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L’università come comunità reale
Il DPCM del 4 marzo 2020 ha disposto la chiusura delle università su tutto il territorio nazionale. Dapprima prevista fino al 18 marzo, la chiusura si è protratta senza soluzione di continuità per tutta la cosiddetta Fase 1. Anche durante la Fase 2, quando sono state assunte misure di progressiva riapertura di fabbriche, uffici, esercizi commerciali, enti pubblici, ma anche dei luoghi di ritrovo e di socializzazione – parchi, palestre, bar, ristoranti, luoghi di culto – la riapertura dell’università non è sembrata un evento all’ordine del giorno.
Nella conferenza stampa del 26 aprile che preannunciava l’inizio della Fase 2, il premier Conte non ha ritenuto di dover fare menzione dell’università e nei giorni successivi il Ministro Manfredi ha continuato a mantenere una certa dose di riserbo e prudenza sulla sorte dell’accademia. Le notizie più rilevanti che abbiamo, per ora, sono tutte contenute in un documento risalente al 14 aprile, a firma del ministro, indirizzato ai Presidenti CRUI, CUN, CNSU, in cui vengono fornite le indicazioni che tutti gli atenei presenti sul territorio nazionale saranno tenuti a seguire durante la Fase 2 e la Fase 3 della gestione dell’emergenza Covid 19.
Possono riassumersi come segue. Durante la Fase 2, compresa tra maggio e agosto 2020, permane il blocco della didattica in presenza in tutti gli atenei; vengono progressivamente riaperte le biblioteche e i laboratori, a cui possono avere accesso i singoli, oppure piccoli gruppi di persone. In condizioni di sicurezza, è consentito procedere agli esami e alle sedute di laurea in presenza.
Durante la Fase 3, compresa tra settembre 2020 e gennaio 2021, sarà consentita la ripresa della didattica in presenza, ma in modalità blended, ovvero integrata da una didattica da remoto. Ma in cosa si tradurrà, concretamente, questa modalità di didattica mista?
Nelle Fasi 2 e 3, il Ministero lascia ampi spazi di manovra ai singoli atenei, consentendo alle università di porre in essere strategie diversificate, che tengano conto del «costante evolversi della situazione sanitaria, delle differenti specificità dei diversi contesti di riferimento e dell’autonomia delle singole università». Questo significa che spetterà ai rettori stabilire le modalità attraverso le quali consentire agli studenti e ai docenti di tornare in aula durante il prossimo anno accademico.
Ci sembra allora doverosa una riflessione sulla didattica a distanza, alla luce dell’esperienza che abbiamo maturato in questi ultimi mesi. Iniziamo enunciandone i meriti. La didattica a distanza si presenta come una tipologia di lavoro smart. Questo perché consente ai docenti e agli studenti di partecipare alle lezioni da casa. Riduce pertanto il pendolarismo – e tutto lo stress che ne deriva – e gli oneri per le famiglie, per esempio il costo dell’affitto e delle utenze di chi frequenta un’università lontana da casa. Rende inoltre le lezioni un prodotto on demand, perché registrandole, consente agli studenti di riascoltarle quando abbiano tempo e voglia. Deve essere per tutti questi motivi che, nelle ultime settimane, abbiamo sentito, da parte di alcuni docenti universitari, ma anche in articoli apparsi su quotidiani nazionali, tessere le lodi della didattica a distanza, la quale sarebbe meno dispersiva, più efficiente, in fin dei conti perfino più democratica.
Per legittimare l’utilizzo della didattica a distanza negli atenei – giungendo ad auspicare che questa possa soppiantare progressivamente la didattica tradizionale, in un futuro nemmeno troppo lontano – è stato spesso richiamato il modello Mooc (acronimo che sta per Massive Open Online Courses), sponsorizzato dalle università statunitensi già da più di un decennio e mutuato da alcuni atenei europei (anche in Italia) già prima dell’emergenza Covid. Il modello consiste nella predisposizione di corsi destinati a un gran numero di utenti. Questi forniscono nozioni base rispetto a molteplici argomenti, vengono caricati su piattaforme e sono fruibili spesso gratuitamente, previa registrazione.
In fin dei conti – si è detto allora – mutuando questo modello, la didattica a distanza può ottimizzare la trasmissione dei saperi, perché consente di concentrare una lezione in pillole, pronte ad essere assimilate (o per meglio dire, ingerite) dallo studente, evitando tutti i tempi morti della didattica tradizionale. Essa agevolerebbe anche – si è aggiunto – il lavoro dei docenti, perché consentirebbe di ridurre il tempo e gli oneri connessi all’attività didattica e lascerebbe loro più tempo per la ricerca.
È tutto oro quello che luccica?
La didattica a distanza a noi non sembra uno strumento né inclusivo, né democratico. In primo luogo, oggi, essa penalizza gli studenti che dispongono di attrezzature tecnologiche meno aggiornate, che non hanno accesso a una buona connessione a internet, o che, semplicemente, hanno scarse competenze digitali. In Italia un quinto della popolazione non ha mai utilizzato la rete e importanti aree del Paese non sono coperte da rete internet veloce. In secondo luogo, la didattica smart funziona solo grazie all’affidamento di una quantità macroscopica di dati a colossi dell’informatica, i quali, mettendo a punto le loro piattaforme, definiscono le modalità con cui le lezioni possono svolgersi e i soggetti interagire.
