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Salvare l’Europa dall’Unione europea. Crisi e fine del paradigma integrazionista


27 Giu , 2020|
| Si fa presto a dire Europa

La retorica della “Next Generation Europe”, basata sulle parole chiave “resilienza”, “green” e “digitale”, – come in passato la strategia Europa 2020 “sostenibile”, “intelligente”, “inclusiva” –  meriterebbe un’accurata decostruzione ideologica.

Non è questa la sede, ma un lungo e approfondito lavoro di analisi è necessario, insieme alla riscrittura di una “controstoria dell’Unione europea”, a cui studiosi e militanti stanno dando un prezioso contribuito e che ci terrà impegnati nei prossimi anni, per non dire decenni.

A latere di questa decostruzione, occorre però, al contempo, avviare una riflessione sullo “spazio europeo” e sull’idea di Europa, che non può essere lasciata al solo campo europeista mainstream.

Come ripoliticizzare questo campo? Come immaginare diverse forme di cooperazione? Come pensare la politica e l’Europa, partendo da una ricomposizione delle sovranità democratiche e dall’avvio di processi di devoluzione, riaffermando il primato delle costituzioni? Anche iniziando a immaginare nuovi assetti istituzionali intergovernativi, non sovranazionali, alleanze che pongano le sovranità in relazione cooperativa e nella condizione di decidere riguardo alla propria  dimensione esterna, senza per questo scartare il tema dell’Europa appellandosi all’ “internazionalismo dei popoli”, formula che non dice nulla e che trascura la dimensione geopolitica e le relazioni di potere con il resto del mondo in cui siamo immersi come continente.

Pensare per grandi spazi e per linee globali: questa è la grande lezione di Carl Schmitt.

L’Europa è anzitutto una civiltà e un’unità storica, come ha insegnato Lucien Febvre; ma un’unità storica, non politica, fondata sulla pluralità conflittuale.

Forse sarà forzato pensare hegelianamente che l’Europa sia “un pezzo di ragione esistente”, tuttavia con questo spazio bisogna rapportarsi in modo costruttivo e non solo culturalmente. Come la nazione non deve essere lasciata alle destre, anche l’Europa non può essere lasciata al neoliberalismo.

La retorica europeista, invece di problematizzare la questione europea, afferma che va tutto bene così com’è; anzi, la crisi è un’occasione di rilancio del processo d’integrazione.

Si vedano alcuni recenti editoriali del Corriere della Sera, come quello di Mario Monti, che scrive:“il piano proposto da Ursula von der Leyen per risollevare l’Europa dalla crisi provocata dal coronavirus raccoglie con lungimiranza la sfida di Jean Monnet”[i]. Secondo il “padre fondatore”, infatti, l’Europa si forgia nelle crisi. La capacità di adattamento e la resilienza costringeranno gli stati ad una più stretta cooperazione: inutile quindi assumere un atteggiamento conflittuale con l’UE.

Sempre dalle colonne del Corriere il politologo Angelo Panebianco ci ricorda che non sarebbe auspicabile “che l’Italia spezzasse i suoi storici legami con l’Europa e con gli Stati Uniti per scivolare nell’area di influenza di grandi potenze autoritarie. Gli italiani devono per forza chiedersi quali siano il governo e la maggioranza di governo più adatti, in questa fase storica, a garantire ciò che essi desiderano”[ii].

Naturalmente è noto dai sondaggi che desiderano più Europa! Insomma è questione di resilienza, di adattabilità, di responsabilità. Ogni prospettiva strategico-egemonica, quindi, è fuori discussione.

Tuttavia, ormai anche tra i sostenitori dell’UE albergano perplessità e i corifei dell’Europa unita sanno bene che il paradigma integrazionista, neofunzionalista non è più proponibile.

Si affrettano, perciò, a trovare espressioni più corrispondenti alla realtà: “Europa differenziale”, “a geometria variabile”, “a più velocità”. One size fits all, se mai è stato un principio realmente auspicabile, certamente oggi è inutilizzabile, in un momento  in cuila fiducia nel cammino progressivo verso “un’Unione sempre più stretta” è venuta meno, così come l’idea dell’irreversibilità del processo d’integrazione.

