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Leone jacovacci la linea di colore italiana
La storia di Leone Jacovacci, detto “Er Nero di Roma”, italo-congolese campione italiano europeo dei pesi medi nell’Italia fascista, è stata sensazionale. Jacovacci era mulatto, ma soprattutto era un romanaccio verace. Vediamo la sua storia:
Una vita in movimento
Leone nacque nell’odierna Sanza Pombo, in Angola − ma all’epoca ancora parte del Regno del Congo −, il 19 aprile 1902.
Leone non conobbe mai il Congo; infatti il padre decise di portarlo in Italia ancora infante. Così, Leone crebbe nel viterbese coi nonni e a 16 anni si recò a Taranto, pronto ad imbarcarsi verso l’Inghilterra.
Il giovane arrivò a Londra e fu qui che incontrò lo sport che cambiò la sua vita: la boxe. Cambiò anche il suo nome, assunse un nome da star di Hollywood: si faceva chiamare John Douglas Walker.
Leone, in particolare, cominciò a praticare il pugilato quando si arruolò nel Bedfordshire Regiment, ossia la linea di fanteria dell’esercito di sua maestà.
Il 14 luglio 1919, dunque, Jacovacci esordì con lo pseudonimo di “Jack Walker”; il nome fu un omaggio al campione mondiale dei pesi massimi Jack Dempsey, un’autentica leggenda nel settore.
Dopo una serie di buoni incontri, Jacovacci decise di emigrare in Francia per cimentarsi nel pugilato francese; nel 1921 si trasferì a Parigi dove risiedeva un suo parente.
Qui affrontò e sconfisse molti avversari, tra cui Hubert Roc, uno dei pugili francesi più quotati del tempo. Leone dopo queste esperienze si convinse che era il momento di tornare a casa.
Il ritorno in un paese difficile
Leone tornò in Italia nel 1922 per dare l’assalto al titolo italiano dei pesi medi.
Affrontò il campione Bruno Frattini, a Milano, ma non ci fu nessun arrembaggio al titolo: l’incontro fu senza la corona in palio. Leone, sconfitto ai punti, dimostrò comunque la sua netta superiorità.
Tornò quindi in Francia, dove combatté altri 46 match, alcuni in Svizzera e in Argentina. Quando, nel 1925, Leone fece nuovamente ritorno in Italia, nel paese si era già instaurata la dittatura fascista di Mussolini. Il pugile si inserì subito dentro il circuito del pugilato italiano. Gli italiani erano stupiti nel vedere un mulatto italico che parlava romanesco.
Su questo punto c’è un aneddoto interessante di quando Leone, ancora sotto lo pseudonimo di Jack Walker, venne a combattere in Italia e a fine round gli spettatori, sentendo questo inglese dire ai suoi allenatori “aò passame l’acqua”, rimasero basiti.
Leone era italiano e si sentiva profondamente romano, ma romano di quelli veraci. Inserirsi nel contesto sociale italiano del tempo non fu cosa facile.
Nella società italiana era in atto il processo di fascistizzazione che investì ogni campo della vita del paese, ma più che i suoi concittadini a mettere i bastoni tra le ruote del pugile fu il Partito nazionale fascista.
Jacovacci era un vero e proprio beniamino del popolo romano e il fascismo cominciò a capire che avevano un serio problema da risolvere.
C’era infatti un ostacolo da superare per accedere al titolo: l’ottenimento della cittadinanza italiana; fu qui che il PNF profuse tutte le sue energie per impedire che ciò accadesse.
Partì così un lungo iter burocratico che Leone dovette affrontare non senza fatica.
Aveva tutte le carte in regola per accedere come contendente numero uno contro il campione in carica; Leone aveva sconfitto pugili del calibro di Marcel Thill e Georges Carpentier, quest’ultimo un’autentica leggenda e ex campione dei pesi mediomassimi.
Alla fine il partito si arrese; così, il 16 ottobre 1927, Leone Jacovacci ottenne la tanto agognata cittadinanza italiana e quindi la possibilità di affrontare il campione italiano ed europeo dei pesi medi: Mario Bosisio.
La sfida a Mario Bosisio: Leone campione oscurato dal regime
Nonostante la macchina burocratica fascista si fosse mossa con tutte le sue forze per impedire a Jacovacci di avere la cittadinanza, essa fu costretta a venire a patti con la realtà.
La realtà era che Jacovacci piaceva al popolo; a Roma era un idolo, ma il partito fascista lo vedeva come una minaccia alla “purezza della razza italica”.
