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Pensiero, Storia e Cronologia


9 Giu , 2020|
| Visioni

Le parti più interessanti di una corrente di pensiero, che sia questa ben definita o solo un approccio culturale, non sono, spesso, i suoi testi di riferimento o le sue formulazioni teoriche più chiare, bensì quelle idee, più o meno dichiarate, che restando celate guidano le menti. Si tratta di presupposti, pensieri inconsci, nozioni acquisite in maniera acritica, che spesso bisogna tirar fuori “dall’esterno”, in quanto sono così profondamente radicate nelle teste dei propri “portatori” da risultare invisibili proprio per questi ultimi. È così che uno dei pilastri, se non il pilastro, dell’ideologia neo-liberal, è l’idea per cui vi sia, nel dibattito politico, una legalità storica da rispettare. Con ciò intendiamo dire che un gran numero di alternative o di critiche propositive che minacciano, col proprio solo esserci, la legittimità ideologica dello stato di cose presente, sono neutralizzate in quanto “anacronistiche” o, più prosaicamente, “vecchie” (non tutti i liberal attingono da concettualità relativamente raffinate come quella che l’uso del termine “anacronistico” presuppone). Esistono idee che non possono dirci nulla sul presente per il semplice fatto che apparterrebbero al passato. Di contro, “l’ultimo arrivato”, o ciò che sembra predire meglio il corso degli eventi, diventa automaticamente “migliore”. Proveremo in questa sede a spiegare questo atteggiamento culturale spesso inconscio e, nel mentre, a mostrarne le lacune e le fragilità

Ciò che apprendiamo dallo studio della Storia è il mero succedersi di fatti, che determina, tra le altre cose, il nascere ed il morire delle idee, delle ideologie e delle loro applicazioni. Contro la fredda neutralità dei fatti storici si infrangono, come onde sugli scogli, le speranze degli uomini, e la neutralità della Storia, che se pur segue delle leggi si ingegna a nasconderle, somiglia a quella della Natura, con la differenza che il pastore errante di Leopardi non è spettatore ma parte dello spettacolo.

Sebbene vi sia, ovviamente, una stretta relazione tra Storia e Pensiero, questi due ambiti seguono percorsi e legalità differenti. Il Pensiero, inteso come genesi delle idee, per sua natura, tende all’atemporalità, alla sovrastoricità. Possiamo dialogare con le idee di Aristotele o di Cicerone perché la radice del Pensiero, per come abbiamo deciso di intenderlo, non è mera descrizione ma normazione. Il Pensiero dice e motiva come le cose dovrebbero essere sempre: nella formulazione del concetto è già presente l’astrazione di quest’ultimo dalla propria genesi storica. Possiamo trovare testi del passato “attuali” proprio perché il Pensiero, che pure ha la sua innegabile connotazione storica, in realtà si trova ad averla: esso si riferisce al momento storico che ha visto la sua nascita ma solo in maniera contingente, mentre in realtà parla a qualsiasi epoca. La nostra non vuole essere solo una mera constatazione di una postura ricorrente nella storia del pensiero ma l’analisi di una sua intrinseca necessità: già Parmenide ci insegna la “via della Verità”, indicando l’immutabilità (nel nostro discorso la sovrastoricità) come condizione imprescindibile di ciò che è, e dunque del Vero. Se trasformiamo l’opera parmenidea da un trattato sulla natura ad un trattato sul pensiero, troviamo la prima formalizzazione e la legittimazione filosofica della struttura stessa di quest’ultimo, per cui, date alcune premesse causali o finali (che possono anche essere poste come assolutamente necessarie), si giunge sempre e comunque a determinate conclusioni. Il Pensiero è per sua natura deterministico? No, è per sua natura a-temporale, perché non risponde alle leggi della Storia (e, in senso lato, dell’effettualità), ma solo della razionalità. L’impossibilità di dedurre la Verità dal mutevole mondo fisico, profonda intuizione parmenidea, dovrebbe insegnarci che Mondo (e con esso Storia) e Pensiero sono due dimensioni differenti, che si rifanno a leggi differenzi. Questa differenza, certo, ha del tragico: ogni sintesi razionale del funzionamento del reale non può assicurarsi uno status epistemico che non stia momentaneo, di pura corroborazione. Non si tratta di fare del puro scetticismo ma solo di constatare come ogni ideologia, così come, dall’altro lato, ogni assetto storico-sociale, che pretenda di innalzarsi a “ultimo” ed “eterno” lo fa solo affidandosi a basi metafisiche, nella forma di una pretesa quanto indimostrabile conformità del futuro al presente. Ciononostante, nella Storia si avvicendano i più diversi tentativi di applicare le idee, senza che però “applicazione” significhi “esaurimento dell’idea”, se non altro per il banale motivo che l’idea viene concepita in termini di assolutezza e l’applicazione deve relazionarsi con la relatività di una data condizione storica. Nel costante tentativo di tramutare le idee in realtà, il dialogo, nella Storia, diventa conflitto. Sono esistiti pensatori (Pico della Mirandola tra tutti) che hanno sperato di introdurre nella Storia le leggi della ragione, di trasformare le decisioni dei corpi politici in semplici concretizzazioni di un percorso di confronto dialettico. Nella Repubblica di Platone i sapienti governano seguendo l’intelletto, non regole politiche o, peggio ancora, “pratiche” politiche machiavelliane. Questi modelli, tuttavia, sono rimasti tali, e gli attori della Storia si sono dimostrati insensibili ad ogni tentativo di sottostare a qualsiasi principio di condotta e il potere politico ha continuato a nascere dalla canna del fucile. Da questo dilemma insolubile abbiamo dedotto un importante concetto, la cui mancata considerazione è pressoché indispensabile per la lettura neoliberal: il conflitto segue regole ben diverse dal dialogo. Nella Storia vince il più forte, il che però non ci dice nulla sulla giustezza di un’idea né tantomeno sulla legittimità di un sistema sociale. C’è, paradossalmente, un fondamento irrazionale nel credere che vi sia un percorso, una razionalità insita alla Storia, una razionalità che tra l’altro sarebbe isomorfa rispetto alla razionalità tout court, posto che ve ne sia una. “Chi si oppone al corso della Storia è destinato a perdere” è una frase che potremmo tranquillamente sentir pronunciare negli ambienti liberal e che tuttavia non ci dice nulla. Innanzitutto perché l’idea che vi sia un preciso, quasi scientifico, “corso” della Storia, è un pregiudizio di vecchia data. Si può certo immaginare il mondo futuro che si vuole, si può preferire un discorso ad un altro per motivi di pura volontà, impostando scale di priorità che dispongono una gerarchia anche tra due discorsi ugualmente coerenti. È però quantomeno opinabile credere che il nuovo mondo sia iscritto e visibile nel nostro, ed ancora più pericoloso è assorbire in maniera acritica e inconscia questa convinzione. I “progressisti” nostrani, banalmente, la presuppongono, il che, tra l’altro, li fa assomigliare più a dogmatici profeti che a soggetti realmente trasformativi, dato che la capacità trasformativa presuppone una certa duttilità dell’oggetto (la società nel suo divenire storico). Solo scansatici da un simile pregiudizio otteniamo la lucidità necessaria a considerare il presente (e la sua direzione tendenziale) come non auto-legittimantesi, e dunque a considerare il nostro mondo come uno dei mondi possibili. Soprattutto, ci liberiamo dalle “lenti del fatto” e possiamo, da esseri razionali prima che da esseri storici, rapportarci alle idee secondo i criteri del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, del legittimo e dell’illegittimo, e non del realizzato e del non-realizzato. Espellendo il trionfo storico dalle categorie del pensiero, possiamo tornare a condurre la Storia davanti al tribunale della Ragione e non solo la Ragione davanti al tribunale della Storia.                                                                                                                                    

