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Che cos’è il merito nella società borghese liberale?
Un lemma abusato, di stanza sulla bocca di tutti; un concetto apparentemente unificante ed ecumenico, sotto il cui vessillo tutti ci sentiamo affratellati e nel cui nome rivendichiamo un mondo più giusto. Eppure bisognerebbe interrogarsi sulla natura di questo caposaldo della nostra civiltà, indagarne a fondo la natura, scrutarlo, sottoporlo ad analisi, vagliarlo attentamente per coglierne l’intrinseca ambiguità e la strutturale vacuità. Ogni idea, che non venga pensata solo come astratta ipostasi, assume una corporeità che la rende viva e operante sul terreno concreto delle contraddizioni reali. In quanto tale, visto che nihil ex nihilo fit, essa è, nei suoi connotati essenziali, emanazione filiale delle condizioni materiali vigenti. Essa è riflesso condizionato di un’egemonia culturale e del ceto socio-economico che la esercita.
Il merito, nella società borghese, è dato, al livello ideale, dalla somma di due fattori: talento innato e impegno attivo. Sono questi i due principi costitutivi. Stante questo postulato, è questo il merito che vediamo davvero implementato nella nostra quotidianità? Avanzano i talentuosi? Viene premiato chi s’impegna? A proposito, ma poi cosa sarebbe il talento? E l’impegno? In cosa consiste esattamente? Anche questi sono termini privi di substantia e organici al modello socio-politico che li ha prodotti e che li alimenta.
Nell’epoca dell’ insensata lotta per la sopravvivenza, del carrierismo sfrenato, della schiavitù del consumismo, dell’egoismo, dell’utilitarismo e della produttività esasperata come metro di valutazione per accertare la bontà di un essere umano, l’unico talento riconosciuto non può che risiedere nell’essere un cinico scacchista, nel perseguire il mors tua vita mea, nell’ avvalersi del prossimo tuo come mezzo e non come fine, nello spogliarti dell’etica, sentita come zavorra nella marcia verso il potere e la ricchezza. E l’impegno? L’impegno è ciò che ci serve per scalare la vetta. E in cosa volete che consista? Bisogna impegnarsi nel compiacere il datore di lavoro, nello stringere i rapporti giusti, nel tessere relazioni sociali chirurgiche, nell’ accrescere la produttività, nel dimostrarsi fermo e risoluto nel raggiungimento del proprio scopo, nel non avere remore né covare sentimenti di amicizia nel confronto col proprio simile, da intendere come mero ostacolo tra sé e il successo. Dunque per accordare il titolo di meritevole, sono questi i criteri di valutazione? Nella nostra società, sì. E chi ha talento in sogni improduttivi e s’impegna in ambizioni non profittevoli? Chi non sa sgomitare? Chi non sa odiare? Chi non sa tacere? Chi non sa mentire? Qual è il destino che spetta a queste categorie? Dicono i teorici della società aperta che nel nostro sistema chiunque può ambire a prendere l’ascensore sociale ed elevare il proprio status. Ne siamo certi? Se è vero che, dal punto di vista giuridico-politico, tutti godiamo formalmente di pari opportunità, è altrettanto vero che avvalersene è pura utopia, stante la diseguaglianza di base vigente sul versante economico. Il figlio di un ricco imprenditore e il figlio di operaio partono alla pari ai nastri di partenza? Formalmente sì, sostanzialmente no. Se il secondo avrà talento, riuscirà a coltivarlo, o dovrà mettere le proprie braccia al servizio del sostentamento proprio e della propria e famiglia? Avrà agi materiali sulla scorta dei quali poter consacrare la propria esistenza alla propria vocazione, o la sua vita sarà costellata di avversità che lo fiaccheranno fino ad estenuarlo e a distoglierlo dal proprio intento? Può una società di liberi formalmente essere libera in ogni suo individuo, stante la disparità economica? Se sono un operaio e il mio datore m’intenta un processo, fruiremo di avvocati parimenti costosi? Quando andremo a votare, il mio voto avrà il suo stesso peso? Anch’io potrò mobilitare stuoli di dipendenti sottoposti a ricatto? Anch’io potrò dispiegare una campagna elettorale faraonica, o non ne avrò i mezzi? A voi le risposte.
Mi affligge un ultimo, fondamentale quesito: se anche riuscissimo a scovare, per assurdo, l’uomo “meritevole” per antonomasia, a cosa avrebbe diritto, precisamente? Mi spiego. Perché intendiamo l’equazione “merito=maggiore quota di ricchezza sociale”? E se io, provocatoriamente, rilanciassi e dicessi che merito significa maggiore quota di responsabilità sociale? Se vi dicessi che, anche in questo caso, “merito” è un parto contingente del nostro modello socio-economico, che tutto ci invita a leggere con le lenti del do ut des e del bellum omnium contra omnes? Perché il “meritevole” deve ragionare esclusivamente nella logica dell’avere e non semplicemente dell’essere? Perché chi “merita” vede la propria gratificazione e il riconoscimento del proprio “essere” solo ed esclusivamente nell’ “avere”?
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