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Il metodo di governo dell’emergenza di Vincenzo De Luca
In questi mesi abbiamo potuto constatare come la politica abbia ancora un’enorme capacità di influire sulle nostre vite. Ogni decisione del governo Conte e dei governi regionali ha modificato, in modo drastico e violento, le nostre abitudini quotidiane. Insomma, durante l’epidemia stiamo riscoprendo che il mondo dell’economia globale e della finanza è un complesso intreccio tra vari livelli di governance delle aziende (multinazionali e non) e degli Stati. Questi ultimi, seppur non ricoprano una posizione monopolistica di potere sui loro territori, non sono affatto dei corpi inermi, bensì esercitano la sovranità soprattutto tramite i loro organi esecutivi, sempre meno sottoposti al filtro parlamentare.
I governi nazionali, quindi, hanno assunto una posizione centrale nella gestione dell’emergenza, diventando de facto dei decisori autonomi, solo flebilmente controllati dai parlamenti. In Italia (come in tante altre realtà) l’esecutivo ha dovuto anche farsi carico del ruolo di coordinamento tra i vari governi regionali, tenendo presente che, a seguito del decentramento operato dalla riforma costituzionale del Titolo V del 2001, l’articolo 117 della Costituzione attribuisce alla competenza legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni la “tutela della salute” e la “ricerca scientifica” (comma terzo), affidando la competenza regolamentare in tali materie in modo esclusivo alle Regioni (comma sesto). Così, da un lato c’è il governo centrale, il quale cerca di perseguire e compattare l’interesse nazionale tentando di mantenere un certo livello di omogeneità su tutto il territorio; dall’altro, i venti governi regionali che, in base alle loro situazioni particolari, provano a smarcarsi più o meno nettamente dalla direzione unitaria dell’emergenza. Questi ultimi hanno costruito dei loro modelli di gestione della crisi, che tenessero conto essenzialmente dei due seguenti fattori: capacità del sistema sanitario regionale di soddisfare la domanda di ospedalizzazione dei casi gravi (che non si può ridurre semplicemente al rapporto tra numero di posti in terapia intensiva e popolazione); capacità della struttura sociale ed economica del territorio di reggere al lockdown.
In fondo, ogni governo locale ha adottato una politica di contrasto al virus che avesse come obiettivo una corretta ponderazione di questi due fattori.
Chiaramente, più preciso è il loro bilanciamento, più efficace risulta la politica adottata: per fare ciò, è necessario acquisire dati attendibili e avere una visione complessiva della situazione, che è composta da molteplici aspetti. Per questi motivi, secondo i principi di governo delle democrazie moderne, soprattutto a partire dal Secondo Dopoguerra, la decisione politica dev’essere il frutto di un’ampia discussione pubblica che preveda la partecipazione attiva di tutta la società civile.
In effetti, in situazioni emergenziali, come una guerra o un’epidemia, gli esecutivi hanno la necessità di avocare a loro una parte maggiore di potere e, conseguentemente, di restringere l’ampiezza della discussione pubblica ai settori della società più idonei ad affrontare le questioni particolari sollevate dall’emergenza.
Nel caso dell’epidemia, una decisione adottata con il metodo democratico prevederebbe un confronto con quelle parti della società che si occupano di scienza e con gli attori economici più importanti, ovvero imprenditori e lavoratori.
In questo modo, si può considerare rispettato il metodo democratico, che è ritenuto, ad oggi, il più efficace metodo decisionale che la società abbia a disposizione. Purtroppo, non tutti i governi regionali, durante questa epidemia, hanno avuto questa stessa convinzione.
Il governatore che forse più di tutti ha considerato il metodo democratico un ostacolo per fronteggiare il virus è stato Vincenzo De Luca, il quale fin dal principio del lockdown ha interpretato il ruolo di presidente della Regione Campania in modo decisamente autoritario.
