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Istantanee dall’Italia


1 Giu , 2020|
| Visioni

Mi ha incuriosito una notizia passata nei giorni scorsi e poi non ripresa: l’Università di Cambridge ha comunicato che essa continuerà ad erogare didattica on line fino all’estate del 2021. Ma non finisce qui perché Cambridge ha offerto anche la motivazione, anzi le motivazioni, di questa opzione: la tutela della salute pubblica e, nel contempo, la necessità di informare preventivamente gli studenti e le loro famiglie per consentire loro, sapendo, di scegliere consapevolmente. 

L’Università di Cambridge è costantemente ai vertici del ranking mondiale degli Atenei: un’autentica eccellenza. Ma perché ne parliamo se il focus è qui sull’Italia? 

Perché quell’Università, in questo tempo di Covid-19, ha dimostrato, con un semplice annuncio al pubblico, di saper scegliere, e poi decidere, secondo modalità corrette e ispirate da correttezza.

In una situazione di grave incertezza, un decisore dovrebbe avere la consapevolezza che può sbagliarsi, ma quel che non gli è consentito è di seguire, magari non avendone nemmeno coscienza, un protocollo decisorio errato, incongruo, deviato, contraddittorio. 

Così avvertire in anticipo gli studenti circa quel che si farà per la didattica nel prossimo anno accademico è adempiere al dovere di rispetto e di trasparenza a cui ogni istituzione è tenuta verso la propria utenza: un contributo fattivo per il contenimento dell’incertezza causata dalla pandemia.   

Non è poco; ora domandiamoci se i nostri ministri dell’istruzione e dell’università siano stati capaci – o abbiano voluto – fare altrettanto. La risposta è negativa. 

Abbiamo assistito a uno stupefacente balletto: gli studenti torneranno in classe a maggio, anzi no, a settembre; l’esame di maturità si celebrerà on line, anzi no, in presenza (ma, slogan di turno, “in piena sicurezza”); all’università si tornerà in aula a settembre, anzi no, gli studenti potranno anche seguire le lezioni on line da casa (però il professore sarà sempre “in presenza”) ecc. Ma non finisce qui. 

In un primo tempo abbiamo udito il diffuso apprezzamento verso la didattica on line: altro non si sarebbe potuto fare per assicurare la continuità dell’anno scolastico e – riflettiamo – assolutamente nulla si sarebbe fatto solo un decennio or sono. 

Così si è cominciato ad ipotizzare un maggior uso del computer anche a pandemia debellata: prevedibilmente il futuro sarà (anche) questo e allora non sarebbe male, si diceva, attrezzarsi per non arrivare sempre in ritardo. Ma no: marcia indietro e sono spuntati alcuni esperti psicologi e sociologi, seguiti da nuclei di docenti e genitori attivi, ad insegnarci che la scuola è società, rapporti sociali, ambiente sociale. 

Ed ecco l’ultima proposta, bocciata dal Comitato tecnico scientifico e però caldeggiata dal ministero e, in particolare, dal viceministro Ascani: da mesi i ragazzi non si vedono se non virtualmente; e allora che si incontrino almeno l’ultimo giorno di scuola, certo “in sicurezza”. Ma il ministero ha capito cos’è la scienza e qual sia la sua funzione? E poi, e ce ne eravamo accorti ancor prima della pandemia, il ministero ha ancora presente quale sia lo scopo istituzionale della scuola pubblica? È forse quello di creare socialità tra gli studenti? Perché, se così fosse, altre istituzioni sarebbero più adeguate: i centri sportivi, tanto per fare un esempio. 

Qualcuno continua, invece, a credere che lo scopo istituzionale della scuola sia quello di consegnare conoscenze e creare competenze; che gli studenti vengano prima dei docenti; che i docenti, prima di essere in numero sufficiente, debbano essere preparati, cioè sapere quel che dovranno insegnare. Il ministero per ora risponde con un’immissione straordinaria di decine di migliaia di precari, da assumersi tramite prova a quiz. Magari, aggiungo, un’inchiesta sui concorsi universitari ci potrebbe offrire qualche ulteriore, non incoraggiante, conferma. 

In questo tempo di Covid-19 abbiamo scoperto – o così ci ha indotto a credere la narrazione istituzionale – che l’economia nazionale (e regionale), cioè l’Italia, dipende parecchio da bar, ristoranti e alberghi: un’economia fatta di consumi, divertimenti, turismo. 

Tutti – governo, opposizioni, associazioni di categoria, sistema mass-mediatico – hanno insistito, sia pur con varietà di proposte, sull’importanza strategica di queste attività. 

Poi tutti, o quasi, si sono scagliati contro le movide sulle piazze e gli assembramenti sui navigli e sui lungomare. Per la verità sono anni che siamo martellati dal mantra dei consumi a cui dovremmo votarci sempre più se vogliamo che aumenti anche il nostro PIL. 

Ma uno si potrebbe domandare se, oltre a consumare, dovremmo anche produrre. Ci siamo, invece, trovati esposti, in questo tempo di Covid-19, perché ci siamo accorti che non produciamo quasi nulla nel settore delle attrezzature e dei dispositivi medici. Ma è solo un esempio, reso manifesto dall’eccezionalità pandemica. 

E allora quell’uno potrebbe ulteriormente domandarsi se, prima o più che i consumi al bar, al nostro PIL gioverebbe una maggiore presenza (e competitività) nella produzione siderurgica, manifatturiera, tecnologica. 

