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50 anni di Statuto


20 Mag , 2020|
| Visioni

Ci sono anniversari che vanno assolutamente celebrati perché rimandano ad eventi che hanno segnato uno spartiacque decisivo nella storia del nostro Paese in termini di progresso e emancipazione sociale e politica. Oggi è il giorno dello Statuto dei lavoratori che festeggia i 50 anni dalla sua entrata in vigore (parliamo della legge 300 del 20 maggio 1970 contenente «norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento»). Nonostante il tempo e le ripetute manomissioni al quale è stato colpevolmente sottoposto, resta l’architrave non solo del diritto del lavoro in Italia ma della cultura giuridica moderna. Ancora oggi, in materia di lavoro è, senza dubbio, la fonte normativa più importante nel nostro ordinamento dopo la Costituzione.

Con lo Statuto dei lavoratori la Costituzione repubblicana varcava finalmente i cancelli delle fabbriche. I diritti e la dignità del lavoratore venivano riconosciuti e tutelati anche all’interno dei luoghi di lavoro, riequilibrando un rapporto strutturalmente squilibrato. Da lì a poco quegli stessi principi avrebbero fatto ingresso anche all’interno dei nuclei familiari, delle scuole e delle università, e all’interno delle strutture sanitarie nazionali (qui il riferimento è alla legge Basaglia del 1978).

Il cammino dello Statuto dei lavoratori è stato lungo e accidentato. Tutto comincia con l’iniziativa del novembre 1952, quando per la prima volta Giuseppe Di Vittorio sollecitò l’approvazione di uno «Statuto dei diritti dei lavoratori». Tuttavia, solo con la svolta degli anni 60 e l’ingresso del PSI nell’area di governo questo progetto di riforma entra nelle aule parlamentari, per poi diventare legge dello Stato dopo un serrato ma costruttivo confronto con l’opposizione comunista, che, sebbene si astenne durante la votazione finale perché giudicò insufficienti le tutele destinate ai lavoratori delle piccole imprese, diede un contributo fondamentale in termini di miglioramenti apportati al testo originario.

Lo Statuto ha diversi padri nobili: innanzitutto i socialisti Giacomo Brodolini (già vicesegretario della Cgil ai tempi della segreteria Di Vittorio) e Gino Giugni (nel 1969 eletto presidente della commissione incaricata di elaborare lo Statuto dei lavoratori), poi Carlo Donat Cattin, leader della sinistra democristiana, fra i protagonisti anche dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Ma una spinta decisiva venne certamente dalle lotte operaie dell’Autunno Caldo del 1969, precedute e poi accompagnate dal ’68 studentesco. Il movimento (prevalentemente studentesco, ma non solo) del ’68 si era subito saldato con il movimento (prevalentemente operaio, ma non solo) del ’69, all’epoca dei rinnovi contrattuali del cosiddetto “autunno caldo”, dando vita così ad una sorta di “nuovo biennio rosso ’68-69”, che riecheggiava la memoria storica del “biennio rosso 1919-20”.

Un intero biennio, quello tra il 1968 e il 1969, che ridisegnò il mondo, e un po’ anche l’Italia, a cominciare proprio dal lavoro, sulla spinta di una modernizzazione irrefrenabile dei suoi assetti sociali, culturali e di costume. Nei dieci anni successivi abbiamo avuto la più straordinaria stagione di riforme e di conquista di nuovi diritti di tutto il secondo dopoguerra, cioè di tutta la storia repubblicana, una stagione fino ad oggi insuperata.

E di quella stagione è bene che rimanga viva la memoria storica: non per nostalgia del passato, ma per rilanciare un modello di rivendicazione che teneva abilmente assieme diritti sociali e diritti civili, dove il discorso sulle libertà individuali si legava e intrecciava con le grandi questioni sociali del tempo.

Se la stagione del primo centrosinistra è stata una stagione di grandi riforme, lo stesso certo non si può dire per le esperienze di governo di centrosinistra degli anni Novanta e Duemila. Sarà la post sinistra al governo negli ultimi anni, subalterna all’agenda neoliberale e prigioniera del dogma del vincolo esterno, a giocare un ruolo da protagonista nello smantellamento dell’intera impalcatura dei diritti del lavoro, dal pacchetto Treu alla controriforma Fornero, finendo al Jobs Act. Questo accadrà in assenza di una reazione adeguata alla gravità dell’attacco in corso da parte delle forze sociali e sindacali.

