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Sulla crisi della lingua italiana tra questione nazionale e globalizzazione
Nel mood di questo periodo di lockdown in lavoro part-time, tra un meeting ed un workshop in conference call, ascolto lo speech di un premier che invita allo smart working ed a non credere alle fake news, ma la mia mission è fare un report al mio coach entro la deadline, perché nel week end devo fare il runner per una challenge con il mio partner.
Ci sarebbe da chiedersi se questa, per ora estrema, tendenza nel parlare che sta prendendo piede in Italia e che, pare, essere il linguaggio a cui andiamo incontro, sia frutto di una nostra decisione o, comunque, di quella di qualcuno, ovvero sia una tendenza collettiva inconsapevole. Inoltre, se sia possibile chiedersi, prima di dire se sia giusto o sbagliato, se questa ibridazione del linguaggio ci convenga o meno. Quantomeno, ritiene chi scrive, si debba esserne consapevoli e, possibilmente, rifletterci su e decidere insieme tale, eventuale mutamento; anche perché questo avrebbe anche precise implicazioni politiche. In Italia assistiamo, da un lato, ad una spinta alla rivalutazione dei dialetti locali e, dall’altro, la tendenza all’uso massiccio della lingua inglese nelle comunicazioni “che contano”; mentre la lingua italiana, attraverso cui siamo, almeno culturalmente, “qualcuno” nel mondo, pare essere sempre più schiacciata in mezzo e continuamente ridimensionata. Intanto, in un fiorire di red carpet, breaknews, street food, incoming, customer satisfaction e simili, amministratori delegati che si chiamano CEO (con immancabile pronuncia all’inglese), così come ormai tutte le cariche aziendali, le segretarie project manager ed i centralinisti customer care, gli ospedali sempre più hospital, e così via, sembra che l’italiano sia sempre più un lingua marginale e senza futuro, non più sufficiente per tutti per sentirsi a casa nella propria nazione.
Ora, il problema non è che si possa talvolta fare uso di termini stranieri quando si parla o scrive in italiano. Infatti, con taluni di questi termini ormai si è anche entrati in sintonia, quali “sponsor”, “sport”, “spray”; tra l’altro, si può dire che tali parole si siano anche italianizzate, tanto che li pronunciamo all’italiana. La vera questione è il progressivo, continuo ed, a quanto pare, inarrestabile ingresso di termini stranieri, specie inglesi, nel nostro lessico nazionale, tale da sostituire stabilmente di fatto i corrispondenti termini italiani e, se si tratta di neologismi, neanche a farli nascere. Tale fenomeno non può essere qualificato come evoluzione dell’italiano. Questo, indubbiamente, come ogni lingua, si è sempre evoluto, talvolta anche con l’apporto di lingue straniere sin dal medioevo. Ma la forza che la nostra lingua aveva comportava che ogni termine veniva, praticamente, “nazionalizzato”, come oggi si fa ancora nel mondo anglosassone; cioè, facendo entrare a far parte della propria lingua termini stranieri ma con adattamenti lessicali della lingua ospitante, in maniera tale da poter scrivere e pronunciare quei termini facendoli, nel nostro caso, sembrare italiani. Questo continua ad avvenire in diverse nazioni straniere: pensiamo alle palomas de mais (pop corn in spagnolo), al Black Friday che in Quebec diventa Vendredi Fou e così via. In Francia, dove anche il messaggio 404 error del browser viene tradotto, il computer si dice ordinateur, il mouse diventa souris, la password, mot de passe; in spagnolo sono rispettivamente computadora, raton e contraseña; Paesi, questi, che hanno capito la rilevanza anche politica della lingua nazionale. Allora, c’è da chiedersi per quale motivo anche in Italia non si sarebbe potuto trovare dei corrispettivi a tali termini. Invece da noi vi è, addirittura, il fenomeno delle parole italiane (talvolta latine) che, entrate nel vocabolario anglosassone, rientrano nel nostro linguaggio alla maniera della pronuncia nazionalizzata inglese: è il caso, ad esempio, di termini quali “mobile” (inteso come telefonini), “orchestra” (pronunciato con l’accento sulla prima “o” in molti nomi di gruppi musicali), “media”, “radio” (in accezioni quali web radio, pronunciando la parola come a Molfetta…)! Alquanto bizzarro; o no?
