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Egemonia e strategia socialista: invito al dibattito


10 Giu , 2020|
| Egemonia e strategia socialista

Esiste sempre una distanza strutturale tra la teoria e la pratica, tra la teoria e il reale (Nicos Poulantzas, L’Etat, le Pouvoir le socialisme)

A partire dalla pubblicazione di un denso articolo di Rolando Vitali apparso il 21 maggio, sul rapporto tra Stato, egemonia e organizzazione, la Fionda ha iniziato ad ospitare un interessante dibattito sull’analisi strategica del presente, nonché sulle possibili alleanze tra forze sociali e politiche, utili all’affermazione delle istanze più care al campo socialista e, oggi, rivendicate soprattutto dall’area del cosiddetto sovranismo costituzionale e democratico.

Nel momento stesso in cui si registra in modo più evidente la crisi del neoliberalismo e della globalizzazione come destino, le trasformazioni neoliberali seguite alla crisi del “compromesso keynesiano” sembrano avere a tal punto scompaginato il piano sociale da rendere estremamente problematica la ricomposizione di un blocco storico in grado di sostenere una politica capace di rimettere al centro lo Stato e i diritti sociali. Tra queste ambivalenze e contraddizioni emergono in primo piano nodi teorici di assoluta rilevanza, con i quali è oggi indispensabile misurarsi. In primis, il problema di come organizzare e mobilitare “maggioranze sociali” in grado di imporre interessi funzionali alla costruzione di un argine al processo di costante e progressivo svuotamento delle istituzioni democratiche – fenomeno rispetto al quale non è più possibile negare le principali e sostanziali responsabilità alla costruzione dell’Unione Europea. Da un lato, infatti, la neoliberalizzazione dell’intera società si palesa con assoluta evidenza nella riuscita frammentazione di quello che un tempo era “l’esercito proletario”, dall’altro, ovviamente, da ciò non discende che la mobilitazione di altri soggetti sociali possa di per sé collocarli al di fuori del “piano individualizzante della soggettivazione imprenditoriale” o, addirittura, renderli in qualche modo “soggetti rivoluzionari” sostitutivi. È, piuttosto, lecito e necessario interrogarsi su quale ruolo possa effettivamente giocare oggi “un lavoro sistematico di costruzione egemonica”, se un tale lavoro sia capace di condurre all’affermazione di “maggioranze sociali”, in che modo queste possano farsi consapevoli dell’autonomia dei loro stessi interessi e, infine, se questa stessa autonomia sia percorribile in modo “autonomo” o non sia, invece, effetto di una costruzione politica di negoziazione e ricomposizione fra differenti interessi e identità. È poi ancora possibile costruire alleanze sociali e prospettive di cooperazione politica incalzando partiti, sindacati e movimenti sociali? O non è forse il caso – essendo questi stessi soggetti fra i principali responsabili dell’introiezione della sconfitta da parte delle classi lavoratrici – di considerare nella loro interezza e non come mero obnubilamento ideologico le difficoltà poste da un quadro in cui l’effettivo mescolamento tra proletari e piccola borghesia sembra configurarsi quale dato sociale, certamente superabile, ma non semplicemente reversibile?

