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Democrazia a prova di virus. Il contagio della paura e la panacea della (in)sicurezza


15 Mag , 2020|
| Visioni

Agli occhi di una società abituata alla frenesia del contatto, degli scambi e della libertà individuale il momento pandemico appare come terribile momento di rottura, di disturbo inatteso. Interrompe l’ovvia realtà quotidiana di un mondo che non ha neppure un momento da dedicare alla sua autocomprensione e lo fa nella crudele forma della chiusura. Lockdown, isolamento, confino e  distanziamento. La vita materiale si ferma per i più – non per quelli che lottano in prima linea – ed impone una condizione sofferta. L’allontanamento dagli affetti e dalla vita collettiva, dalla trama di relazioni intersoggettive che danno senso all’uomo come animale sociale è un evento vissuto con costrizione; è evidenza facilmente coglibile, anche solo per il trauma vissuto  per esperienza personale. Si grida a gran voce il ritorno alla normalità, la libertà. Il confino non è sopportabile.

In questo contesto di maturata sofferenza, però, non paiono mancare le contraddizioni. Si parla di umanità riscoperta, di unità, di senso solidale degno del miglior comunitarismo ma tutto sembra valere fino alle porte delle carceri, dei centri di accoglienza, delle frontiere. E’ una conquista monca, selettiva. Ha anche essa dei confini, delle chiusure.

Che la chiusura fosse elemento essenziale nella prassi occidentale era cosa ben nota, prontamente ricordata dai recenti respingimenti attuati al confine greco dell’Unione Europea in danno di una massa informe di disperazione e paura fuggita dalla Siria, per via turca. Nella più palese violazione di normative internazionali ed unionali, la Grecia ha usato polizia e filo spinato per tenere fuori il fastidio, la minaccia migratoria nel nome di una non meglio definita sicurezza – nella più totale indifferenza della UE. Qualcuno ha osato parlare di una “morte europea” avvenuta al confine greco, senza che ne sia mai seguito un reale biasimo. L’obiettivo sicurezza era raggiunto, con qualche concessione compassionevole nel campo profughi di Lesbo. Tutto risolto, tutto sicuro.

Nel frattempo la svolta pandemica porta alla ribalta il distanziamento sociale, l’igiene personale e l’estrema contagiosità del contatto umano. Homo homini virus è il nuovo paradigma; si corre ai ripari con isolamenti, quarantene e misure di profilassi. Misure indispensabili e, tuttuavia, inattuabili in campi come Lesbo. Qui la promiscuità è norma, il distanziamento è impossibile e l’igiene è chimera in assenza di acqua e servizi; si lancia l’allarme, si chiede al democratico occidente europeo di agire. E´un appello a cui non risponde nessuno; l’Inghilterra annuncia la propria indisponibilità ad accogliere minori stranieri non accompagnati, per il tramite del suo Ministro dell’Interno – Priti Patel –, figlia di rifugiati. La pandemia dilaga ma il problema è risolto; la sicurezza europea è ottenuta e la lontanza, l’impossibilità di incrociare la sofferenza umana, fa il gioco della deresponsabilizzazione. E’ qualcosa che accade lontano da noi, cittadini europei, non ci riguarda. Qualcosa di ben noto a Gunther Anders.        

Ma il problema degli untori stranieri non funziona come antidoto alla paura pandemica, non allontana il morbo ed il bisogno di sicurezza – tanto illusorio quanto ingovernabile – deve rivolgersi altrove. L’ansia e l’incertezza spazzano via l’esperienza dell’isolamento e l’empatia tra sofferenti, e riscopre la chiusura. Anche interna, nel nome di una quarantena da cui non deve uscirsi; la situazione comune non ammette regole. Soprattuto per chi è recluso dietro le sbarre di una cella.  

L’odierno dibattito – italiano – sulle scarcerazioni indiscriminate appare come l’ultimo colpo al garantismo penale e porta, forse, i segni di un pericoloso rigurgito giustizialista. Aldilà di un evidente fraintendimento giuridico – non di scarcerazioni si parla, ma di differimenti di esecuzioni o di provvisorie esecuzioni alternative – lo sdegno manifestato da larga parte della cittadinanza nei confronti delle decisioni di alcuna magistratura di sorveglianza appare, invero, come una pesante sconfitta morale, quanto giuridica. L’insensibilità verso il dolore altrui, verso soggetti afflitti da patologie evidenti, invalidanti, canuti nell’aspetto e provati da anni di privazione di libertà da il quadro di un cinismo irrazionale, riscoperto proprio nel momento in cui più umanità si invocherebbe. Segno di una rieducazione penale – e del ben più pregnante concetto di dignità umana – mai davvero  accettata, con una insofferenza dalle radici forse lontane, ben precedenti al Covid-19.

Si fa strada la retorica di un detenuto – ancora più se boss – che perde il suo statuto di uomo, declassato ad essere di rango inferiore dai diritti depotenziati. E le sue eventuali condizioni fisiche non pesano quanto la sua pena, così come il rischio contagio – come se il Covid-19 conoscesse il discrimen dei contesti sociali, degli spazi chiusi. La teoria morale della mostruosità offre la base per l’emarginazione del criminale di alto rango, giustificandone l’espulsione dal circuito delle normali garanzie di diritto. Ad esso non può più ascriversi lo status di uomo, cittadino, membro di una comunità di ordinata convivenza; la malvagità, mostruosità delle sue azioni trascende il concepibile umano ed approda in altri àmbiti del giudicabile, quelli propri di un mostro. Ed il diritto, calibrato sull’umanità dei suoi utenti, risulta pertanto indumento inadatto per le forme mostruose del detenuto d’eccellenza, colui che ha compiuto un irreversibile recesso dal patto sociale. Non resta che la neutralizzazione; la rieducazione è inidonea, troppo civile per lui.

