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Recensione a “The Morals of the Market. Human Rights and the Rise of Neoliberalism”
Da una parte Carola, dall’altra Ursula; da una parte Amnesty, dall’altra il FMI; da una parte le ONG, dall’altra i Memorandum: a questo si riduce l’ultimo rifugio di una sinistra che ha trovato nella moralizzazione di ogni problema e di ogni conflitto il surrogato della capacità di leggere politicamente la realtà e di incidere in essa. D’altra parte, gli avversari contro cui sceglie di scagliarsi (veri o presunti despoti, calcoli di bottega o di palazzo sulle vite degli ultimi della globalizzazione, rigurgiti post-, neo- o pseudo- fascisti) le appaiono, comprensibilmente, tanto ributtanti da rendere sopportabile il fatto che le figure prima evocate si possano trovare spesso dalla stessa parte della barricata. Il più delle volte la critica a tutto questo si riduce, purtroppo, a denunciare nei primi dei cavalli di Troia, più o meno consapevoli, dei secondi, nel “restiamo umani” l’arma propagandistica dei mercati per scardinare sovranità statali e comunità culturali, perdendo spesso l’occasione per riflettere su quante possibilità esistano tra cinismo e moralismo, identitarismo e universalismo astratto, piccole patrie e umanità senza determinazioni, e come siano proprio queste sfumature a costituire terreno di conflitto politico. «Chi dice umanità cerca di ingannarti», lo sappiamo da Schmitt e dall’indimenticato Danilo Zolo. Del resto, sono lì a provarlo “guerre umanitarie” e “rivoluzioni colorate”, ma anche il semplice imbarazzo che si prova nel vedere troppo spesso, in calce ad uno stesso appello o nelle foto dell’ennesimo presidio, sinceri attivisti e pescecani, apostoli della solidarietà incondizionata e affossatori del Welfare, compagni di strada un poco ingenui e aperti nemici. Esiste una possibilità di interpretare tutto questo sfuggendo sia alla tesi della mera strumentalizzazione per fini esterni (“l’umanitarismo resta qualcosa di intangibile anche se, purtroppo, ‘capita’ venga utilizzato a fini imperialistici e promosso dalle élites transnazionali) o dell’identificazione senza scarto (e a spese delle vittime reali) tra qualsiasi richiamo ai diritti umani e un indifferenziato globalismo neoliberale?
Il libro di Jessica Whyte, The Morals of the Market. Human Rights and the Rise of Neoliberalism (Verso, 2019), offre, attraverso una dettagliata analisi storica e concettuale, un ampio quadro di come la logica neoliberale si sia intrecciata a quella dei diritti umani, a volte confliggendo e a volte appropriandosene, ma soprattutto declinandone una versione specifica, se si vuole distorta, ma grazie alla quale essi sono divenuti «ideologia dominante di un periodo segnato dalla scomparsa delle utopie rivoluzionarie e della politica socialista» (p. 12). In un percorso che va dal 1947, con i primi incontri della Commissione sui Diritti umani a Lake Success, da un lato, e della Mont Pèlerin Society, dall’altro, fino agli anni Settanta, con il Nobel per l’economia a Milton Friedman (1976) e per la pace ad Amnesty International (1977), ma sfiorando il presente, la Whyte mostra come pensatori e politici neoliberali, lungi dall’abbracciare un arido economicismo, abbiano legato fortemente “mercato” e “ordine morale”, sia nel senso che un mercato competitivo veniva inteso come condizione necessaria della libertà individuale, sia perché si riteneva che esso potesse darsi solo all’interno di un saldo ordinamento istituzionale e valoriale. Il neoliberalismo, pur non formando mai un blocco monolitico, richiedeva in qualche modo criteri morali che permettessero di giustificare l’intervento dello Stato in favore del mercato (attraverso, ad esempio, le privatizzazioni) e, al tempo stesso, di condannare come potenzialmente totalitaria ogni politica di riduzione delle diseguaglianze o del controllo di settori strategici. La griglia concettuale dei diritti umani, persino quando formalmente condannava la diseguaglianza, risultava funzionale, ponendosi al di qua di ogni finalità e necessità politiche e guardando ad esse con sospetto, all’esigenza di «depoliticizzare la società e rendere i margini della libertà compatibili con la sottomissione al mercato come sola possibile libertà» (p. 160). Anche al di là di sovrapposizioni più vaste, che il libro del resto non trascura, lo schema che avrebbe reso la logica dei diritti umani compatibile e, anzi, utile all’affermazione del discorso neoliberale era ed è tutto sommato semplice: l’attribuzione di ogni minaccia alla dignità e all’indipendenza della persona, così come di ogni pulsione alla violenza e alla guerra, alla politica e, in particolare, alla sovranità statale, assolvendo interessi, sistemi e poteri economici. Questa impostazione si è articolata perfettamente all’idea neoliberale secondo cui il libero mercato sarebbe, se considerato in quanto tale, un fattore di pacificazione internazionale e di promozione delle individualità, proprio in virtù della sua capacità di separare sovranità e potere economico, nelle parole di Röpke Imperium e Dominum (p. 133).
