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Il significato della boxe e dell’essere un pugile
Nella galassia degli sport popolari, senza ombra di dubbio, il pugilato si ritaglia un ruolo tutto suo e fuori da ogni schema. La boxe, innanzitutto non è semplicemente un volar di pugni tra due uomini, ma è una nobile arte, che affonda le proprie radici in alcuni movimenti della scherma. Infatti, durante le cronache degli incontri si può spesso sentire pronunciato da un tecnico o da un giornalista il termine “scherma pugilistica”: perché questo?
Nei primi passi di questo sport, in Italia, intorno ai primi anni del novecento, a Milano i primi atleti che si cimenteranno furono i giovani rampolli della borghesia cittadina del tempo, che provenivano dalla scherma. Ci sono molte similitudini tra queste due discipline sportive come, ad esempio il jab (diretto sinistro o destro per le guardie mancine) – simile alla botta dritta nella scherma – o il gioco di gambe, che identifica anche uno stile pugilistico chiamato schermidore.
Ben presto in Italia la boxe lasciò il suo carattere di sport borghese per diventare un autentico sport per le masse popolari, nel primo dopoguerra dopo la caduta del fascismo.
Nei primi anni della sua vita, chi si avvicinava al pugilato lo faceva per riscatto sociale e per vincere la fame. L’unione di questi due fattori faceva leva a tal punto da vincere anche la paura di fare un combattimento uno contro uno e di subire colpi spesso durissimi e dolorosissimi. Questa fu in sostanza l’impalcatura sociale e culturale del pugilato.
I maggiori campioni che scrissero pagine indelebili di questo sport erano persone che provenivano da ghetti come Leone Efrati, pugile italiano di estrazione ebraica morto nei campi di sterminio, o Joe Louis, che veniva da una famiglia povera e rurale delle zone di Lafayette nel Chambers Country del profondo sud statunitense; lo stesso Muhammad Alì o Rocky Marciano erano spinti dal riscatto sociale.
I ghetti neri negli Stati Uniti, dal primo dopoguerra in poi, divennero delle vere e proprie fabbriche di pugili; le palestre venivano aperte nei luoghi più marginalizzati, dove cadere nelle mani della criminalità di strada era un attimo.
Il crescere per strada, la fame e le prospettive misere di una vita scatenavano due reazioni: finire a vivere di illegalità o entrare in palestra e dare una svolta alla propria vita. Così, le palestre divennero dei veri e propri “santuari” e scuole di vita, dove agli atleti veniva insegnata la disciplina, il rispetto delle regole e la lealtà.
Per chi sceglieva di entrare in palestra, magari anche per non cominciare una carriera agonistica nella boxe, questo posto diventava una vera e propria seconda famiglia e tante volte l’unica per chi una famiglia non l’aveva mai avuta. Non sempre, però, questa operazione di recupero sociale portava i risultati sperati.
In Italia le palestre cominciarono a diffondersi nei quartieri popolari, anch’essi attanagliati da grandi problemi sociali; su questo punto non si può non citare Marcianise, la nostra autentica fabbrica di pugili e campioni. Marcianise e la Campania in generale sono diventati esempio di una scuola di pugilato e di una mentalità trasmessa nella gestione e creazione di palestre di pugilato volte all’attività sportiva e sociale.
Ho sempre definito la Campania, dal punto di vista pugilistico, la nostra Panama, Puerto Rico e Cuba, poiché ha prodotto spesso campioni e pugili che nelle competizioni olimpiche hanno tenuto alta la bandiera italiana.
Il sistema sportivo e di integrazione sociale campano si deve al grande e compianto maestro Domenico “Mimmo” Brillantino, un abile maestro di pugilato e un padre per molti dei ragazzi della sua palestra.
Essere un pugile sicuramente rappresenta un qualcosa di diverso dall’essere un qualsiasi altro sportivo, non perché chi pratichi un altro sport sia da meno, ma per ragioni più profonde.
Il pugile è una persona che affronta e tocca con le proprie mani le sue paure più ancestrali: montare su un ring, in un quadrato recintato da sedici corde, è un qualcosa di altamente claustrofobico, in particolare se si ha un avversario davanti.
È necessario avere una grande padronanza dei propri nervi, si deve essere sempre in grado di poter ragionare ed elaborare una strategia di attacco e difesa.
Nella vulgata popolare si ritiene spesso semplicisticamente che il pugile vincente sia quello con più prestanza fisica. Questa è una credenza del tutto sbagliata: il vero campione, infatti, è colui che non vince con la forza, ma col cervello.
La boxe è uno sport di intelligenza, dove si deve, anche soltanto in una frazione di secondo, elaborare una strategia offensiva e controffensiva. A volte si possono subire colpi e la superiorità del proprio avversario anche per 12 round, ma poi basta un niente, un punto lasciato scoperto dalla guardia, per ribaltare la situazione a proprio favore con un colpo preciso e ben assestato.
Ecco, un pugile deve tenere conto di tutte queste cose.
I pugili sono persone nobili d’animo, perché conoscano il sacrificio e la sofferenza. Il pugile è l’uomo più solo al mondo, quando si allena; lo è ancora di più quando monta sul ring; e quando si spengono le luci del palcoscenico quel silenzio diventa assordante.
Questo è uno dei tanti motivi per cui il pugilato viene considerato uno degli sport più duri al mondo: esso ti tempra, sia fisicamente che mentalmente, perché ti sbatte la realtà nuda e cruda in faccia.
Chi sceglie questo sport è perché sa che in palestra trova, come dicevo prima, una seconda famiglia, se non l’unica che abbia mai avuto.
Il ring ti insegna a conoscere te stesso, ti insegna che nella vita si vince e si perde.
Ho sempre ritenuto che questo detto fosse particolarmente calzante per descrivere i pugili: “la vittoria ha molti padri e la sconfitta è sempre orfana”, poiché quando un pugile perde è solo, ma quando vince, al di là delle grida assordanti dei propri fan, lo è alla stessa maniera.
Forse sono questi motivi che rendano i pugili persone buone e generose, ma una cosa è certa: il pugilato ti fa sentire vivo e ti insegna a stare al mondo.
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