo di investire denaro e risorse in infrastrutture che possano consentire a settembre la ripresa della scuola vera e propria, iniziando a progettare e programmare interventi in funzione di ipotesi di lavoro concrete.

Fondamentale è dare e darci una possibilità concreta di tornare a fare scuola – vera scuola! – per il prossimo anno scolastico, non dimenticando mai che non c’è vera istruzione né trasmissione di conoscenza effettiva senza concreta relazione educativa. Rinunciare a questo, vuol dire rinunciare a istruire bambini, ragazzi, che avranno tanto più bisogno domani di conoscenze in grado di fornire loro la possibilità di ripensare criticamente l’esistente. La «società del rischio» non è qualcosa di ineluttabile, ma la conseguenza di un’idea di società politicamente, economicamente e culturalmente imposta, rispetto alla quale possiamo e abbiamo tutti il dovere di sottrarci. Certo, per farlo occorre riassumersi il “rischio” di rimettere in gioco noi stessi, quello che abbiamo e quello che abbiamo perso, per ricollocarci in una dimensione collettiva, comunitaria e solidale. 


[i] «La didattica a distanza […] sollecita l’intera comunità educante, nel novero delle responsabilità professionali e, prima ancora, etiche di ciascuno, a continuare a perseguire il compito sociale e formativo del “fare scuola”, ma “non a scuola”…» (Nota MI 17.03.2020 n. 388).

[ii] È del 1997 la Proposta di “Riordino dei cicli scolastici” del Ministero della Pubblica Istruzione (“riforma Berlinguer”), divenuta successivamente Legge – quadro sul riordino dei cicli scolastici, Legge n. 30 del 10/2/2000.

[iii] La legge Bassanini introduce l’Autonomia scolastica (Legge 59/97, integrata successivamente con il D.P.R. 233/8 ed il D.I. 44/01).

[iv] Legge 13 luglio 2015, n. 107. Riforma della scuola.

[v] Cfr. ad esempio https://www.ilfoglio.it/granmilano/2020/03/01/news/si-puo-approfittare-di-un-virus-per-sperimentare-lo-smart-schooling-fatto-303857/

[vi] «La convinzione dell’efficacia dell’e-learning relega il docente alla funzione di gentile organizzatore di percorsi di apprendimento, cioè, in realtà, a una funzione diversa da quella di insegnante. Lo spostamento non è irrilevante: alimenta, che gli piaccia o meno, la politica di desocializzazione necessaria alle forze di estensione del mercato»; J-S. Philippart,, «Enseignement à distance» : le chant des sirènes: http://www.skolo.org/2020/03/21/enseignement-a-distance-le-chant-des-sirenes/

[vii] Cfr. Cronistoria della distruzione della scuola pubblica in Italia. Ce l’ha chiesto l’Europa, in “Contropiano”: https://contropiano.org/news/cultura-news/2015/09/15/cronistoria-della-distruzione-della-scuola-pubblica-in-italia-ce-l-ha-chiesto-l-europa-032842; N. Hirtt, L’Europa, la scuola e il profitto. Nascita di una politica educativa comune in Europa: https://www.edscuola.it/archivio/ped/europa_scuola_profitto.htm

[viii] Con il Decreto Direttoriale 28 dicembre 2017, AOODPIT 1568 si avvia la procedura di selezione delle istituzioni scolastiche di istruzione secondaria di secondo grado, statali e paritarie, autorizzate, dall’anno scolastico 2018/2019, alla sperimentazione di un percorso di studi quadriennale per una sola sezione, a partire dalla classe prima. 

[ix] L’European Round Table of Industrialists (ERT) è una potente lobby di industriali europei che negli ultimi decenni ha avuto grande influenza ed entratura presso l’Unione Europea, e che nel 1989 pubblicò un documento dal titolo “Istruzione e competenza in Europa”, in cui si sosteneva che l’istruzione e la formazione sono investimenti strategici per la competitività europea e per le imprese, ed evidenziava come problema il fatto che gli insegnanti «hanno una comprensione insufficiente degli affari e del profitto, e non capiscono i bisogni dell’industria».

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