La Fionda è anche su Telegram.
Clicca qui per entrare e rimanere aggiornato.
Il drammatico bivio finale
Il 2019 era sembrato l’anno della svolta nella lotta contro il cambiamento climatico.
L’enorme attenzione mediatica riservata a Greta Thunberg aveva generato una nuova ventata ambientalista in gran parte del pianeta, fra movimenti giovanili, molteplici iniziative locali e ampi dibattiti, i quali avevano posto la questione con forza nello scenario attuale.
Così fino all’inizio del 2020, quando l’arrivo della pandemia ha spazzato via tutto.
Sebbene siano scomparse le prime pagine e le news dai notiziari, il dibattito è proseguito fra gli addetti ai lavori e nel campo politico-economico, dettato dall’urgenza di trovare una nuova via per il mondo post-pandemia.
Rassicurazioni sono arrivate dai politici europei riguardo il Green Deal, mentre altri attivisti e scienziati hanno rimarcato la necessità di sfruttare questa crisi per cambiare finalmente il nostro modello di sviluppo e avviarci definitivamente verso la green economy.
Una speranza coltivata da molti cittadini, che però rischia di infrangersi malamente contro il nucleo stesso del Sistema, come già accaduto in passato. Perché se da una parte l’ambientalismo ha contenuto/risolto svariati problemi, dall’altra ha fallito la missione più importante. Fino ad ora.
Vittorie locali e fallimenti globali
L’ambientalismo moderno nasce negli anni ’60, con il libro della biologa Rachel Carson intitolato “Primavera Silenziosa”, il quale fu uno dei primi detonatori della coscienza ecologica su scala globale.
Nei successivi anni ’70 il rapporto “I limiti dello sviluppo”, commissionato dal Club di Roma al MIT, iniziò a gettare pesanti dubbi sul nostro Sistema, sebbene falcidiato da numerose critiche e dimenticato prematuramente nei rampanti anni ’80. Ma proprio nella decade del neoliberismo emerse con forza la questione del cambiamento climatico.
Prima di allora la maggioranza del mondo ambientalista era concentrata sull’inquinamento, la deforestazione e la perdita della biodiversità. Con l’avanzamento degli studi scientifici e il moltiplicarsi delle prove, il riscaldamento globale venne finalmente individuato dai ricercatori, tanto da essere preso seriamente in considerazione dai potenti dell’epoca [i]. Ma l’occasione fu sprecata malamente e soffocata progressivamente dagli sforzi dell’industria petrolifera [ii] e dagli interessi dello sviluppo industriale.
Questo “errore” non fermò le proteste e la ricerca di nuove soluzioni, tanto che negli anni ’90 iniziarono i famosi summit internazionali (le COP: convenzioni quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), seguiti dal Protocollo di Kyoto, da un nuovo revival mediatico con l’ex vicepresidente americano Al Gore e infine l’apice, nel dicembre 2015, con il famoso Accordo di Parigi, salutato da tutti come il trattato salvifico che avrebbe messo in sicurezza la civiltà umana. In teoria.
Perché nella pratica, nella realtà, le lotte ambientali e le ricerche scientifiche si sono schiantate contro la crescita inesorabile delle emissioni di CO2, nonostante allarmi, petizioni, leggi, protocolli, summit e altre misure. Il cambiamento climatico è proseguito implacabile, avvicinandosi a soglie estremamente pericolose con una traiettoria temporale sempre più accelerata.
Se da una parte l’iniziativa politico-ambientale ha migliorato le condizioni di vita di milioni di persone, recuperato diversi ecosistemi, diminuito l’inquinamento in numerosi Paesi e avviato una timida transizione verde in alcuni (soprattutto in Europa), dall’altra parte si è persa in mille rivoli, ostacolata da innumerevoli forze e problemi, ma soprattutto dalla complessità e potenza del Sistema industriale-tecnologico esteso su scala planetaria. Perché un conto sono le battaglie puntuali come quella per chiudere il buco dell’Ozono, un altro è la battaglia per modificare radicalmente un Sistema sorto tre secoli or sono.
Misure estreme e percezioni
Secondo l’UNEP (Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) per contenere l’aumento delle temperature globali entro la fatidica soglia degli 1,5 gradi Celsius, andrebbero tagliate le emissioni dello 7,6% ogni anno, a partire dal 2020 [iii]. Proprio quest’anno le emissioni probabilmente caleranno fra il 4 e il 7% a causa del blocco generalizzato indotto dal coronavirus [iv].