L’espressione più netta di questa simbiosi viene rintracciata dall’autrice nel gruppo “Liberté sans Frontières” (LSF), sorto a metà degli anni Ottanta in stretta connessione con “Médecins sans Frontières” e in opposizione al “terzo-mondismo”, al quale rimproverava di imputare allo sviluppo ineguale dell’economia internazionale quelli che invece erano da considerarsi effetti delle storture autoritarie degli Stati usciti dalla colonizzazione. Coerentemente con la tendenza dominante nelle organizzazioni non governative europee e statunitensi nel momento della massima ascesa dei “diritti umani” come lessico ideologico globale, LSF avrebbe «abbracciato una dicotomia promossa dai pensatori neoliberali tra la politica come violenta, coercitiva e, in ultima analisi, “totalitaria”, da un lato, e il mercato o “società civile”, dall’altro, come un regno di relazioni libere, reciproche, benefiche e volontarie», spingendosi al punto di mobilitare questa logica contro ogni rivendicazione di maggiore giustizia economica nel mondo postcoloniale (p. 201). Uno dei maggiori pregi del libro è proprio quello di indicare nel rapporto con le ex-colonie, in una gamma di posizioni che vanno dalle connotazioni più razzistiche del termine “civiltà” a condanne del colonialismo come escrescenza del potere politico, uno dei terreni privilegiati di mescolanza tra “umanitarismo” e “neoliberalismo”. Dalla valorizzazione del sistema dei “mandati”, come laboratori di sottomissione della politica alle regole dei mercati (p. 47), al terrore espresso per la possibile evoluzione dell’indipendenza delle ex-colonie in pianificazione dell’economia e in messa in discussione della divisione internazionale del lavoro (p. 143), la versione neoliberale dei diritti umani si è presentata, in effetti, come un operatore ideologico al tempo stesso implacabile e duttile, permettendo di imputare al politico tanto l’imperialismo, slegato da ogni relazione con il capitalismo, quanto la deriva autoritaria degli stati postcoloniali. In ogni caso, come ebbe a dire efficacemente Hayek, all’“addomesticamento del selvaggio” andava fatto seguire l’“addomesticamento dello Stato” (p. 136).
Il libro, del resto, apre diverse piste ad una maggiore comprensione dell’oggi, non da ultima una genealogia del connubio tra neoliberalismo e conservatorismo e del ruolo di cerniera giocato, anche su questo piano, dalla tematica dei diritti umani, perfino nel “miracolo” (l’espressione è condivisa da Hayek e da Friedman) neoliberale rappresentato dal Cile di Pinochet. Stupirà dovere prendere atto del cortocircuito subito da un discorso umanitario ormai distante dalla critica gli assetti economici e sociali generali di fronte ad un tale connubio tra monetarismo liberista e dittatura politica: «E’ stato in Cile che il discorso neoliberale sui diritti umani si è consolidato (…) Se i diritti umani erano il prodotto del funzionamento mercato, come i neoliberali hanno costantemente sostenuto, allora era necessario proteggere il mercato dai movimenti politici egualitari. Piuttosto che proteggere gli individui dalla repressione dello Stato, i diritti umani neoliberali operavano principalmente per preservare l’ordine del mercato depoliticizzando la società e stabilire il margine di libertà compatibile con la sottomissione al mercato come unica libertà possibile. (…) Nell’inquadrare la loro agenda dei diritti umani come apolitica, e senza implicazioni per gli accordi economici, ONG come Amnesty International hanno cercato di evitare i violenti conflitti politici tra visioni economiche e politiche antagonistiche che hanno segnato la presidenza di Allende. Ma, nell’accettare la dicotomia tra politica violenta e società civile pacifica, hanno ulteriormente screditato le sfide politiche alle disuguaglianze e al dominio impersonale della società di mercato» (p. 160-161).