Il Jobs Act ha lesionato parti significative dello Statuto, manomettendo il suo articolo-simbolo, ovvero l’articolo 18, che tutelava il lavoratore ingiustamente licenziato con la reintegra nel posto di lavoro. Questa serie di forzature, come era facile prevedere, non ha creato alcun vantaggio per l’occupazione e per l’economia.

Per capire l’importanza del principio della reintegra ci serviamo di un aneddoto che gira da sempre in ambito sindacale.

Un industriale torinese nel passato ripeteva ad ogni assemblea dell’Unione industriali che bisognava abolire l’articolo 18, perché voleva in mano una pistola con il colpo in canna. “Io poi non la uso – diceva – perché non mi piace licenziare, ma i lavoratori devono sapere che quella pistola ce l’ho”.

Ecco spiegato, in poche ma efficaci parole, il motivo di tanto accanimento verso la precedente versione dell’articolo 18: c’era bisogno di sbilanciare i rapporti di forza fra datori di lavoro e lavoratori in senso assai più favorevole ai primi, eliminando quella norma antiricatto che consentiva al lavoratore di poter esercitare con relativa tranquillità, durante il rapporto di lavoro, i suoi diritti sindacali. Senza il deterrente della reintegra diventa certo tutto più complicato e rischioso.

Con il Jobs Act, dalla reintegra si è passati al principio della monetizzazione del lavoro: al lavoratore ingiustamente licenziato spetta ora una semplice indennità risarcitoria. Così riproducendo le peggiori logiche del capitalismo finanziario globale, che riducono, da sempre, il lavoro a una variabile dipendente, a mera merce, per giunta svalutata.

Questo è il quadro attuale. Eppure, il passato ci ricorda tutta un’altra storia. La ricostruzione sociale nei paesi democratici dopo la seconda guerra mondiale, in Italia come in molte altri Paesi europei, si è fon­data largamente sul contributo dato dal mondo del lavoro e sull’azione delle organizzazioni che lo rappresentavano. Alla base dei sistemi demo­cratici europei vi era un patto sociale che aveva nel lavoro un elemento centrale. Non a caso la Costituzione italiana afferma che la Repubblica è fondata sul lavoro, esplicitando un nesso indissolubile tra lavoro, demo­crazia e dignità sociale della persona umana che veniva riconosciuto e rispettato da tutti i partiti dell’arco costituzionale.

A partire dagli ultimi quattro decenni, la situazione è però del tutto cambiata. La centralità del lavoro è venuta meno, ed è entrato in crisi il rapporto tra lavoro e politica. Mentre nel periodo d’oro del dopoguerra (i cosiddetti Trenta gloriosi) il lavoro in qualche modo era una certezza che garantiva stabilità, consentiva di realizzarsi come per­sona e di costruirsi una famiglia, oggi l’incertezza del lavoro determina una precarizzazione della vita, genera paura e richieste di prote­zione, a cui tanto la politica quanto il sindacato non sono più in grado di rispondere.

Il tema centrale è proprio quello di fornire una risposta a questo bisogno di protezione: l’esigenza di poter contare su una determinata cornice di diritti in cui ciascuno possa collocare la propria aspettativa di futuro in un quadro di ragionevoli certezze. Ora questa necessità è avvertita anche da una parte del sistema delle imprese, soprat­tutto da quelle imprese che intendono investire sulla qualità e sui settori ad alto valore aggiunto, e che quindi avvertono il rischio di confrontarsi con un mondo del lavoro dequalificato anche perché privo di diritti e protezione.

Per rispondere a tutto questo serve però un rinnovato protagonismo della politica, a partire da una messa in discussione del rapporto tra Stato e mercato per come si è andato determinando nel corso degli ultimi decenni.  Da qui la necessità di recuperare gli strumenti politici di un tempo (messi fuori gioco prima dalla globalizzazione neoliberista, poi dal cosiddetto «pilota automatico» attivato dalla tecnocrazia europea) attraverso i quali governare e orientare i processi economici verso finalità di progresso sociale, interpretando con intelligenza e creatività l’esigenza di uno sviluppo qualitativamente diverso.