Per andare vicini all’obiettivo dell’UNEP si è dovuto paralizzare un’economia planetaria, chiudere in casa oltre 3 miliardi di persone, oltre che bloccare numerosi apparati industriali e mezzi di trasporto. Con le drammatiche conseguenze che vediamo in ambito macroeconomico e il rischio concreto di una depressione generalizzata in diverse nazioni, come non si vedeva dal lontano 1929.
Questo calo reale, vissuto sulla nostra pelle, dovrebbe far gelare il sangue a qualsiasi attivista ambientalista, in quanto per fermare il cambiamento climatico, allo stato attuale, servirebbero misure di tale livello fino al 2030. Una cosa totalmente insostenibile dal punto di vista sociale ed economico.
E proprio in questo frangente si vede la complessità e l’immensa potenza pervasiva del Sistema industriale-tecnologico a cui obbediscono 7,8 miliardi di persone e la speculare crisi climatica causata da esso.
Una crisi che avvolge il pianeta, ma allo stesso tempo invisibile agli occhi dei più. Non si presenta come un Hitler climatico pronto ad invadere con le sue divisioni, ma come un iperoggetto mortoniano che agisce inglobando qualsiasi cosa non rendendo chiaramente percepibile la sua reale potenza, se non in paper scientifici e statistiche partorite da vari strumenti di misurazione.
I suoi danni non si manifestano in modo univoco, chiaro, diretto ed uniforme, ma agiscono con modalità anomale in vari angoli del pianeta, passando dagli inverni primaverili, agli incendi australiani fino allo scioglimento del Permafrost. E agiscono in modo “lento” per le nostre società agitate, nevrotiche e paranoiche, immerse nell’accelerazione turbo-capitalista del presente “qui e ora”.
Questa percezione distorta e ambivalente è un gravissimo problema nella lotta del cambiamento climatico, in quanto non predispone la nostra specie a ricercare una soluzione massiccia e immediata, come si è invece verificato nel caso della pandemia. Il cambiamento climatico c’è ed agisce, ma non terrorizza fino alla reazione di massa.
A ciò va aggiunta una questione culturale poco dibattuta, ma che contribuisce a questa percezione distorta: l’alienazione dell’individuo moderno. L’ascesa dell’artificialità attraverso l’invasione di oggetti inanimati, ritmi innaturali e componenti totalmente artificiali, ha progressivamente staccato l’uomo contemporaneo dal suo rapporto con l’ecosistema naturale. L’ambiente non viene più percepito come una parte fondamentale intrinseca all’individuo, ma come un’altra dimensione, accanto a noi, esterna. La nostra natura animale viene progressivamente negata, mentre cemento, bit, virtualità e processi industriali riempono le nostre esistenze. Un ulteriore colpo alla percezione del problema in corso.
Rapporti di forza
Anche se un domani dovessero crearsi dei potenti movimenti in grado di portare avanti il cambiamento decisivo, ci sarebbe l’inevitabile confronto con la reazione delle forze avversarie e la difficoltà estrema nel cambiare un Sistema in folle accelerazione.
Attualmente si stima che i sussidi ai combustibili fossili siano intorno ai 5200 miliardi di dollari a livello globale [v]. A ciò va aggiunto tutta l’industria collegata, i milioni di lavoratori impiegati e le enormi quotazioni azionarie delle imprese energetiche. Imprese che in passato hanno sistematicamente ostacolato la lotta ambientalista e che ora, furbescamente, praticano il famigerato “greenwashing”, ovvero una parziale riconversione annacquata da spot simpatici sulla futura green economy e supportati da previsioni altisonanti sul bel mondo che verrà. Ma questo lento spostamento di risorse e impegni verso l’economia verde sta avvenendo secondo le loro modalità, rievocando l’eterna lezione del Gattopardo. Soprattutto quando si tratta di assetti di potere.
Assetti e rapporti di forza che vengono dimenticati sovente nel dibattito ambientale, così come la stessa geopolitica.
Le risorse fossili non sono solo il fluido che mantiene in piedi la società industriale, ma anche un tremendo strumento di potere economico, politico e militare.
Numerose nazioni dipendono, a livello di bilancio statale, dagli introiti generati dal petrolio e altre risorse energetiche. Nazioni che sono situate in zone geopoliticamente instabili (Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Nigeria, etc.) e il cui possibile collasso derivato da un crollo delle esportazioni di tali risorse, comporterebbe una destabilizzazione sul larga scala dalle drammatiche conseguenze.