Volumi come quelli di Jan Zielonka, Disintegrazione[iii] e di Ivan Krassner, Gli ultimi giorni dell’Unione[iv], cercano di riposizionare la riflessione sull’Unione europea, rimettendo in discussione gli elementi tipici di una narrazione mainstream e tutto sommato positiva dell’Europa.

L’ottimismo alla Candide della narrazione europeista cerca, del resto, una disperata conferma in alcuni assiomi tipici del discorso neoliberale, che individua i driver della crescita nella liberalizzazione del mercato e nella creazione di uno spazio di libera circolazione garantito dal rispetto e dalla non distorsione dei principi concorrenziali.

A partire dagli anni Ottanta, questa visione integrazionista è andata sempre più a sostegno dei principi tipicamente neoliberali, che facevano dell’Europa una comunità destinale coincidente con l’estensione del mercato unico verso ambiti sociali e politici.

Ciò detto, appare, tuttavia, non completamente soddisfacente la tesi che vorrebbe un’“Europa dei mercati” contrapposta ad un’“Europa dei popoli”.

Tesi che rispecchia la convinzione diffusa che all’Europa manchi la sua propria dimensione sociale, di cui l’integrazione economica sarebbe il preludio, ma che le resistenze statuali impediscono di fatto il realizzarsi. Al contrario l’obiettivo specifico dell’europeismo istituzionale è stato quello di integrare la società – e lo Stato – nel mercato, cercando di de-nazionalizzare e depoliticizzare la dimensione economica, ovvero eliminando l’ammissibilità che sia pensabile una direzione e un’organizzazione politica diversa dell’ordine economico e sociale, al di fuori di quello stabilito dalla primazia del mercato.

L’ordoliberalismo intende appunto saldare insieme mercato e concorrenza, coesione sociale e competitività, piuttosto che considerare l’Europa come un campo strategico-politico in cui alternative conflittuali possano dare luogo a diverse ipotesi regolative; per esempio un modello in cui l’indirizzo di politica economica e industriale sia supportato da una spesa per investimento su larga scala, basato cioè sulla piena occupazione, il conflitto redistributivo e la democrazia sociale.

Un particolare sviluppo dell’europeismo si è preoccupato, invece, consapevolmente o meno, di affermare il liberalismo in Europa, piuttosto che l’idea di una “civilizzazione europea”, dando per acquisito che lo spazio europeo si dovesse sostanziare come nesso mercato-individuo-diritti. Anche il riferimento al patrimonio culturale, storico, ideale dell’Europa, ha rappresentato, talvolta, più la necessità di un “supplemento d’anima” per il campo neoliberale.

In altre parole, il neoliberalismo ha funzionato da propellente ideologico per l’affermazione di un processo di internazionalizzazione della funzione pubblica, di cui il capitale transnazionale aveva fortemente bisogno.

La complessa architettura “post-sovrana” che ne è seguita ha saputo combinare il sogno dell’Europa unita con la realizzazione della “Market Gesellschaft”, una sorta di globalizzazione interna al continente europeo, o di “globalizzazione regionale”. Col tempo i riferimenti spirituali alla civiltà europea sono sfumati, o hanno fatto da sfondo ad un discorso regolativo che significava, di fatto, lo smantellamento, sì delle barriere tariffarie e degli ostacoli al commercio, ma contemporaneamente anche di ciò che rimaneva dei sistemi di welfare, che gli Stati avevano costruito nei “trenta gloriosi” del Novecento.

Piuttosto che l’opposizione tra “sovranismo” e “europeismo”, varrebbe forse la pena considerare la questione europea come un “campo di battaglia” strategico, attraversato da molteplici linee divisive che esprimono a loro volta diversi rapporti di potere e interessi continuamente contrapposti e ricomposti. Si tratta della stessa ridefinizione delle istituzioni nel processo di trasformazione del capitalismo, che il discorso liberal-progressista non riesce pienamente a cogliere.

Esso non fa che ricondurre in modo ossessivo ogni forma oppositiva all’UE ad un mitico, ancorché impossibile, “ritorno” alla sovranità autarchica (tra l’altro mai esistita). Piuttosto l’Europa costituisce il campo strategico della metamorfosi dello Stato, in cui la trasformazione del capitalismo continentale e delle relazioni transatlantiche si dispiegano compiutamente.