La speranza di un idem sentire umanitario, empatico e solidale appare vuota retorica se visto alla luce di queste due categorie umane, allora. Si profila piuttosto il pericolo che la minaccia pandemica abbia messo in risalto vecche abitudini, potenziate dal sentimento della paura; appaiono saltare tutti gli schemi del diritto come strumento di convivenza, mite, e si fa spazio il momento punitivo, frutto dell’ansia securitaria e della paura. I rischi non sono pochi: in un contesto di paura indiscriminata come quello odierno, in cui la risposta securitaria appare unico vaccino, il pericolo di una china scivolosa si fa sempre più concreto. Chi sarà il prossimo ad essere confinato, chiuso, segregato, per spegnere il focolaio dell’inquietudine? Se la paura sopravvive al confino del migrante ed alla reclusione del detenuto, quale soluzione? Chi può ancora costituire una minaccia? Ed allora perchè non provare a chiudere, escludere, punire anche il concittadino, lo studente che rientra, il runner solitario sulla spiaggia, il nostro vicino. Od il medico, condomino, che rientra da un turno di 14 ore. Una deriva di ansia, una deriva securitaria. Un meccasimo tale pare più incline a recidere ulteriormente i già labili legami intersoggettivi, semmai, e contribuirebbe a perpetrare ed aggravare una paura senza soluzioni.

Si dimentica, in questo clima ossessivo, che in àmbito democratico la sicurezza debba declinarsi secondo il linguaggio dei diritti, non del loro calpestamento o sospensione. Non sembra cogliere il segno ogni invito Hobbesiano alla protezione sociale come norma in bianco riempibile con qualsiasi mezzo – magari autoritario. Il contratto sociale democratico, semmai, è fatto di clausole stringenti, inderogabili, improntati all’equal concern and respect di ogni essere umano; l’unica sicurezza perseguibile, allora, è quella di una sicura tutela e garanzia dei diritti individuali, nelle forme libertarie ed egualitarie, che non sospenda mai la qualità umana dei suoi destinatari, presupposto dell’accordo.

“Buttate le chiavi” e “affondate i barconi” sono moniti miopi, che omettono di considerare l’importanza della tutela dell’ultimo, del lontano, in ottica generale; nella possibilità di sospendere la tutela giuridica – mediante la revoca dello status umano, per esempio – v’è già il pericolo che questa opzione possa essere un giorno utilizzata contro noi, nel grande gioco della deriva securitaria. Le vie della lotteria sociale sono infinite e non v’è nessuna garanzia che i posti degli ultimi non vengano un giorno occupati da chi ora li condanna – evenienza ben presente a Rawls e posta alla base del suo esperimento teorico di giustizia. Nessuno, in altri termini, può assicurarci che le deroghe al contratto sociale garantista oggi compiute in danno dei chiusi, degli ultimi, non possano un giorno operare contro noi.

Il mostro, inoltre, non si spiega neppure alla luce del principio di dignità personale articolato da Carlos Nino e pilastro dell’architettura democratica. Tale principio prevede la possibilità di porre limitazioni all’autonomia personale in modo non coercitivo e consensuale, consentendo la configurazione di istituti sociali quali matrimoni, contratti, che implicano cessione di quote d’autonomia. La punizione, in questo senso, costituirebbe una autolimitazione coscientemente accettata dall’individuo, consapevole della possibilità che alla trasgressione della pacifica convivenza – alla cui creazione ha attivamente contribuito – segua una sanzione. Un processo che presume, allora, una capacità – umanità – costante: si delibera da uomini, si giudica da uomini e si punisce da tali. La pena non può inibire il circuito deliberativo, fondativo della convivenza.

La teoria del mostro vorrebbe spezzare questa catena nella sua parte esecutiva – forse anche prima. Ma come poter giustificare tale salto logico? Come fare a tramutare in disumano colui che ha contribuito a plasmare quella stessa società in cui la punizione vige, e che l’ha anche accettata come evenienza? Non si spiega, allora, come fare a togliere lo status di soggetto deliberante, uomo, senza scardinare i presupposti democratici – e che governano la stessa legittimità punitiva. Accantonare il concetto di emergenza, di ossessione del colpevole, riscoprire la leale cooperazione democratica potrebbe forse essere il vero antidoto, il vero vaccino alla tristezza del tempo odierno. Fare semplicemente il proprio dovere, come ben avvertiva Camus. E riflettere sulla sofferenza, sul male del confino sociale potrebbe essere un buon inizio, indispensabile per comprendere la pericolosità di chiusure verso qualunque essere umano, specie se disperato. Solo così, ad emergenza conclusa, saremo in grado di scardinare vecchie categorie morali, ripensando a quanto fragile sia l’idea di sicurezza e come una tranquillità fondata sull’altrui sofferenza si riveli vana e terribilmente ingiusta. Nella speranza che il Covid-19 possa, davvero, spazzare via l’Omelas dei tempi moderni.

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