Com’è stato osservato a tal riguardo, “quando i sub-utenti della lingua straniera, acquisendo competenze in questa, cominciano a usare sempre meno la base lessicale della lingua madre, perdono di pari passo la capacità di formare parole nuove. Quasi per riflesso condizionato, cominciano a introdurre nei discorsi in madrelingua un numero considerevole di parole mutuate dalla lingua dominante, che da occasionali diventano sistematiche; in parallelo scompaiono i termini autoctoni nel patrimonio lessicale dei soggetti glottocolonizzati. Questi ultimi non sempre sono consapevoli del ritmo vertiginoso al quale la lingua madre si disgrega; spesso si illudono di continuare a parlare una lingua vitale, che invece è moribonda. Nella maggior parte dei casi le forme che danno l’illusione di una continuità sono già quelle dell’altro sistema, che si instaura subdolamente e prelude all’estinzione totale della lingua autoctona” (Luciano Del Vecchio). Dunque, specie se si guarda in prospettiva, quello che sta accadendo alla nostra lingua non è una evoluzione, bensì una vera e propria progressiva estinzione, attraverso un graduale passaggio all’ital-inglese, in cui, però, la lingua “buona” alla fine scaccerà quella “cattiva” in quanto considerata non più adeguata ai tempi nuovi. Per fare un paragone, oggi la nostra lingua appare come un dispositivo, pensiamo ad un cellulare, che non riceva più gli aggiornamenti; questo con il tempo sarà destinato ad essere abbandonato.
“Avanguardie” di questa progressiva anglicizzazione della lingua italiana sembrano essere operatori del mondo dell’informazione e quelli di mercato. Riguardo alle prime di queste, è bene preliminarmente ricordare, in particolare, di come la radio e la televisione pubblica siano state, nel secondo ‘900, grande veicolo di promozione della lingua italiana. Tutti i nomi, anche nuovi, venivano non solo rigorosamente formulati in italiano, ma anche concetti e nomi provenienti dall’estero venivano di regola tradotti nella lingua nazionale prima di essere pronunciati al pubblico. Mentre, infatti, nel suindicato periodo venivano tradotti in italiano termini inglesi come informatica, telefono, televisione, lavatrice, frigorifero, stato sociale, e termini francesi come sciantosa, pluralista, riciclaggio, terziario, e così via; oggi, invece, è tutto un profluvio di nomi provenienti dall’estero ed introdotti così come sono nel discorso in italiano, spesso addirittura forzando regole grammaticali quando li si declina con il genitivo sassone in una frase italiana. Se i concetti od oggetti d’importazione dei decenni precedenti fossero, invece, stati introdotti in questi ultimi anni in Italia, sicuramente li avremmo accolti con i loro nomi stranieri, non traducendo parole come washmachine o refrigerator. Si pensi, ad esempio se, in tal caso, si fosse proposto di tradurre la prima di queste in “lavatrice”; la proposta avrebbe con molto probabilità generato facile ilarità, a causa della subalternità culturale di oggi. Negli anni del dopoguerra la RAI si faceva carico di una missione pubblica di promozione della lingua italiana, insieme allo sforzo di rendersi comprensibile a tutti. Quello, d’altronde, era il periodo dell’intervento pubblico nell’economia, di una grande politica industriale, con la creazione di appositi distretti, di forti politiche sociali, in cui lo Stato aveva anche una sua precisa politica internazionale, nonostante le compatibilità legate alla NATO. Insomma, esisteva una visione politica sull’Italia volta alla promozione del suo progresso. Però, poi le cose iniziarono a cambiare. Sappiamo come dagli anni ‘80 ma, soprattutto, ‘90, subentrano i vincoli esterni di matrice U.E. e certe politiche non si possono più fare o, comunque, la classe dirigente ne perde, così, l’interesse. Muta buona parte della classe politica, anche il ruolo pubblico della Rai cambia, evidentemente insieme ad una percezione della nazione stessa. Così, la lingua italiana perde piano piano quella funzione centrale di promozione del Paese che aveva avuto fino almeno agli anni ‘80; forse perché, dal compito di “fare gli italiani” si era passati al “tanto siamo europei”. Sta di fatto che, sia nel linguaggio della tv, della pubblicità e, persino, della pubblica amministrazione, si spalanca la porta all’utilizzo dei c.d. “forestierismi”, senza riguardo alla loro comprensibilità a tutti i destinatari. Così, oggi, si è giunti che nei TG, i giornalisti, nei servizi dall’estero, non traducono più in italiano tutti i termini di luoghi e cose stranieri: dalla Francia, le periferie sono chiamate stabilmente banlieu e le circoscrizioni cittadine arrondissment; similmente per i super tuesday, l’impeachment, lo shutdown per gli Stati Uniti. Molto probabilmente, non si traduce in parte per vanità ed in parte per pigrizia di chi dovrebbe farlo; evidentemente, importa poco a questi se non tutti gli italiani siano in grado di comprenderli, con le conseguenze che si possono immaginare ed alla faccia degli insegnamenti di Don Milani.
