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Dal voto europeo al covid-19: quale futuro per i partiti?
Poco più di un anno fa, il 26 maggio 2019, si svolgevano le elezioni europee in Italia e negli altri stati dell’UE. In Italia l’esito di quel voto ha registrato un exploit elettorale della Lega, che raggiunse in quell’occasione il 34%, e un crollo dell’allora partner di governo, il Movimento 5 Stelle, che si fermò solamente al 17%. Pochi mesi dopo, la Lega di Matteo Salvini, forte del rovesciamento dei rapporti di forza a livello elettorale, ha innescato la crisi di governo di agosto-settembre, costruendo la propria narrazione sull’Italia dei Sì contrapposta a quella dei No, che ha poi portato all’implosione dell’unica coalizione di governo in Europa formata da partiti cosiddetti challenger[i], cioè partiti che tentano appunto di sfidare i loro antagonisti mainstream. Il capitolo conclusivo di quella crisi di governo è rappresentato dalla contrattazione e dalla formazione del governo Conte II. Esecutivo composto da un partito sfidante, il Movimento 5 Stelle, che tuttavia, per vari aspetti, può essere considerato oggi ampiamente istituzionalizzato e “integrato”, per dirla con Parsons.
Il voto europeo in Italia ha avuto un effetto, quindi, decisamente prorompente. Ma questo ulteriore terremoto elettorale non si è realizzato in tutti i paesi europei, e soprattutto non si è propagato al di fuori delle urne. In Europa i due gruppi politici tradizionali, Popolari e Socialisti, hanno conservato la loro forza in termini di seggi, rappresentando, oggi come in passato, i gruppi politici principali nell’emiciclo di Strasburgo. In Italia, come anticipato, ad una coalizione di sfidanti si è sostituita un’altra ben più temperata, grazie anche alla partecipazione della principale forza politica europeista del paese: il Partito Democratico. Infine, la maggior parte dei governi attualmente in carica in Europa Occidentale non ha al proprio interno partiti sfidanti, che sono presenti massicciamente nell’arena parlamentare ma in misura certamente minore nell’arena governativa. Non mancano sicuramente casi peculiari che meriterebbero una trattazione più approfondita, come l’esecutivo Kurz in Austria, Frederiksen in Danimarca e lo stesso Conte in Italia[ii], ma si può sostenere che quella che è stata superficialmente definita la “minaccia populista” si è recentemente manifestata in cabina elettorale, ma si è dissolta nella politica istituzionale.
In Italia, da settembre 2019 a febbraio 2020 la dialettica tra i partiti di governo e partiti d’opposizione si è andata a sviluppare intorno a due narrazioni contrapposte: da un lato quella del governo, costituita dall’esigenza di continuare l’azione dell’esecutivo al fine di non minacciare la stabilità politica, e maggiormente quella economica, del paese. Dall’altro, il richiamo incessante al ritorno al voto delle opposizioni, su tutte la Lega, che denuncia la nascita di un governo “Frankenstein”, per tentare di capitalizzare anche in Italia l’incremento ottenuto nel voto europeo. Una dialettica, quella pre-emergenziale, che si fonda sulle opportunità involontarie che vengono fornite dall’assetto istituzionale italiano e dai meccanismi che hanno regolato e regolano la competizione elettorale. Alcuni di questi, come il sistema ad investitura indiretta del Presidente del Consiglio dei Ministri permette alle opposizioni di agitare di volta in volta il debole legame tra voto e formazione degli esecutivi; mentre lo stato di salute dell’economia italiana permette al governo di rimanere in vita nonostante l’affievolimento dell’intesa e dei rapporti tra le forze politiche che lo compongono.
Dalla fine di febbraio l’emergenza covid-19 sta presentando anche i suoi risvolti in termini politici. Non è da escludere che i preludi di crisi economica che sono stati ravvisati nelle stime e nelle previsioni di questo ultimo periodo non possano provocare effetti anche riguardo la struttura dei sistemi partitici in Europa. Guardando alle più recenti crisi economico-finanziarie, si potrebbero individuare alcuni elementi di contatto riguardanti il rapporto che è intercorso tra la Grande Recessione e l’entrata in scena di nuovi soggetti politici. Partiti che spesso hanno introdotto nel dibattito pubblico e politico nuove tematiche prima di allora ignorate o inesistenti. Da qui, la domanda fondamentale di questo articolo: la crisi post-covid19 favorirà i partiti mainstream, che formano la maggior parte dei governi europei in questo momento, oppure i partiti challenger, che potrebbero provare a mobilitare gli elettori su nuove linee di conflitto? Quale futuro, dunque, dobbiamo aspettarci per i partiti nell’era post-covid? Naturalmente, questa riflessione avviene ancora “a caldo”, in un momento in cui l’emergenza sanitaria continua, anche se in misura sicuramente minore, a preoccupare i livelli di governo del paese. Tuttavia, la discussione circa gli strumenti di politica economica volti a contrastare una possibile crisi derivanti da questa emergenza è già, a tutti i livelli, ampiamente avviata.