Le élite legate a questi Paesi, così come le Potenze protettrici, sono assai poco disposte a sacrificare tutto in fretta e furia per soddisfare le richieste dei movimenti verdi, nonostante fantasmagorici piani di sganciamento dal petrolio come il “Saudi Vision 2030” del leader saudita Mohammad bin Salman. Senza contare che le maggiori potenze del globo (Usa, Cina, Russia) e potentati regionali (Turchia, Iran, etc) usano tali risorse come leva nella feroce competizione multipolare. E proprio la cruda e cinica geopolitica sta mostrando che il cambiamento climatico in certi ambienti politici e militari non viene visto necessariamente solo come una calamità distruttiva, ma anche come un’opportunità da sfruttare per guadagnare nuove rotte commerciali e instaurare rapporti di forza a proprio vantaggio [vi]. Interessi enormi che coinvolgono in un intreccio strettissimo apparati politici, militari, industriali e finanziari.
A queste immense complicazioni vanno aggiunte le difficoltà nel modificare strutturalmente il Sistema in cui viviamo. Teoricamente le tecnologie sono disponibili e i costi delle energie rinnovabili stanno crollando, ma invece di procedere rapidamente verso la sostituzione dei combustibili fossili, fino all’anno scorso si è verificata una curiosa crescita in parallelo [vii], causata dal continuo sviluppo delle nostre economie e quindi un aumento complessivo della domanda energetica. Inoltre va tenuta da conto la differente velocità di riconversione delle varie nazioni.
Prendere come esempio le nazioni europee è estremamente fuorviante, avendo esse delocalizzato in parte la propria produzione industriale nei Paesi emergenti, oltre che essere parte di una delle zone più ricche del Pianeta, con società sensibili a tali tematiche. La prospettiva cambia radicalmente in svariati Paesi emergenti, dove la priorità è colmare il gap con i Paesi avanzati e garantire alla propria popolazione il benessere materiale dell’Occidente. E anche dove la questione climatica viene posta sul tavolo (come in Cina), arrivano comunque segnali contraddittori fra continuo uso del carbone [viii], dati falsati e leggi ambientali poco efficienti.
Ma tornando all’Europa, è proprio nel continente “più verde” e avanzato allo stesso tempo, che si vede la difficoltà di un cambiamento di tale portata. Il Paese più virtuoso, la Danimarca, ha ridotto solo dell’1,8 % le proprie emissioni annualmente, mantenendo una debole crescita del Pil [ix]. E l’impatto inquinante e alterante continua ad agire in modo distruttivo sul resto dell’ecosistema, per quanto sia stato rallentato.
Secondo un rapporto [x] dello European Environmental Bureau (EEB), una rete di oltre 143 organizzazioni con sede in più di 30 Paesi, i tentativi della “crescita verde” hanno fino ad ora sostanzialmente fallito nella possibilità di scindere la crescita del modello attuale dall’alterazione profonda degli equilibri naturali. Solo la decrescita fino ad ora ha garantito questo obiettivo. Ma la decrescita comporta tensioni sociali ed economiche fortissime. Un cane che si morde la coda.
Rimane l’ultima speranza riposta in miracolose tecnologie, dalla geo-ingegneria alla “cattura e sequestro del carbonio”, che secondo alcuni saranno in grado di imprimere la svolta decisiva nel prossimo futuro. Ma per il momento permangono grossi dubbi sulla loro efficacia e possibilità di realizzazione in sicurezza [xi].
Fra Mitigazione & Adattamento Profondo
Unendo le variabili esposte, emerge chiaramente un ritratto assai fosco del nostro mondo e le difficoltà estreme nel portare avanti una soluzione per fermare il cambiamento climatico. Piani come il Green New Deal americano o il Green Deal europeo per il momento sono ancora progetti sulla carta e limitati solo ad una parte del Pianeta. Il cambiamento climatico al contrario non conosce confini.
L’Accordo di Parigi, già debole e privo di sanzioni coercitive al suo interno, sta naufragando nelle sabbie degli scontri politici, come hanno dimostrato le successive convenzioni climatiche (COP), in particolare la COP25.
La questione ambientale, trattata a livello accademico in maniera esaustiva ed efficace con innumerevoli pubblicazioni, pecca terribilmente sul fronte del potere politico. Da qui i continui fallimenti nelle battaglie decisive.
Sebbene siano emersi partiti verdi, organizzazioni influenti e movimenti di protesta, essi non hanno ancora avuto la forza e la capacità di mobilitazione necessaria per la battaglia richiesta. Manca una visione ideologica/dottrinale di ampio respiro, in grado di spingere le masse a combattere duramente per cambiare lo status quo. Si inseguono tecnicismi per addetti ai lavori, mentre i rapporti di forza rimangono totalmente sbilanciati a favore degli schemi attuali.