De Luca, infatti, ha dato l’impressione di prediligere il mantenimento di una certa distanza tra sé e la cittadinanza, adottando un modello di governo dell’emergenza del tutto peculiare per le democrazie occidentali. È sembrato che la sua convinzione profonda sul miglior modo per fronteggiare il virus fosse privare della libertà i suoi cittadini, ritenuti incapaci di gestirsi. Così, la minaccia della diffusione del virus si è velocemente trasformata nella minaccia di De Luca ai suoi stessi cittadini.
I governi regionali che cercavano il dialogo e una certa collaborazione delle parti sociali sono stati additati come deboli, manchevoli del piglio decisionistico necessario nei momenti di emergenza. Nelle idee di De Luca, al contrario, il governo forte è quello che non lascia alcuno spazio d’autonomia ai propri cittadini e che affronta il problema in modo solitario, essendo capace di fronteggiare da solo le grandi questioni.
Questo atteggiamento del governatore campano è stato confermato dalla retorica costruita ad hoc in ogni sua uscita pubblica, nelle quali non ha perso occasione per additare i cittadini “disobbedienti” quali causa principale della possibile esplosione di contagi.
Ogni voce dissonante dalla litania del leader è stata considerata pericolosa, siccome avrebbe potuto indebolirlo nella sua lotta personale col nemico invisibile: il bene collettivo (in questo caso, la salute pubblica) doveva essere affidato alle mani di un solo uomo e per questo il coinvolgimento, a qualsiasi titolo, di settori della società nel processo decisionale è stato considerato un ingiustificato e superfluo appesantimento dello stesso. I cittadini devono obbedire, senza possibilità di esprimersi.
Questa linea autoritaria è stata accompagnata dal tentativo, da parte dello stesso governatore, di convocare le elezioni regionali quanto prima, nonostante l’epidemia, facendo svolgere una sommaria campagna elettorale col lockdown ancora parzialmente in corso o comunque appena terminato, con il chiaro scopo di ridurre il momento elettorale ad un mero plebiscito sull’operato del princeps durante la sospensione democratica.
Altri aspetti peculiari del modus operandi del governatore campano sono stati la polemica permanente ingaggiata col governo centrale e l’atteggiamento di sfida verso i presidenti delle altre regioni.
Riguardo al primo punto, l’impressione è che abbia voluto restituire ai suoi cittadini l’immagine di un governo Conte poco interessato alle sorti dei campani e in generale del Meridione, attento solo ai problemi delle regioni del Nord Italia; in proposito, ha avuto una notevole eco la lettera pubblicata dallo stesso De Luca e indirizzata al governo, in cui l’ex sindaco di Salerno denunciava il mancato invio da parte dell’esecutivo dei dispositivi medici promessi per fronteggiare l’epidemia.
Sul secondo aspetto, ha voluto ingaggiare una sorta di competizione con i suoi colleghi delle altre Regioni invece di puntare sulla massima collaborazione possibile, come sarebbe più utile in situazioni di pericolo come questa; tra l’altro, ha puntato il dito maggiormente (se non in modo esclusivo) verso i governatori delle Regioni del Nord, presumibilmente per due motivi: cavalcare l’onda dei sentimenti più bassi di ostilità, di contrapposizione psedo-identitaria Sud-Nord (alimentando una retorica da bar sport) e dimostrare l’efficacia delle sue scelte politiche, comparando i dati sulla diffusione dell’epidemia in Campania a quelli delle regioni più colpite, come la Lombardia: una sorta di auto-assegnazione di un trofeo di cartone.
Non sembra casuale che in questa retorica del conflitto abbia trovato sponda fertile solo da parte di un altro presidente regionale, ovvero Attilio Fontana.
Ultimo aspetto rilevante della costruzione della figura di leader autoritario è il distanziamento rispetto al partito di cui egli stesso fa parte, il PD; De Luca non parla mai da esponente e militante di partito, ma sempre come uomo politico apparentemente isolato.
L’immagine emersa, quindi, è stata sempre più quella dell’uomo solo al comando.
