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Si fa presto a dire Europa: invito al dibattito
Il processo di integrazione europeo è di fronte all’impasse più forte della propria storia. Neanche trenta anni dopo la cesura di Maastricht, che segna l’ambizione di un organismo che anziché essere un’appendice subordinata ai governi nazionali possegga tratti di sovranità propria e non-reversibile.
Di fronte a tutto ciò vi è la necessità assoluta del ragionamento. Ragionamento razionale, analitico, storico, in grado di entrare nelle questioni in maniera penetrante. Per cercare le cause di ciò che sta avvenendo e porre le basi di una (qualche) soluzione.
Al di là dei più o meno felici ideali federalisti, è un dato di fatto che il processo di integrazione si è costruito su base intergovernativa: i soggetti attivi, che costruiscono il processo e che restano cardini nell’ordinamento della UE sono i governi (detto in senso proprio: Governi, non gli Stati, in quanto tutto l’ordinamento al di sotto dei Trattati stabiliti dagli Esecutivi è spinto a adattarsi o a dissolversi). La tecnicalità di essi pretendeva di corrispondere ad obiettivi fondamentali quali la pace, il benessere delle popolazioni, l’affermazione dei diritti umani fondamentali tramite meccanismi di cooperazione intorno al mercato.
Pace come fine delle guerre intra-europee, assimilando la pluralità di soggettività nazionali (in un contesto di diversità culturali, religiose, antropologiche, territoriali, di cultura politica e di lingua che pochi continenti hanno sulla medesima ampiezza territoriale) alla serie di sanguinosi conflitti; forse scordando che accanto agli interessi di potere dinastici ed economici, vi era nei più cruenti di essi l’obiettivo politico di una assimilazione uniformante delle diverse soggettività per costruire il dominio di un solo potere (da Carlo V a Luigi XVI; da Napoleone alle armate del Terzo Reich). Ma anche pace come la creazione di un soggetto capace di controbilanciare l’impero USA. Sul secondo punto è difficile redigere un bilancio più deludente: i paesi europei sono più o meno tutti saldamente integrati negli apparati miliari USA, con la UE che ha visto una evidente sovrapposizione con la NATO come membership e direzione strategica. La maggiore opposizione ai disegni imperiali statunitensi non è mai venuta dalla Ue, ma dai governi di nazioni singoli (fossero De Gaulle nel 1966 o l’asse franco-tedesco nel 2003).
Ma anche sul primo punto il bilancio non è certo entusiasmante, anche non considerando le avventure coloniali estere: incassando come “dividendi di pace” in termini di credibilità tanto il congelamento forzoso del conflitto in base alla Guerra Fredda (conflitto massimamente distruttivo in potenza, e risoltosi in base a dinamiche ben oltre il fragile e limitato tentativo di integrazione) che l’esito delle politiche interne di natura economica: politiche di governo dell’economia con sostanziali controlli dei capitali, interventismo di Stato e forte peso di aziende pubbliche nell’economia. Livelli di crescita del PIL “cinesi” e uno sviluppo della conflittualità sociale per affermare diritti in primo luogo economici sarebbero andati di pari passo, finché nel quarantennio successivo si sarebbero gradualmente assottigliati fino a diventare quasi impalpabili.
Mentre invece l’integrazione della CEE avrebbe premuto l’acceleratore, saldandosi al nuovo contesto della globalizzazione dagli anni Settanta in poi in un processo dialettico ma sintonico: costruire istituzioni comuni per difendersi dalla competizione, dall’ondeggiamento delle valute, per essere concorrenziali verso USA e Giappone; ma dall’altro lato per costruire un ambito in cui costruire in vitro la stessa modernità globalizzante. Difendersi dalla mondializzazione per costruirne una in piccolo.