Il nucleo dell’ideologia neoliberal, in ultima analisi, si rivela identico al nucleo del nichilismo (passivo), per cui è la Verità ad essere estratta dalla Storia e non la Storia ad essere modellata approssimandosi alla Verità; conclusione che, per essere coerente, deve presuppore che Storia e Verità, Storia e Pensiero, parlino la stessa lingua.

La Storia è ridotta a mera cronologia, meccanico dipanarsi di un discorso che, nel proprio stesso sviluppo, determina il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto. Ad essere annichilita è anche e innanzitutto la Volontà, colpita indirettamente ma fatalmente, ridotta a movente maleducato e illusorio per mutamenti che non possono accadere. La svalutazione senza appello della Volontà, tra l’altro, si traduce in un impietoso disprezzo per quelle masse che, ignorando le magnifiche sorti e progressive, offendendo il meraviglioso disegno che la Storia (e coloro che l’hanno capita) conserva per noi, osino chiedere un cambiamento di qualsiasi tipo. Le masse, nell’interpretazione neoliberal, non sanno e non capiscono che la Volontà, nella Storia, non conta nulla. Più verosimilmente è più grave non sapere e non capire che la Volontà, nella Storia, è l’unica cosa che conta: è solo questione di liberarla.                                                                                                             

Abolita la Volontà, non solo la Storia ma lo stesso Pensiero diventa una questione cronologica, perché la sua legittimità è dedotta dallo sviluppo storico, dallo scorrere del tempo. L’annichilimento dell’idea come irriducibile al tempo e inesauribile nelle sue proprie formulazioni e nei tentativi degli uomini di applicarla è frutto di una riduzione della realtà ad un’unica dimensione che, in quanto unica, non permette alcuna critica. Anche battaglie sacrosante come quelle per i diritti civili, cari all’ideologia neoliberal, vengono combattute non con le armi della critica razionale ma delegittimando l’avversario in quanto la sua posizione sarebbe “avversa alla Storia”, argomentazione che è tanto insensata quanto inefficace. In aggiunta, va detto che questa pseudo-filosofia della Storia non solo non ci dice nulla sul pensiero ma nemmeno sulla Storia stessa, della quale “vecchio” e “nuovo” non sono categorie. Basti pensare a quante volte un’idea malsana e infondata come lo schiavismo è stata applicata e difesa, per confermare il tragico dato che la Storia segue solo e soltanto le proprie dinamiche. È impensabile determinare un’idea come “anacronistica”, in quanto le idee, seppure in forme diverse, continuano a ripresentarsi, non invitate, alla guida dell’umanità. La visione neoliberal si rivela in realtà un guscio vuoto, che mantiene saldi alcuni contenuti solo perché legittimati dal presente, per cui questi stessi contenuti sono in realtà transitori, intercambiabili. Si palesa qui l’aspetto più inquietante e pericoloso dell’ideologia che abbiamo provato ad analizzare: essa trova la propria radice in una forma di conformismo amorfo, privo di una reale prospettiva storica, che sarebbe pericolosamente incapace di reagire se, un domani, la Storia sembrasse includere ineluttabilmente come suo proprio corso l’affermazione di idee nefande, come il succitato schiavismo. D’altronde, come abbiamo detto prima, non esiste un corso della Storia che ci salvi da simili prospettive.

La nostra attualità necessita di una concezione della Storia, dello stare nella Storia, più complessa e matura, che legittimi il Pensiero ad impegnarsi per tematizzare le contraddizioni del mondo entro una prospettiva che, lungi dal giustificarle, ne auspichi la deflagrazione e ne immagini il superamento

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