Quanto agli operatori del mercato, riscontriamo che in periodo di saldi tale termine lascia sempre più spazio a sale, nelle festività natalizie sulle vetrine non ci sono quasi più le scritte “buon anno” o “buon natale” ma i loro corrispettivi inglesi, le scritte in vista sulle magliette sono, ormai, solo in inglese, anche quelle per i bambini. Vi è il black friday, emergono nei supermercati sempre più prodotti in cui le scritte in italiano sono trascurate, i negozi sono chiamati ormai store, Italo chiama i propri capistazione train manager, le pubblicità terminano spesso con frasi in inglese (vi ricordate il povero Totti pronunciare“Life is now!”?), e così via. Che poi, se il problema è il rivolgersi anche ai turisti, si potrebbero utilizzare entrambe le lingue, anziché ritenere sufficiente solo quella straniera.
Nella pubblica amministrazione abbiamo termini come triage, check up, form, navigator, turn over, voucher e tanti altri e che tendono ad aumentare anno per anno. Anche la politica, ormai, preferisce spesso parole inglesi, come, ad esempio: convention, act (si ricordi il jobs act), tax, stepchild adoption, voluntary disclosure, quantitative easing (che un giorno lo stesso Draghi ebbe una volta a pronunciare in italiano: “alleggerimento monetario”, ma nessuno vi dette seguito), smart working (nonostante la lettera della legge parli di “lavoro agile”) ecc.; si, proprio i nostri politici che all’estero, quando possono, i discorsi ufficiali e le interviste li fanno in lingua inglese (con non sempre risultati felici). Questo, mentre lo Stato spende molti soldi per gli istituti di promozione dell’italiano nel mondo, quando in Italia la classe dirigente e politica promuove, invece, l’inglese.
Ora, questo fenomeno deve essere guardato in prospettiva, nell’ambito dell’attuale globalizzazione neoliberista, da un lato, e di quello dell’interesse nazionale, dall’altro. In questo mondo globalizzato pare contino solo i grandi numeri: quindi, le grandi multinazionali, i grandi Stati, i grandi sistemi economici; il resto è sempre più destinato ad essere marginale. In tutto questo, un ruolo importante lo giocano le identità intorno alle quali i soggetti collettivi ritrovano la consapevolezza di sé e, quindi, la volontà di esistere e raggiungere propri obiettivi, così da resistere alla grossa corrente omologatrice. A tal riguardo, un ruolo importante lo gioca il fattore culturale che comprende quello della lingua e, qui, le nazioni, almeno quelle, diciamo, più strutturate, sono interpellate in via principale. L’affermazione della lingua unica appare funzionale in un mondo in cui sembra prevalere una sorta di pensiero unico ma anche abitudini, gusti, concezione di mercato unici, sempre più espressi con termini inglesi. Una tale omologazione, però, tende ad impoverire le molteplici culture e modi di pensare nel mondo, specie nella misura in cui il pensiero è anche condizionato dalla lingua. Il linguista tedesco Jurgen Trabant chiama il nuovo linguaggio imperante “globalese” e spiega che è tutto il contrario del pluralismo linguistico. Secondo lo studioso, la strategia del globish sta portando a una moderna “diglossia neomedievale” che erge barriere sociali nei singoli Stati, dove si crea una frattura linguistica e culturale tra chi parla l’inglese e chi no, tra le classi sociali alte e quelle basse. Tutto ciò porta alla dialettizzazione delle lingue locali, perché identifica l’essere internazionali solo con il parlare in inglese, come se questa fosse la sola e unica lingua importante da esportare in modo colonialistico in tutto il globo”. Un altro importante linguista sostiene che “Una lingua costituisce e rafforza una certa visione del mondo. L’imposizione dell’inglese è funzionale non solo a fini coloniali, ma equivale a imporre i propri valori” (Claude Hagège, “Delle cose prepolitiche”).