A tal proposito, le torsioni impresse alle esperienze di Podemos in Spagna e del Movimento 5 stelle in Italia, portano non pochi analisti a considerare chiuso il “momento populista”. Proprio la strada del populismo democratico, teoricamente segnata dall’importante studio di Ernesto Laclau, sembra mostrare tutta la sua fragilità, dal momento che le “catene equivalenziali” sarebbero rimaste senza spazio di costruzione ed espressione, per via del ricompattamento della vecchia dicotomia destra-sinistra. Ma non è forse questa situazione il prodotto di tante mancate assunzioni del rischio irrimediabilmente connesso alla costruzione di nuove frontiere dicotomiche per consentire alle domande realmente democratiche di avanzare, di contro all’incapacità delle istituzioni liberali di trovarvi soluzione? Non è in momenti come questo che potrebbe evincersi il carattere concretamente materiale degli spostamenti e dei riposizionamenti a cui sarebbe in grado di portare la teoria del noto filosofo argentino, che non a caso ricorre a una rilettura, non priva di criticità, del concetto gramsciano di egemonia? Se è vero che l’articolazione della “catena equivalenziale” laclausiana sembra effettivamente segnata dalla centralità assegnata al piano discorsivo, con un uso forse eccessivo di alcuni espedienti che originano nella teoria dei giochi linguistici e in quella psicoanalitica di Lacan, a controbilanciare questo piano è proprio il particolare uso che Laclau invita a fare del concetto di egemonia. Non più lento lavoro di rieducazione pedagogica oltre che morale, diretta in fondo da un soggetto storico ontologicamente riconoscibile, quanto piuttosto posizionamento e costruzione resi possibili dalla stessa concatenazione delle istanze portate avanti da gruppi sociali che ne diventano il campo e al tempo stesso i soggetti, senza che per questo ne risulti inibito lo scarto rappresentato dal momento politico. C’è da chiedersi pertanto, se anziché essere terminato, il momento populista non cominci proprio adesso. L’odierna situazione riscontrabile nel nostro Paese non è forse quella in cui possibili e nuove catene equivalenziali possano essere orientate dall’intensità dello scontro con un comune nemico, in grado di saldare, per quanto in modo sempre temporaneo e contingente, gruppi e strati sociali che una visione economicista e determinista eviterebbe, oggi, di tenere insieme? Nel concreto, il superamento della forma neoliberale in cui si dà il mescolamento tra salariati e lavoratori autonomi, proletariato e ceto medio impoverito può, nell’attuale fase storica, darsi ancora come polarizzazione sociale alla quale fare corrispondere politicamente un passaggio dalla classe in sé a quella per sé oppure non può che partire dalla riarticolazione di quello stesso mescolamento lungo diverse linee di frattura e di progettualità politica? Tra queste due linee strategiche non può che esservi netta opposizione?

Occorre, allora, affrontare l’ancor più dirimente questione relativa al rapporto tra lotta sociale e costruzione politica, al fine di costruire nuove strategie funzionali al farsi Stato del popolo. Una volta assodato che lo Stato è campo di relazioni sociali in cui si esprimono i rapporti di classe, è solo questo o implica anche una dimensione più opaca e, tuttavia, tanto più dirimente quanto meno esplicitamente politica, da occupare proprio per poter riorientare il conflitto sociale? Se gli agenti sociali lottano certamente nel campo che è lo Stato, i soggetti politici non combattono forse per quel campo e per il “capitale simbolico” ad esso associato, allo scopo di orientarlo e dirigere il potere verso il proprio nemico? Quale tipo di strategia implica effettivamente per una politica che voglia orientare l’azione per il socialismo, battersi per una nuova centralità dello Stato, che, anziché essere mero agente regolatore di uno spazio di mercato al quale subordinarsi, possa tornare a programmare economicamente un’azione politica nuovamente espressa dagli organi sottoposti al giudizio elettorale e al controllo democratico? Una questione tanto più complessa nella misura in cui, come ricorda lo stesso Poulantzas, se da un lato lo Stato interviene, almeno come condizione, nei rapporti di produzione, dall’altro è esso stesso trama di rapporti tra apparanti pubblici e apparati privati, anch’essi, a loro volta, luoghi di relazioni conflittuali e soggetti a differenti declinazioni egemoniche. Se il Keynesismo non può più darsi nelle modalità “classiche” in cui si è espresso nei Trenta gloriosi, occorre per questo rinunciare a qualunque articolazione tra pubblico e privato, come fossero due poli “assoluti” incapaci di stare insieme se non nella forma di un compromesso che lascerebbe invariati i rapporti proprietari?

Sono tutti interrogativi di estrema rilevanza che necessitano di essere presi in considerazione più che mai in questo delicatissimo momento in cui i rapporti di forza si impongono sempre più a sfavore dei subalterni, vista anche l’accelerazione e l’approfondimento di processi già in corso procurati dalla pandemia. Per questo la Fionda ha ritenuto necessario aprire uno spazio di dibattito apposito per raccogliere il contributo e l’analisi degli studiosi e dei militanti che vorranno intervenire su queste questioni senza preconcetti e nella comune ricerca di un percorso che sia non solo teoricamente accurato, ma anche in qualche modo spendibile per chi ha deciso di posizionarsi e spendersi politicamente nella congiuntura attuale.

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