Il 24 giugno 1928, nonostante i ripetuti sforzi dei fascisti per impedirlo, venne organizzato il match tra i due pugili. L’incontro si svolse allo Stadio del Partito, l’attuale Flaminio, a Roma.
L’evento sportivo fu di grande portata mediatica e sociale; allo stadio accorsero quarantamila persone per assistere a questa sfida leggendaria.
Il match assunse anche dei connotati campanilistici: Jacovacci era potente, era nero, era romano e del popolo; Bosisio era tecnico, biondo, bianco come il latte e veniva dalla Milano borghese. Era una sfida tra le città di Roma e Milano.
Il match fu il primo vero scontro sociale della storia dello sport, ma fu anche una grande affermazione della boxe italiana: erano due atleti italiani a contendersi il titolo europeo.
Tra gli spettatori, ci furono anche i più importanti gerarchi fascisti come Italo Balbo e Giuseppe Bottai. Erano presenti i cinegiornali e partecipò anche Gabriele D’Annunzio in persona.
I due erano ottimi pugili, ma a vincere, dopo un match molto tirato, fu Leone Jacovacci che conquistò il titolo italiano dei pesi medi e quello europeo.
A riprendere il tutto c’era l’Istituto luce che al momento della dichiarazione di vittoria di Jacovacci interruppe le riprese: cominciò così la censura di Jacovacci da parte del regime.
La censura e il razzismo italiano
Dopo la conquista delle cinture cominciò l’ostracismo verso il nuovo campione.
La stampa fascista si scagliò contro Jacovacci definendolo un pugile imperfetto, scarso tecnicamente e dotato solo di forza bruta.
Le parole più taglienti arrivarono dalle pagine della rivista sportiva ufficiale del regime: Lo Sport Fascista dove comparvel’articolo La razza nera nella storia del pugilato.
In questo pezzo si rifletteva su come gli atleti di colore nel pugilato riuscissero ad eguagliare e a volte a rendersi superiori rispetto ad atleti di razza bianca.
L’inizio dell’articolo poteva dare l’impressione di una semplice analisi, magari anche priva di razzismo − anzi, al suo interno vi era proprio una critica ad anglosassoni ed americani per il loro razzismo verso gli atleti di colore −, ma le cose non stavano esattamente così.
Il pezzo infatti avrebbe mostrato tutta l’ipocrisia e il razzismo di cui era intriso il regime mussoliniano nelle ultime pagine, lasciando emergere una lunga serie di pregiudizi.
Secondo l’articolo, erano unicamente le caratteristiche fisiche, ma non quelle intellettive, a dare particolari vantaggi agli afroamericani in questo sport.
Un atleta nero, insomma, aveva avuto soltanto la fortuna di una miglior prestanza atletica, dato che dimostrava tutto meno che intelligenza sul ring, tanto da dover ricorrere ad espedienti, a trucchi per agevolare il proprio incontro in quanto privo di lealtà; il che costringeva i pugili bianchi, per potersi far rispettare, a picchiare quanto più possibile un pugile nero per dimostrargli con la forza la sua inferiorità.
L’argomentazione, per assurdo, non sarebbe stata vera neanche nel caso specifico di Jacovacci, il quale era un pugile, proprio da punto di vista tecnico e pugilistico, intelligente, che non combatteva solo con la forza bruta. La sua boxe aveva già tratti moderni e un movimento di gambe fuori dal comune per quel tempo.
A queste concezioni razziali si unirono anche quelle eugenetiche, dove dottori come Enrico Morelli, il padre dell’eugenetica italiana, scrivevano che si dovesse prevenire il proliferare dei meticciati come lui.
Un pioniere
Jacovacci fu insomma un pioniere, forse inconsapevolmente, dei pugili di colore nel nostro paese. Purtroppo fu un esempio di mancata integrazione causata anche dalle circostanze politiche del tempo. Ancora oggi, con piene libertà democratiche e costituzionali, si verificano molti casi di razzismo sportivo e l’integrazione pare non essere mai arrivata.
Dopo l’esperienza di Leone Jacovacci, bisognerà aspettare gli anni Ottanta prima di riavere un altro pugile di colore cittadino italiano, che per ironia della sorte sarà un altro congolese, in grado di conquistare il titolo italiano e quello europeo, chiudendo il cerchio aperto da Jacovacci, ma anche il titolo mondiale dei pesi medi: parliamo di Sumbu “Patrizio” Kalambay.
La storia di Jacovacci è rimasta sepolta per tantissimi anni ed è stata riportata alla luce solo grazie a Mauro Valeri, sociologo purtroppo scomparso nel novembre scorso, in quel bellissimo libro dal nome Nero di Roma, storia di Leone Jacovacci l’invincibile mulatto italico.
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