Si sa di quanto questione nazionale e discorso sulla lingua ufficiale siano sempre stati legati, specie nei processi di indipendenza nazionale: dalla nostra storia risorgimentale a quella curda, da quella kosovara a quella catalana, dalla eritrea a quella tibetana e cosi via. Da parte nostra, Pasolini sottolineò con forza la funzione di koinè della lingua italiana, di grande elemento riunificatore del Paese ed, a tal proposito, citava Gramsci per il quale, come lo stesso Pasolini notava, la questione della lingua è un aspetto della vita: «ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi” […], in cui si mira a “riorganizzare l’egemonia culturale» (Antonio Gramsci, “Quaderni del carcere”). Colpisce e, forse, inquieta, a tal proposito, un passo di un discorso di Churchill, nel 1943, in cui affermava che “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gl’imperi del futuro sono quelli della mente”. Nel saggio di un altro docente di linguistica si legge che “Tra le due guerre ci fu un progetto ingegnoso: creare una versione ridotta dell’inglese come ‘lingua ausiliaria internazionale’ chiamata ‘BASIC English’ (BASIC = British American Scientific International Commercial). Fu proposto nella speranza che le lingue meno importanti sarebbero state eliminate: Ciò di cui il mondo ha bisogno è questo: circa mille lingue più morte ed una più viva (Ogden 1934, citato da Bailey 1991). In questo contesto ‘la comprensione internazionale’ era considerata in modo unidirezionale; si devono abbandonare le altre lingue e si deve assumere la lingua dominante, l’inglese, resa più facilmente accessibile per mezzo di una semplificazione” (Robert Phillipson “Imperialismo linguistico”).
Indicativo di tutto questo è stata la vicenda del Politecnico di Milano che, a seguito di apposito decreto ministeriale, decideva che dal 2014 gli insegnamenti sarebbero stati solo in lingua inglese, estromettendo così la lingua italiana dalla formazione superiore di ingegneri e architetti. Docenti in dissenso ricorrevano al TAR che dava loro ragione sancendo che la lingua italiana dovesse mantenere il “primato in ogni settore dello Stato” e che la decisione era illegittima. Ma il Politecnico e, persino, il MIUR, addirittura impugnavano tale sentenza presso il Consiglio di Stato che, a sua volta, sollevava dei problemi di legittimità costituzionale. Nel 2017 si esprimeva la Corte Costituzionale la quale, pur riconoscendo la “primazia” della lingua italiana ammetteva la possibilità di erogare insegnamenti “anche” in lingua straniera, specificando però che “gli atenei debbono farvi ricorso secondo ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza, così da garantire pur sempre una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento”. Secondo la sentenza del Consiglio di Stato, che richiama la stessa Consulta, l’uso esclusivo dell’inglese «estrometterebbe integralmente e indiscriminatamente la lingua ufficiale della Repubblica dall’insegnamento universitario di interi rami del sapere» e «imporrebbe, quale presupposto per l’accesso ai corsi, la conoscenza di una lingua diversa dall’italiano, così impedendo, in assenza di adeguati supporti formativi, a coloro che, pur capaci e meritevoli, non la conoscano affatto, di raggiungere “i gradi più alti degli studi”, se non al costo, tanto in termini di scelte per la propria formazione e il proprio futuro, quanto in termini economici, di optare per altri corsi universitari o, addirittura, per altri atenei». Ma, nonostante questa pronuncia, il Politecnico ha continuato a erogare corsi principalmente in lingua inglese – su un totale di 1.452 insegnamenti, 1.046 sono solo in inglese – e, questa volta, il Consiglio di Stato, in un suo nuovo intervento ha sostenuto che – per doverla far breve – erano stati rispettati i criteri di adeguatezza, proporzionalità e bilanciamento dei contrapposti interessi; tradendo anche, in tal modo, una concezione ancora borghese ed elitaria dell’istruzione. In una società libera, un decreto (accademico o meno) che imponga la lingua straniera per insegnare e studiare una determinata materia, sarebbe