Questo significa agire su almeno due livelli: un livello necessariamente sovranazionale (spezzando il vincolo esterno delle compatibilità date, che oggi impediscono politiche pubbliche coraggiose in senso pro labour) e uno nazionale (da questo punto di vista una priorità è certamente quella di dare vita a una nuova Carta universale dei diritti[i] che valga nei confronti di qualsiasi forma di lavoro, nei confronti di tutti i lavoratori in quanto tali).

L’orizzonte di riferimento resta sempre la nostra Costituzione. Il nesso sovranità democratica-lavoro scolpito nell’articolo 1 e le grandi finalità a cui allude l’articolo 3 comma 2 rappresentano oggi più che mai la bussola che deve orientare l’azione politica di chi ha a cuore gli interessi del mondo del lavoro.

Nel frattempo c’è bisogno che la politica torni ad avere un rapporto vero con il mondo del lavoro e con i luoghi della sofferenza sociale, in modo che chi ha bisogno di risposte possa trovare fisicamente un inter­locutore al quale rivolgersi.

Lo si è scritto più volte[ii] ed è forse utile ribadirlo anche qui. Oltre quella tradizionale fra destra e sinistra, negli ultimi tempi ci siamo confrontati con un altro tipo di dialettica: quella fra una cittadella assediata e pericolante, rappresentata dalle vestali e dai beneficiari dell’ordine vigente (oggi in crisi) e i barbari che premono alle sue porte, che rappresentano il popolo dei vecchi e nuovi esclusi, il cosiddetto popolo delle “periferie” umane, culturali, economiche, sociali e ambientali del nostro tempo.

Una nuova forza politica che intenda collocarsi dalla parte del lavoro e della Costituzione deve ritrovarsi senza infingimenti da quest’ultimo lato della barricata, sebbene in essa si agiti un aggregato pieno di sfaccettature, attraversato anche da pulsioni regressive, ambiguo sul terreno etico e culturale, difficile da afferrare e orientare. Perché lì sta il suo blocco sociale di riferimento, che va ricomposto e organizzato attorno ad alcune idee-forza e sulla base di un diverso progetto di società, facendo maturare le tendenze e le spinte più apertamente progressive ed emancipatrici. Tutto questo, però, non al modo di una nuova avanguardia che si attribuisce i compiti di rappresentare quel mondo senza esserne minimamente parte, senza stabilire con esso una «connessione sentimentale» autentica e fedele, senza riconoscere gli elementi di verità presenti al suo interno. In altre parole senza aderire alla sua vita più intima e concreta, senza  – come direbbe Gramsci – praticare una «compartecipazione attiva e consapevole», per «con-passionalità», «per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe definire di filologia vivente»[iii].

Si tratta in definitiva di interpretare e mettere in forma i sentimenti e le aspirazioni più profonde di un’epoca, trasformando ciò che è confuso in un progetto politico coerente e significativo. Per fare questo serve sia la capacità di aderire parzialmente ai sentimenti immediati della popolazione che quella di riformularli, di dare a questi sentimenti un’espressione non immediata ma resa compatibile con la costruzione di una prospettiva politica. Oggi è esattamente questa attitudine, questa arte che si è smarrita: la capacità di tenere assieme queste due tendenze. Si ritiene che essa non sia più necessaria, si pensa che nel mondo post-moderno la mediazione politica (perché di questo alla fine si sta parlando) – da ripensare, certo, alla luce dei cambiamenti epocali degli ultimi anni – sia qualcosa da considerarsi definitivamente superato.


[i] http://www.cartacgil.it/

[ii] Mi sia concesso di rimandare ad un mio recente saggio. Qui i riferimenti: https://www.juragentium.org/Centro_Jura_Gentium/la_Rivista_files/JG_2019_2.pdf?fbclid=IwAR2zSQ-vrtCwOxHxPkJ0y8YEBpzSxoqutgR-PDPHoW0g7ldQsp8lnABTekM

[iii] A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, p. 1430.

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