Benessere dei popoli e diritti: altre due finalità fondamentali, o meglio due promesse che le dinamiche crescenti del capitalismo finanziario continuavano a non mantenere, e che nemmeno la accelerazione dell’integrazione dopo il 1989, con la costruzione della Unione europea, sembravano a far intravedere, andando di pari passo con un crescente disincanto. Eccettuato l’orizzonte dell’Europa come nuova costruzione mitopoietica della sinistra che buttandosi allegramente alle spalle (ma con tanto spaesamento sotterraneo) lo smagliante sogno rivoluzionario socialista per un più modesto disegno di fratellanza continentale, arrivava ad abbracciare un equivoco che avrebbe avuto lunga vita: la sovrapposizione di una regione geografica assieme alla sua storia e cultura con l’apparato istituzionale che la governa: la Ue. Tanto da perdere di vista la inevitabile indeterminazione di tale spazio (nessuno negherebbe che la Russia faccia parte della identità europea, avallando tale credenziale a Bulgaria e Estonia), lanciando in tralice il messaggio per cui la Ue incarna l’Europa e nessun altra forma di organizzazione politica sarebbe possibile senza accantonare ogni prospettiva di unità – se non proprio di articolazione cooperativa continentale: simul stabunt vel simul cadent. Lo slogan altromondialista “Un altro mondo è possibile” subiva una fastidiosa clusola limitativa: “Un’altra Europa è possibile… ma solo con la UE”.
Lanciandosi nel nuovo mondo globale, sussunta la nuova Germania unita – con la sua parte est ex-comunista – ed oltrepassando la transizione degli anni Novanta, alla fin della prima decade del XXI secolo si trova la prima impasse che mette in discussione radicalmente non solo specifici aspetti della Ue, ma l’intero processo. La crisi dei debiti sovrani mette spietatamente a nudo tutti i difetti e le tare che risultavano chiari da tempo ma senza che diventassero patrimonio pubblico: una divergenza economica fra paesi più ricchi e meno abbienti; una architettura istituzionale labirintica ed elefantiaca, incentrata su due esecutivi (Commissione e Consiglio); rapporti fra stati membri fondati su concorrenza e competizione anziché sulla solidarietà; una “Europa a due velocità” (meglio: una Ue) già nei fatti; e non solo due: accanto ai paesi della periferia nell’eurozona e il “virtuoso” nord (Germania, Olanda, Finlandia, ecc.) va aggiunto almeno il gruppo dell’est, con indici di sviluppo economico meno avanzati e con assetti democratici che generano comprensibili preoccupazioni (molto citate negativamente Ungheria e Polonia come esempi di involuzioni autoritarie ed illiberali, ma lo status democratico di Romania e Bulgaria non pare fare grandi passi).
Fino al 2010-11 il processo era proceduto in modo tecnicistico, senza includere veramente i popoli e gli elettorati nelle scelte fondamentali, se non per dire sì mettendo il puntino sulla ì. La crisi economica e dei debiti sovrani li riportava adesso sulla scena e molti non erano particolarmente soddisfatti di ciò che vedevano. Da una sfera di competenze limitata (mercato estero, concorrenza, moneta) il potere delle istituzioni comunitarie aveva esondato in molti altri settori, sino a segnare in modo decisivo l’80% della legislazione, le limitazioni all’intervento dei governi nazionali (per motivi di concorrenza e bilancio) erano diventate come la giustizia secondo la frase attribuita a Solone: una ragnatela che trattiene i più piccoli, mentre i più grossi le passano attraverso. Con la crisi del 2010-12 sorgeva l’aba dei movimenti antieuropeisti che volgono contro la Ue critiche sempre più feroci, fino ad invocarne la rottura o l’abbandono definitivo.