considerato un intollerabile atto degno di un regime totalitario, misura di esclusione sociale ai danni di chi non può accedere diversamente a quei corsi. Ora, senza negare la convenienza di studiare quella che oggi è la lingua franca internazionale, conseguenza della tendenza su descritta è il rischio di doversi, prima o poi, chiedere a cosa serva per le giovani generazioni spendere ancora tempo per studiare l’italiano. In ogni caso, in quell’occasione la Corte Costituzionale sottolineava per la prima volta un principio: quello del carattere di “ufficialità” della lingua italiana. Ebbene, tale pronuncia offre l’occasione di soffermarsi sul significato di tale principio perché, se esso sussiste, allora deve avere necessariamente un senso ed un effetto per l’ordinamento giuridico e che andrebbe colto; ossia, a questo vi dovrebbero conseguire precisi diritti e doveri: diritto di ciascuno a ricevere le comunicazioni ed insegnamenti pubblici nella propria lingua, con corrispettivi precisi doveri di coloro che operano nel pubblico ad utilizzare tale lingua. Questo perché nessuno deve avvertire la difficoltà, conoscendo la lingua nazionale, di non capire parte del flusso di comunicazioni ed insegnamenti pubblici nel “proprio” Paese, per non giungere a sentirsi “estranei in patria” anziché cittadini a pieno titolo che è ciò a cui mirava storicamente la politica di diffusione della lingua italiana.
In definitiva, oltre a cogliere l’iniquità di una tale tendenza, occorre chiedersi se, poi, questa convenga in generale all’Italia. Nella misura in cui la lingua è parte della cultura, quindi dell’identità di un popolo, se quest’ultimo intende sopravvivere, difendere ed avere un ruolo oltre che una sua direzione nell’oceano agitato della globalizzazione, se ne deve dedurre che convenga preservare – “aggiornare”, come si è sopra detto – la propria lingua, in modo da consegnarla alle future generazioni, perché su queste ultime si avranno soprattutto gli effetti delle decisioni di oggi, ricordando che la salvaguardia e diffusione di una lingua comporta, specie per noi italiani, un ritorno economico, non solo attraverso il turismo, ma anche attraverso la diffusione di produzioni artistiche che vanno dal cinema, alla musica, alla letteratura, ecc., che promuovono fortemente un Paese. Anche perché, a ben vedere, in una politica che spinga all’inglese si intravede, implicitamente, il messaggio: “si salvi chi può!”. Cioè, in un’ottica fortemente competitiva, essa invita ad imparare tutto ciò che appare utile per potersela cavare da soli, cioè individualmente; il che comporta una visione rassegnata di un’idea di sistema Paese che non sia in grado di essere attrattiva, affogata in un sistema internazionale unidirezionale e monoculturale, incapace o disinteressata ad offrire più di tanta occupazione e che, quindi, sia meglio per i giovani una formazione che li aiuti ad entrare nelle grazie di enti e società estere o estero-dipendenti. Chi vuole bene al Paese in cui vive pensa, invece, che occorra una politica in cui ci si possa salvare insieme; ossia, il predisporre una rinnovata visione collettiva, una nuova pianificazione politica, economica, culturale, tale da non favorire, in pratica, l’emigrazione e la progressiva marginalità del proprio popolo, ma reinvestire e scommettere su di esso, in maniera da perseguire il vantaggio di molti e non di pochi. Questo non significa di non permettere ai “migliori” di emergere e progredire ulteriormente; anzi, in uno Stato forte, in grado di rivestire un importante ruolo nel mondo globalizzato, i “più bravi” avranno ancora più possibilità e saranno anche più numerosi ma, in questo caso, a vantaggio anche del resto della popolazione. Tutto ciò, come sopra indicato, comporta l’avere un’identità – anche se non chiusa ma, meglio, liberamente aperta alla contaminazione con le altre – quindi un’idea di sé, che permetta una forza ed indipendenza di pensiero, oltre che economica, della nazione; anche perché, come dicono in Corsica: “morta la lingua mortu lu populu”.
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