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Gli essenziali e invisibili agli occhi: il caporalato sui riders che era dipinto come hobby


31 Mag , 2020|
| Visioni

Il commissariamento di Uber Eats da parte del Tribunale di Milano e l’indagine per caporalato segnano la fine della retorica del passatempo con cui il lavoro del rider è sempre stato presentato dalle piattaforme del food delivery.  Questo avviene proprio al termine del lockdown in cui il sevizio di consegne a domicilio era stato giudicato “attività di carattere essenziale” dal Governo e i rider hanno continuato la loro attività dovendo procurarsi da soli guanti e mascherine, creando assembramenti di fronte ai fast food ed esponendosi alle multe. Gli avvenimenti di questi mesi, denunciati dai sindacati auto-organizzati, hanno rivelato più che in passato le contraddizioni e la precarietà di questo lavoro e, in particolare, la scorrettezza di Uber Eats. L’azienda, ramo delle consegne della californiana Uber , piattaforma per i taxi, è conosciuta fra i rider come quella meno remunerativa: si parla di mediamente 3 euro a consegna, con leggere variazioni a seconda della città. Ad accettare una paga così bassa, da aggiungere ai rischi di incidenti, sono solitamente coloro che abitano in zone dove Uber Eats ha il maggior numero di ordinazioni, o quelli sloggati dalle altre app, ma anche migranti richiedenti asilo.  Ed è proprio con questi ultimi che il comportamento della piattaforma è associabile al fenomeno del caporalato, come disposto dall’articolo 603 bis del codice penale, che punisce “chi recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori o utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”. Ad aggravare la situazione, alcuni rider hanno ricevuto anche delle minacce da parte dei loro datori di lavoro.

L’azienda ha risposto di aver operato nel rispetto delle regole, condannando ogni forma di caporalato e riversando di fatto le colpe all’intermediaria che si occupava di gestire i rider, ossia la Flash Road City. Eppure, l’articolo 603 punisce anche chi si serve di intermediazione, quindi la presa di posizione ex post non è sufficiente a discostare il nome di Uber Eats da un sistema ben collaudato, in cui l’azienda di San Francisco si pone unicamente come prestatrice di tecnologia, liberandosi da ogni responsabilità e giocando al ribasso sulle paghe, forte della sua grande diffusione dovuta alla partnership con McDonald’s.  La libertà di scegliere per quale app pedalare è fittizia se si realizza che con le app che pagano meglio potrebbero non esserci ordini a sufficienza per permettere ad ogni rider di portare a casa la giornata. Inoltre, fin dall’inizio Uber Eats (e la spagnola Glovo) hanno puntato molto sulla manodopera straniera, permettendo il log in a coloro che avevano presentato da 60 giorni la domanda di protezione internazionale, a differenza delle altre che richiedevano il permesso di soggiorno. Il caso di Bologna ne è l’esempio migliore: a lungo solo gli stranieri hanno portato in spalla lo zaino verde e nero per le strade felsinee. Inoltre, è necessario ricordare che questi rider, ostacolati dalla lingua, erano meno propensi a sindacalizzarsi.

La vicenda giudiziaria non deve quindi essere letta come un caso particolare, ma piuttosto come un’esacerbazione di un sistema già precario e impostato sulla deresponsabilizzazione delle piattaforme, sulla volatilizzazione del lavoro e sulla narrazione, ormai scongiurata, del guadagno facile per gli amanti delle due ruote. Non va dimenticato che il sistema di lavoro capitalistico si basa sulla forza lavoro, prestata dal lavoratore, e sul capitale, prestato dall’imprenditore in forma di mezzi di produzione. Eppure, le biciclette e gli scooter, con i relativi costi di manutenzione, sono a carico dei riders, che per questo sono inquadrati come collaboratori e non attraverso il Ccln. Questo sarebbe tecnicamente accettabile se potessero scegliere di lavorare quando preferiscono, ma le piattaforme funzionano con un sistema di ranking che permette solo a chi lavora con continuità di continuare a farlo e di prenotarsi per gli orari col maggior numero di ordinazioni: lavorare occasionalmente, invece, porta il rider a potersi loggare solo per pochi turni alla settimana, quelli meno trafficati, in cui è facile che non si riceva nemmeno un ordine di consegna e quindi nemmeno un euro. Perché, va ricordato, il lavoro dei rider è pagato prevalentemente a cottimo. 

Bisogna poi aggiungere il fatto che le consegne sono tracciate tramite il gps e che, durante il percorso, i lavoratori sono spronati ad andare veloci, sia dalla paura di essere sloggati, sia direttamente dai messaggi da parte delle aziende, nascoste dietro l’interfaccia degli smartphone, correndo rischi che in diversi casi sono risultati fatali. Insomma, la catena di comando esiste, è solo nascosta dai software e dai vari accordi fra le aziende e la flessibilità sbandierata si rivela essere troppo spesso uno svantaggio per i lavoratori. L’intervento del Tribunale di Milano è un segnale importante per porre un freno al caporalato digitale che si perfeziona nel food delivery o in altri settori della gig economy, ma non basta: serve un intervento legislativo. Alcuni tentativi locali hanno voluto dare questo segnale, come per la Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano firmata a Bologna nel maggio 2018, ma senza una regolamentazione complessiva, che il precedente governo non è stato in grado di attuare dopo mesi di trattative, il caporalato digitale continuerà ad esistere sulle spalle degli invisibili.

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