Ovviamente non si tratta di ridurre l’estensione e, a maggior ragione, le istanze originarie della tematica dei diritti umani all’incontro con il neoliberalismo, ma di individuare in esso una delle ragioni della loro pervasività sul piano discorsivo (non necessariamente nella realtà effettiva). Ad emergere è, infatti, soprattutto l’estrema plasticità dei “diritti umani neoliberali”: dalla riduzione dei diritti sociali ad uno “standard minimo” che mettesse al centro la figura dell’individuo-consumatore (p. 98) alla critica ad ogni possibilità di fissarlo, vista come vettore della tanto temuta “eguaglianza” (p. 108), dalle teorie di Becker secondo cui la razionalità economica suggeriva di sostituire il matrimonio con «rapporti contrattuali volontari a breve termine tra individui di qualsiasi genere» alla posizione di Röpke per cui il mercato competitivo richiedeva, invece, «una fondazione morale e la ricostituzione di famiglie forti per promuovere l’autosufficienza e la “dignità”» (p. 108), dal rafforzamento della famiglia come alternativa al Welfare State e alla sua presunta forza deresponsabilizzante in Occidente, fino all’idea che nel Sud globale la famiglia allargata rappresentasse un intralcio allo sviluppo del mercato e dello spirito imprenditoriale (p. 216). Ecco, se il libro della Whyte mostra come il segreto del successo della declinazione neoliberale dei diritti umani è consistito, proprio nel momento stesso in cui politicamente si intrecciava al conservatorismo politico e culturale, a fornire una «patina progressista» alle coscienze liberali metropolitane, messe in crisi sia dalle rivendicazioni terzomondiste che da alcuni esiti tragici dei processi aperti dalla decolonizzazione e dalle resistenze all’imperialismo (p. 219), meno indagato rimane il tema del perché e con quali slittamenti uno dei nuclei di questo discorso – la contrapposizione tra un’umanità trasfigurata in società civile globale e il volto demoniaco della sovranità statale – sia stato introiettato anche dalla sinistra “movimentista”, “solidarista” e “altermondialista”, ben lontana, ovviamente, da tutte le implicazioni occidentalocentriche del neoliberalismo. In questo senso resta probabilmente da approfondire, oltre al consolidarsi di un registro ideologico centrato su una programmatica distanza dallo snodo del potere, la genealogia del nesso tra le famose libertà di circolazione dei capitali, delle merci e delle persone, un nesso problematico, rispetto al quale, come ricorda fugacemente il libro, lo stesso neoliberalismo è stato percorso da ambivalenze e contrasti (p. 155). L’altro aspetto da considerare è se, una volta ristabilita la centralità delle dinamiche di classe e del ruolo dello Stato come condensazione e punto di trasformazione dei rapporti di forza e di egemonia sociali, la dimensione dell’umanità e dell’universalismo debba essere semplicemente decostruita o, invece, assunta anch’essa come campo di battaglia, tale da riarticolare la nozione stessa di “diritti”. In ogni caso molti percorsi di ricerca potrebbero diramarsi da un’attenta lettura del libro di Jessica Whyte, ma, soprattutto, essa dovrebbe alimentare la consapevolezza che, quando oggi di fronte ai richiami alla sovranità nazionale e popolare si alzano grida sulle sue possibili derive populiste e autoritarie, qualcosa di non troppo diverso è già avvenuto, ogni volta che un “dannato della terra” si è ribellato al destino impostogli dalla “dolcezza del commercio”.
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