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La musica oggi: grand tour o villaggio turistico?


3 Giu , 2020|
| Voci

Negli ultimi mesi le bacheche dei social network  spesso riportano una serie di frasi edificanti, e tra queste la fa da padrone quella (erroneamente) attribuita al filosofo spagnolo Miguel De Unamuno, seconda la quale il razzismo si curerebbe viaggiando, il fascismo si curerebbe leggendo. Difficile in linea di principio contestare questa affermazione; il punto è che andando a spulciare tra  le bacheche dei latori di questi alati pensieri scopriamo non solo che queste persone non hanno la minima idea di cosa sia la lettura intesa come esperienza di immersione profonda in una forma di condivisione creativa e culturale, ma soprattutto che non hanno neanche la minima idea di cosa sia viaggiare. Certo, salgono su un aereo, vanno a visitare la grande capitale europea, il luogo di destinazione turistica, si spostano, insomma… ma cosa cercano? E soprattutto cosa trovano?

In realtà ciò che essi cercano è un eterno ritorno dell’uguale, cioè situazioni sempre totalmente reiterabili, che non sfuggano al controllo e che siano dunque rassicuranti e consolatorie. A prevalere è il falso incontro celebrato in una serie di non luoghi planetari, per usare la terminologia dell’antropologo francese Marc Augè.

Questa confusione vale perfettamente, oggi, anche riguardo al nostro rapporto con la musica, e dunque valida è anche la situazione metaforica appena proposta.

Ad un certo punto della nostra storia recente, infatti, la musica, che andava già progressivamente uniformandosi,  ha iniziato ad innamorarsi dell’idea di superficie del melting-pot ed è così nata la cosiddetta world music, etichetta un po’ equivoca, magari creata con buone, ottime intenzioni, ma destinata inevitabilmente a produrre il suo contrario. Da quel germe si è via via andati degradando in maniera sempre più mortifera e alla scoperta dell’ignoto è subentrata da un lato la banalizzazione della musica “altra” approcciata, una addomesticazione violenta, barbarica, di ciò che meriterebbe essere penetrato coi giusti tempi di decantazione, dall’altro la resa totale da parte del pubblico ricevente, oramai massa acefala di una immensa Periferia dell’Impero. Occidentalizzare in maniera prevaricatoria e assolutamente non creativa il grande bagaglio della musica dei popoli non fa che neutralizzare il grande ed innato potenziale antiglobalizzazione di quelle composizioni, le quali proprio nella loro differenza ci recano la capacità di comunicare l’idea che la musica è si un linguaggio universale ma il cui significato universale non lo è affatto poiché esso muta continuamente a seconda di dove ci troviamo, delle persone con le quali abbiamo a che fare.

C’è universale, ed universale, insomma.

Mettiamoci alla ricerca di quelle musiche, ce ne sono tantissime nel globo terracqueo, che in qualche maniera comunicano questa idea di differenza e non una pratica di omologazione che è ancora più pelosa, è ancora più pericolosa quando applicata appunto a musiche che dovrebbero restituire il senso delle comunità che le hanno generate.

Facciamo degli esempi: cosa provoca l’osceno fenomeno del falso latino-americano  che domina le classifiche di vendita estive? Niente altro che l’illusione di farci conoscere dei modi di espressione musicali non nostri che ci vengono invece proposti in maniera svuotata e omologata, e da questa plastica noi abbiamo anche l’impotenza di farci colonizzare, senza colpo ferire. Un doppio insulto, insomma. Anche all’interno del nostro paese, pensiamo ad esempio al grande revival della Taranta, in cui si assiste allo stesso svuotamento. Nulla resta della ricerca etno-antropologica di Ernesto De Martino e ciò che permane dell’ eco del tarantismo è un’orrida interpretazione caotica, decontestualizzata, fatta apposta per far sfogare turbe di giovani ubriachi in vacanza in Salento. Rito, magia, espressione coreutica, musica, spazzate via, pure con l’aria presuntuosa di avere riportato in vita una tradizione popolare importante…

Bisogna stare sempre molto attenti di fronte a questi meccanismi di falsificazione e anzi si dovrebbe andare a ricercare tutte quelle oasi incorrotte di espressione musicale che esistono al di fuori di noi, magari anche in giro per l’Europa e che nella loro differenza facciano germogliare in noi l’idea che la globalizzazione e l’omologazione non sono processi naturali. L’idea di salvaguardia della differenza delle culture ci aiuta poi a far chiaro che nessuno in una ottica di complementarietà può porsi come superiore, che non esiste l’idea di una superiorità di cultura sopra l’altra, perché tutte le culture sono per così dire “superiori” nel momento in cui esprimono pienamente, naturalmente, senza intermediazioni, il proprio genio.

La musica, ancora oggi, può aiutarci in tutto questo.

In altre parole, nell’epoca del villaggio turistico e del progetto Erasmus, essa rappresenta ancora un possibile Grand Tour.

Di:

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