E domandiamoci anche se sia irrilevante la nostra assenza dai grandi circuiti internazionali dell’e-commerce; se potremmo reggere l’urto di un mondo in radicale trasformazione con i negozi di vicinato o affidandoci alla produzione di prosecco, prosciutto e parmigiano. 

Sono discorsi fastidiosi, dolorosi, non c’è dubbio; ma che dovremmo incominciare ad introdurre perché siamo già in grave ritardo. 

Al di là della retorica di maniera (“Siamo un grande Paese”), il vero è che ci troviamo ad elemosinare alle porte dell’Europa, coltivando la speranza (o l’illusione?) che si aprano. Anche qui è evidente l’insostenibile leggerezza dell’essere Italia: coronabond, recovery fund o Mes senza condizionalità? Denari a fondo perduto o prestito di denari a basso interesse? In Europa l’Italia è più che mai una canna sbattuta dai venti del Nord; alla fine la sua inconsistenza la costringerà ad accettare tutto o quasi. E però, qualunque cosa si ottenga, ciò basterà ai nostri dirigenti per cantar vittoria. 

Ma c’è qualcuno, tra gli esperti delle tante task forces, che compili seriamente, cioè onestamente, una lista ragionata dei vantaggi e degli svantaggi che ci sono derivati dall’adesione all’euro? Perché alla fine la domanda è semplice: l’Italia ha prosperato sotto l’impero dell’euro? O hanno prosperato altri? E poi: abbiamo o non abbiamo la forza, anche psicologica, di fare da soli, almeno qualche volta? Di non abbandonarci agli umori, soprattutto al calcolo utilitaristico, di chi vorremmo che ci aiutasse? Troppe domande, però queste sono le incertezze manifestatesi in pandemia. Naturalmente ve ne sono altre. 

Forse quella che ha sconcertato di più – e percepita da tutti o quasi – è la grave contraddittorietà all’interno della catena di comando della Repubblica italiana: Stato e/o Regioni; Regioni e/o Comuni; Presidente del Consiglio dei Ministri e/o Presidenti di Regioni; dpcm e/o ordinanze regionali; ordinanze regionali e/o ordinanze comunali. 

Un vero caos normativo, ma anche un caos politico, con il Governo da una parte e le Regioni (in primis, quelle leghiste) dall’altra: desiderio di supremazia versus desiderio di autonomia e, talora, anche un inconfessato desiderio di indipendenza (indubbio in uno come Luca Zaia che sembra percepire i Veneti come un popolo e una nazione a sé). 

Un’incertezza, questa, che si è imposta come verità di fatto, ma che è codificata – codificata come incertezza – nelle parole della Costituzione. Forse che nessuno se n’era accorto prima? Anche qui avremmo bisogno di analisi veridiche, che ci consentissero di renderci davvero conto. Per esempio, sarebbe utile verificare se, successivamente all’entrata in funzione delle Regioni (anno 1970), siano migliorati costi ed efficienza dell’amministrazione pubblica.

Dunque, altre domande, che potrebbero moltiplicarsi: si daranno mai ad esse risposte affidabili? Intanto, in appendice all’osservazione delle nostre ‘istantanee’ dall’Italia in questo tempo di Covid-19, alcune considerazioni si impongono prima di altre: proprio perché visibili in quelle ‘istantanee’.

1. Le strutture normative, amministrative, economico-produttive dell’Italia sono farraginose, talora irrazionali, certamente fragili o fragilissime e vanno implementate, modificate e/o senz’altro dismesse.

2. Occorre tener presente – o costruire comunque – un ordine preciso delle priorità e dei conseguenti interventi: qui la Carta costituzionale è sufficientemente chiara e non si sarebbe dovuto consentire a nessuno di argomentare per negare, o almeno contenere, la priorità indiscussa del diritto alla salute. Per questo un’iniziativa, per giunta ministeriale, quale quella per la celebrazione in presenza dell’ultimo giorno di scuola, oltreché ridicola, resta semplicemente incomprensibile; o, forse, vi è che l’Italia è atavicamente un paese in cui troppi sono i riti inutili e insiste un’antropologia che si potrebbe definire appunto ritualistica.

3. Se l’ordine di priorità, in questo tempo di Covid-19, è saltato, ciò è stato anche per una certa ansia da profitto – e di profitto – che non fa onore a chi l’ha manifestata, singoli o associazioni di categoria che, però, sono riusciti, più di qualche volta, a condizionare i nostri dirigenti politici in debito quanto a indipendenza.

4. Questi stessi dirigenti – ma anche una parte non esigua di italiani – hanno evidenziato una volta di più un preoccupante immobilismo: incapaci o riluttanti non dico a intraprendere, ma anche solo a immaginare percorsi e strategie alternative. Hanno vinto la domanda di assistenza e l’elargizione di bonus e provvidenze varie, talora inconsulte (come per monopattini e biciclette). Troppo spesso, poi, quella domanda è stata proposta da chi non avrebbe avuto affatto titolo perché economicamente provveduto, anche per i ricavi degli esercizi precedenti; d’altra parte, troppo spesso la risposta delle istituzioni è stata fittiziamente positiva – tanto i soldi li avrebbero dovuti erogare le banche – se non proprio menzognera. 

È difficile prevedere dove stiamo andando, ma è anche difficile essere ottimisti. In sintesi abbiamo visto in campo, in questo tempo di Covid-19, una ridda di interessi particolari, spesso in conflitto tra loro: invece sarebbe dovuta essere l’ora dell’interesse comune; ma non l’abbiamo quasi mai visto.  

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