La giusta via della mitigazione climatica (strategie per ridurre le emissioni) viene costantemente ostacolata e incanalata in mille burocrazie dai tempi biblici, con l’effetto paradossale di creare una pericolosa illusione: la possibilità idealistica che prima o poi le classi dirigenti planetarie prenderanno atto del pericolo e mosse da amorevole compassione distruggeranno i loro sistemi di potere.
Un’ottimistica illusione che rischia di oscurare l’altro possibile scenario: la reazione violenta del Sistema che farà di tutto per mantenere i propri privilegi, anche di fronte al collasso ambientale, usando se necessario il potere militare, demolendo le democrazie e creando delle nicchie di sicurezza mentre il resto del pianeta sprofonderà nel caos. Uno scenario che ha già visto inquietanti episodi premonitori negli Stati Uniti [xii] e altrove.
Onde evitare di prendere la strada per l’inferno, nei prossimi 10 anni andranno mobilitate tutte le risorse possibili, sfidando l’impossibile. Trovando finalmente una visione politica in grado di muovere le forze adeguate, recuperando il controllo degli apparati statali (gli unici in grado di modificare su larga scala, in maniera partecipata, il nostro modello), frammentando la distorta globalizzazione (processo già in atto), decelerando e superando lo stesso concetto di crescita industriale. Avendo quindi il coraggio di rimettere in discussione non solo il solito capitalismo, ma il nucleo stesso del Sistema industriale-tecnologico.
Rimanendo realisti va calcolato anche il possibile fallimento della “riconversione verde”. Un argomento tabù nel mondo ambientalista, ma le cui probabilità stanno salendo drammaticamente.
La crisi sistemiche si stanno moltiplicando e intrecciando a un livello estremamente pericoloso, mentre il cambiamento climatico ha iniziato a produrre le sue spiacevoli conseguenze ben prima del limite dei 2 gradi. Di fronte a tutto questo la sola mitigazione risulta assolutamente insufficiente e va affiancata con le teorie dell’Adattamento Profondo: piani di gestione emergenziale, territoriale, statale, in grado di adattare la nostra specie al mondo che verrà, combattendo le ondate critiche che si presenteranno.
Questo argomento spesso viene rifiutato per questioni psicologiche o perché percepito antagonista alla mitigazione, ma sarebbe estremamente sciocco non dotarsi di “scialuppe di salvataggio”.
La Storia insegna che solo i più resilienti sanno affrontare questi momenti decisivi.
[i] https://www.nytimes.com/interactive/2018/08/01/magazine/climate-change-losing-earth.html⇑
[ii] “Mercanti di dubbi. Come un manipolo di scienziati ha nascosto la verità, dal fumo al riscaldamento globale”, di Naomi Oreskes, Erik Conway⇑
[iii] https://www.unenvironment.org/news-and-stories/press-release/cut-global-emissions-76-percent-every-year-next-decade-meet-15degc⇑
[iv] https://www.nature.com/articles/s41558-020-0797-x?ftag=MSF0951a18⇑
[v] https://www.qualenergia.it/articoli/sussidi-ai-carburanti-fossili-cifre-pazze-se-si-contano-i-costi-ambientali/⇑
[vi] https://eastwest.eu/it/la-corsa-all-artico/⇑
[vii] https://asvis.it/home/46-4013/nuovo-record-per-le-emissioni-di-co2-le-rinnovabili-non-bastano⇑
[viii] https://www.lifegate.it/persone/stile-di-vita/centrali-carbone-cina-coronavirus ⇑
[ix] [x] https://eeb.org/library/decoupling-debunked/⇑
[xi] https://www.ilpost.it/2019/03/15/geoingegneria-solare-riscaldamento-globale/⇑
[xii] https://www.newstatesman.com/world/2019/03/who-gets-survive-climate-change⇑
La Fionda è una rivista di battaglia politico-culturale che non ha alle spalle finanziatori di alcun tipo. I pensieri espressi nelle pagine del cartaceo, sul blog online e sui nostri social sono il frutto di un dibattito interno aperto, libero e autonomo. Aprendo il sito de La Fionda non sarai mai tempestato di pubblicità e pop up invasivi, a tutto beneficio dei nostri lettori. Se apprezzi il nostro lavoro e vuoi aiutarci a crescere e migliorare, sia a livello di contenuti che di iniziative, hai la possibilità di cliccare qui di seguito e offrirci un contributo. Un grazie enorme da tutta la redazione!