Si deve constatare che l’elettorato di centro-sinistra, da quello più moderato a parte di quello più progressista, sembra aver apprezzato il piglio autoritario del governatore. Anche in questa porzione della cittadinanza si è diffusa la convinzione che il bene comune (identificabile più con la mera sopravvivenza, che con la “salute pubblica”, di cui all’art. 32 della Costituzione) possa essere salvaguardato solo cedendo la propria autonomia, e non per un periodo circoscritto, bensì per tutto il tempo necessario a sconfiggere il virus (anche se ciò comportasse un anno o più di sospensione della democrazia).
Così, durante questa emergenza, è apparsa in modo drammaticamente chiaro l’estrema debolezza politica della parte più sana del tessuto sociale meridionale, proprio quella parte della società che le regole democratiche sono chiamate a tutelare.
In particolare in Campania, di fronte a decisioni sempre più autoritarie e autoreferenziali, si è dovuto constatare la scarsissima capacità dei corpi intermedi (dai piccoli imprenditori, ai liberi professionisti, ai lavoratori dipendenti, fino al mondo intellettuale e studentesco) di rivendicare l’importanza del loro ruolo sociale, difendendo le loro attività quotidiane, che sono l’origine e il fine delle società occidentali moderne.
Solo attraverso la tutela di questi ceti si può garantire l’autonomia dei cittadini, necessaria per il sano sviluppo economico, culturale, scientifico e politico di una comunità.
La libertà individuale, quindi, è al tempo stesso la conditio sine qua non della società moderna, ma anche il risultato a cui essa tende attraverso la ricerca e il miglioramento di pratiche di buon governo.
Il momento elettorale è certamente una verifica importante di queste ma senza un tessuto sociale forte diventa uno sterile strumento di approvazione o disapprovazione di scelte sempre meno verificabili, adottate in nome di un bene collettivo non più definibile che assurge a emblema della vuotezza a cui può ridursi il meccanismo democratico.
Durante un’emergenza sanitaria, il rapporto tra il potere politico e il sapere scientifico diventa il principale termometro democratico.
Nel Centro-Sud (ma forse si può dire in tutta Italia), l’indebolimento del sistema economico ha comportato, già da tanti anni, un grosso impoverimento culturale.
La società ha, man mano, perso la forza di controllare e verificare le decisioni di un governo sempre più lontano da essa, guidato da un misto di interessi personali e interessi esterni alla società stessa.
Con l’arrivo dell’epidemia il settore scientifico avrebbe dovuto guidare l’esecutivo nella gestione dell’emergenza, ma è emerso che una società debole produce un sapere scientifico molle, incapace di essere autonomo e quindi di imporre una propria validità epistemologica.
Anzi, questa presunta scienza sembra diventare un ulteriore e potente strumento di controllo nelle mani di un potere politico autoreferenziale, assumendo talvolta addirittura un tipo di validità che ha le caratteristiche della fede religiosa.
La gestione De Luca sembra essere il perfetto esempio di quello che si è cercato brevemente di spiegare: un governo fin troppo centrato sul mantenimento del potere, che sfrutta l’emergenza per il suo consolidamento tramite l’uso strumentale di una scienza debole e servile, in un quadro generale di assenza di controllo da parte della società civile.
La sinistra ha la necessità di recuperare urgentemente una maggiore partecipazione attiva dei cittadini, soprattutto attraverso una rifondazione dei corpi sociali, a partire dai sindacati e dalle associazioni di categoria, fino ai partiti politici.
Solamente tramite una nuova presa di consapevolezza collettiva della centralità della forza politica, potrà ripartire un sano meccanismo democratico.
In fondo, chi è portatore di valori di sinistra davvero crede che una democrazia così mal ridotta possa garantirci un futuro auspicabile? D’altra parte, vogliamo già arrenderci al fatto di perdere definitivamente la possibilità di stare al passo degli altri paesi europei? La speranza è che questo difficile periodo ci possa dare la spinta necessaria per farci prendere consapevolezza del problema e trovare la forza politica per affrontarlo.
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