Si potrebbe obbiettare che il digital divide sia un dato contingente e che la questione della dipendenza dai colossi informatici sia controllabile grazie a una rigida regolamentazione e una maggiore informatizzazione dell’università. Ciò non toglie che molti problemi di fondo permangano.
Qualunque docente è avvertito della necessità di calibrare le proprie lezioni, di volta in volta, a seconda delle reazioni dell’uditorio che ha di fronte. L’esperienza gli insegna a distinguere la curiosità, le perplessità, la noia sui volti degli studenti, e perfino a riconoscere quel brusio che lo avverte che la lezione sta durando troppo. La mediazione delle piattaforme informatiche nelle attività didattiche, le quali consentono di annullare le reazioni degli interlocutori, silenziandone la voce, celandone le espressioni, perfino oscurandone i volti, annulla quasi del tutto questo feedback. Il docente diventa in molti casi un mero altoparlante di nozioni, le quali possono essere snocciolate una dopo l’altra, anche senza coinvolgere l’interlocutore. Addirittura, possono essere registrate e poi rese fruibili. Lezioni in pillole, come abbiamo detto, sempre pronte all’uso. Sotto le mentite spoglie dell’innovazione, ritorna la didattica trasmissiva messa al bando, per la sua inutilità, dalle scienze dell’educazione.
Ciò che è richiesto al docente è di fare lezione di fronte a uno schermo, con una totale assenza di rumore, ma anche con meno stimoli, domande, provocazioni. I docenti sanno bene che la lezione è anche fonte di crescita professionale. La commistione tra ricerca e didattica, nel lavoro del docente universitario, non è casuale. Non si può fare lezione bene, quando non si fa ricerca, ma non si può fare bene ricerca, quando non si fa lezione. Gli interventi degli studenti, le richieste di precisazioni impongono allo studioso di ritornare a pensare a questioni di fondo che spesso si danno per scontate, nel dibattito specialistico. Sforzandosi di rendere quelle nozioni più chiare agli studenti il docente, in una certa misura, le rende più chiare perfino a se stesso e può essere spinto anche a ripensare in una certa misura la sua linea di ricerca. La didattica a distanza allontana il docente da tutto questo, per confinarlo in un asettico onanismo retorico.
Né cambia questo stato di cose l’avvertenza di alternare le “lezioni in pillole” ai momenti di dibattito e di confronto. Questo modello, che viene definito flipped classroom, rivela una nozione binaria nella conoscenza, vale a dire individua nell’attività didattica due oggetti diversi e contrapposti: ciò che deve essere solamente appreso; ciò che può essere anche discusso. Alcune conoscenze, si sostiene – per esempio quelle professionalizzanti – non richiedono alcuna necessità di confronto. Basta acquisirle, e tanto è sufficiente. Ma l’attività didattica non dovrebbe invece basarsi sul principio opposto, ovvero che di tutto si possa discutere? Ciò che dovremmo insegnare agli studenti, in primo luogo, non è che non ci sia alcun ambito del sapere che sia al riparo dall’esercizio del pensiero critico, dalle scienze esatte alle teorie economiche?
Come tutti sappiamo, l’università non si alimenta solo dell’interazione tra docenti e studenti, ma anche del lavoro dei dottorandi, dei giovani ricercatori, e soprattutto della relazione degli studenti tra loro, nelle aule, nei corridoi, nelle associazioni studentesche. Essa rappresenta una palestra di confronti, l’occasione di intreccio di saperi, e anche la prima cellula di un patrimonio di affetti che spesso durano e si rafforzano negli anni. Che ne è di tutto questo, con la didattica a distanza?
È vero che la frequenza universitaria degli studenti grava, a volte in maniera insostenibile, sulle famiglie. Ma questo problema può essere affrontato solo incrementando borse di studio e potenziando il diritto allo studio, come prescrive l’art. 34 della nostra Costituzione, e non certamente confinando gli studenti nel privato.
La didattica a distanza, inoltre, finirebbe per penalizzare alcuni atenei. Per esempio quelli più piccoli o che lavorano in contesti svantaggiati, e che pure hanno investito risorse umane e materiali fino a diventare, negli anni, straordinarie comunità incarnate di vita e di sapere: pensiamo, per esempio, ai campus nati in alcune zone del Mezzogiorno, che negli ultimi anni hanno attratto un bacino di utenza sempre maggiore e registrato un progressivo aumento delle iscrizioni. Se la didattica dell’università si ridurrà a una mera fruizione di contenuti a distanza molti studenti, con la speranza di accaparrarsi un titolo di studio che sia più appetibile nel mercato del lavoro, saranno inevitabilmente attratti dai cosiddetti atenei “di eccellenza”, e questo metterà in discussione quel legame tra università e territorio che da anni viene indicato come uno dei vettori della crescita culturale ed economica di un Paese.
L’università, fin dalla sua nascita, è stata una comunione di saperi ed esperienze, uno spazio franco, indipendente e vissuto: l’opposto di automatismi disincarnati e asettici. Non è possibile costruire alcun sapere critico, senza l’universitas come comunità reale.
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