La risposta delle istituzioni comunitarie è stata una conferma delle linee seguite fino allora: ulteriore potere agli organi sovranazionali, enfasi sul contenimento di bilanci, riforme per la competitività, conferma della bontà dell’eurozona ed un approfondimento della integrazione secondo le linee già sperimentate, con la promessa di maggiore attenzione ai temi ecologici che pare un evidente cosmetico, a fronte di mesi di mobilitazioni massive sul tema del cambiamento climatico. Cambiamenti che molti commentatori considerano insufficienti per affrontare le sfide di impoverimento, precarizzazione, diseguaglianza crescenti; anzi fonti istituzionali quali il Consiglio d’Europa hanno considerato le misure di austerità come vere e proprie lesioni di diritti fondamentali (dal lavoro alla salute, dalla cura dell’infanzia al rispetto delle minoranze), se non apertamente non democratiche. E sembra molto dubbio che tutto ciò avrebbe garantito una tenuta dell’eurozona senza la decisa azione della BCE di draghi.
La crisi successiva del 2015 se è stata meno incisiva sul piano economico, è stata devastante su quello dell’immaginario, con la negoziazione con la Grecia nella prima metà dell’anno e la crisi dei migranti nella seconda, che ha dato una chiara immagine di una collaborazione scarsa e svogliata, senza una chiara prospettiva di insieme. Di lì a poco sarebbe giunta la doccia fredda della Brexit, che è logica implicazione delle “brillanti” riforme summenzionate.
Su questa Ue disincantata, impoverita, diseguale, in preda a crescente putrefazione sociale stretta fra formale ossequio alla fratellanza europeista e ringhianti spinte centrifughe cade la crisi sanitaria del Covid-19, con in prospettiva la più grave depressione economica esperita nella storia delle ultime decadi e una accelerazione dei processi di deglobalizzazione visti nell’ultimo decennio. Se la mancanza di solidarietà assume una evidenza definitiva, il coordinamento per affrontare la catastrofe economica resta legato a logiche privatistiche e affaristiche.
Questa crisi e lenta disintegrazione del processo di integrazione europea e la mancanza di soliderietà implicano anche una messa in discussione del senso dell’identificazione dell’Unione Europea con una presunta civiltà europea. Riemerge infatti la domanda mai evasa intorno all’identità europea e di conseguenza alla possibilità dell’esistenza di un popolo europeo, tanto come unità culturale quanto come costruzione politica. Se infatti un popolo europeo esiste bisogna capire su quali basi culturali e su quale modello politico e sociale si è costituita e si potrà costituire. La costituzione materiale dell’Europa unita che pensiamo è quella inscritta nei trattati e nella prassi dell’attività delle istituzioni europee o è il modello sociale che ha costriuto il benessere negli stati europei – o almeno in alcuni – nei trenta anni di dopoguerra?
Si impongono perciò domande dirimenti sulle prospettive attuali: l’identità europea può essere ancora un collante sufficiente sul piano culturale-simbolico senza una inversione radicale della direzione presa? E’ possibile pensare di fronte alla necessità presente una vera riforma interna o va gettata la spugna dichiarando tale organismo patologicamene irreformabile? Come uscire dalle opposte tifoserie europeismo vs. antieuropeismo con proposte concrete ed incisive? Come riorientare le politiche pubbliche verso un modello sociale inclusivo? Come andare oltre la governance opaca legata alle dinamiche di mercato per riabbracciare una compiuta costituzionalizzazione dei poteri, cioè una riattivazione sostanziale della democrazia? E come condurre tale ridemocratizzazione da una prospettiva di antagonismo sociale di classe quali oligarchie nazionali/sovranazionali vs. base popolare di lavoratori e ceti subordinati? Quale politica estera pensare in caso di collasso UE, o di un suo depotenziamento sostanziale in modo da ripoliticizzare i rapporti con i partners? Come evitare una uscita generalizzata dai trattati vigenti senza tarpare tale possibilità in nome di un irenismo oramai fuori dalla realtà?
Tutte questioni che è indispensabile affrontare senza tabù e senza apriorismi ma col necessario rigore della consapevolezza che se alcune finalità paiono indiscutibili, gran parte delle risposte date appare tragicamente illusoria e richiama la necessità di non ricadere nei medesimi errori.
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