Per questa riflessione proviamo a volgere lo sguardo all’Italia. In particolare appare utile prendere in considerazione la divisione in “Fase 1” e “Fase 2” applicata dal governo, che può essere uno spunto interessante su cui basare alcune considerazioni. Secondo l’effetto noto come rally ‘round the flag, la gestione delle crisi che minacciano l’intera popolazione favoriscono la crescita dei livelli di gradimento di chi è al governo in quel dato momento, poiché nei cittadini si instaura un sentimento di vicinanza ed empatia nei confronti di chi deve prendere decisioni (delicate) in condizioni di incertezza. Se si pensa alla cosiddetta “Fase 1”, infatti, non è stato raro imbattersi in richiami all’unità nazionale, che per i cittadini si sono tradotti in manifestazioni più o meno spontanee di patriottismo, e per i partiti sono stati declinati in termini di “spirito di collaborazione” al di fuori e all’interno della politica istituzionale. Collaborazione che per le forze di opposizione non è sicuramente remunerativa a livello elettorale: da un lato la cooperazione con il governo significava apparire come junior partner, dall’altro il conflitto avrebbe portato all’accusa di agire come “anti-italiani”. Lo spirito di collaborazione, infatti, è definitivamente crollato a seguito della polemica sul MES, che ha sicuramente inasprito i toni di un dibattito che inizialmente si era stabilizzato intorno ad una insolita quiete per i livelli di decibel emessi dal dibattito politico italiano.
Ma gli scenari futuri possono mettere in crisi l’incremento di consensi per Giuseppe Conte e rovesciare il trend: le “fasi” in vigore e quelle che verranno implicano decisioni che forse potrebbero sfavorire chi è chiamato a prenderle, perché sono scelte che si traducono in termini di politiche pubbliche che perlopiù sono distributive, che quindi possono facilmente provocare malcontento in diverse fasce della popolazione e in diversi settori dell’economia italiana. Si pensi in particolare al turismo, alla scuola, all’industria. Inoltre, queste decisioni devono essere prese, come anticipato, in un momento in cui sono presenti preludi di crisi economica, per questo sarà ragionevolmente più complicato evitare di creare vasti segmenti di elettorato insoddisfatti che potranno, nel contesto di elevata volatilità elettorale in cui ci troviamo, cambiare repentinamente le proprie preferenze, favorendo in tal modo le opposizioni che potranno cavalcare l’onda di un possibile, e per certi aspetti già manifesto, senso di sconforto e insofferenza.
I prossimi appuntamenti della politica italiana, sui cui valutare realmente gli effetti politici del covid-19, non sono troppo distanti. Le elezioni amministrative e regionali dovrebbero (il condizionale, in questo caso, è d’obbligo) tenersi a settembre di quest’anno, mentre nel 2022 sarà cruciale l’elezione del Presidente della Repubblica. La stabilità del governo, che ha già mostrato alcuni cenni di cedimento, potrebbe essere minata da questi eventi critici, e non è improbabile che ad eleggere il futuro Capo di Stato potrebbe non essere questa maggioranza. Le prime manifestazioni di dissenso che abbiamo visto in piazza il 2 giugno, con Lega, Fratelli d’Italia e anche i meno rappresentativi Gilet Arancioni sono solo il punto di partenza di una strategia di più lungo raggio che potrebbe precisamente puntare sulla difficile gestione dell’economia post-covid. Tuttavia, questo trend non è solo italiano: una possibile crisi potrebbe colpire anche altri governi europei e di conseguenza i partiti, come detto perlopiù tradizionali, che li compongono.
[i] I partiti challenger sono stati oggetto di numerose analisi nella scienza politica. La loro natura riguarda, essenzialmente, la capacità di sfidare elettoralmente i partiti mainstream mobilitando gli elettori lungo nuove linee di conflitto e su un range ristretto di temi controversi. L’approccio, dunque, è di conflict mobilization, opposto a quello problem-solving adottato dai partiti mainstream. In Europa, tuttavia, non mancano casi peculiari. Per un approfondimento si veda in particolare De Sio (2018).
[ii] Ad esempio, Kurz in Austria è leader di un partito (ÖVP) ex mainstream trasformato poi in challenger, Frederiksen in Danimarca guida il partito socialista (S) ma con posizioni restrittive circa l’immigrazione.
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