Questa lettura che si richiama ad approcci eterodossi, può aiutare a riformulare un nuovo discorso sull’Europa in grado di porsi in modo critico nei confronti dell’Unione Europea (l’“Europa reale”).

La riflessione del filosofo Nicos Poulantzas e soprattutto della scuola neo-gramsciana delle relazioni internazionali di Amsterdam possono contribuire a definire questo nuovo “campo strategico” che proveremo qui, brevemente a delineare.

In The European Union and Global Capitalism, Magnus Ryner a Alan Cafruny prendono le distanze dal dibattito tra realisti e liberali, gli uni sostanzialmente pessimisti e gli altri ottimisti nei confronti del processo di integrazione.

Viene proposta, invece, dagli autori una “teoria critica” dell’integrazione europea.

Ciò significa ripensare integralmente la questione europea facendo riferimento alla struttura del capitalismo in Europa, inserita a sua volta in un contesto globale; invece di trattare la crisi europea come un momento meramente congiunturale, una parentesi, una semplice deviazione momentanea da un percorso in qualche modo già tracciato, gli autori avanzano l’ipotesi che la crisi sia consustanziale all’Europa stessa e, in particolare, che sia l’ingranaggio fondamentale del capitalismo europeo e dell’“integrazionismo”, che ne è l’espressione ideologica e politica.

Ryner e Cafruny sottolineano come la governance europea si caratterizzi per un modello di “regolazione asimmetrica”[v], che prevede ad esempio una dimensione sovranazionale per ciò che concerne le competenze esclusive dell’Unione (come la politica della concorrenza e quella monetaria) e un approccio fortemente intergovernativo per le politiche che riguardano la fiscalità, il lavoro e le politiche in materia sociale.

Il carattere asimmetrico è ancor più evidente se pensiamo a quelle linee di frattura e alle differenze tra centro e periferia che caratterizzano lo sviluppo capitalistico europeo: diviene, quindi, difficile comprendere l’UE senza capire la gerarchizzazione e i rapporti di potere fra gli stati.

La “gabbia d’acciaio ordo-liberale”, secondo gli autori, si sostituirebbe al sogno della costellazione post-nazionale di Habermas. Il processo di europeizzazione che è avvenuto nel continente non è quindi il risultato dello sviluppo lineare, teleologico di progressive negoziazioni fra gli stati che hanno di volta in volta aggiunto e condiviso “funzioni” a livello sovranazionale.

L’UE va considerata, al contrario, una parte del più ampio processo di sviluppo del capitalismo transnazionale, che trae origine dalla formazione dello Stato moderno e nell’affermazione del paradigma dell’economia politica e del mercato autoregolato. Ciò viene descritto dagli autori, riferendosi ad Alice di Carrol, come “sindrome della regina di cuori”, ovvero la logica espansiva del mercato e di continua “ingiunzione al cambiamento”, il “correre per star fermi”, che richiama la stessa caratteristica di resilienza e di adattamento al mercato.

Soffermiamoci a questo punto sul concetto di resilienza, i cui ambiti di utilizzo sono innumerevoli: è un principio applicato ai sistemi di energia rinnovabile, per la protezione dell’ambiente; è utilizzato nel campo educativo, nel settore urbano, per la creazione di “città intelligenti” (smart cities); nella letteratura scientifica la resilienza è concepita come l’adattabilità agli shock esterni, cioè una preoccupazione costante delle istituzioni per i nuovi rischi e la gestione dei conflitti.

L’uso politico del termine è particolarmente pervasivo in tempi di crisi, viene utilizzato per la “nuova governance europea” e in quello che ricade sotto l’etichetta “management della crisi”.

Le ricadute istituzionali sono conseguenti: la Commissione europea definisce la “resilienza” come “la capacità di società, comunità e singoli individui di gestire le opportunità e i rischi in maniera pacifica e stabile, per costruire, sostenere o ripristinare i mezzi di sussistenza in situazioni di forte pressione”[vi].

Come ha sottolineato Jonathan Joseph, il concetto di resilienza può essere osservato attraverso la lente della “forma neoliberale di governo”.

Questa interpretazione è particolarmente interessante, poiché mette in luce la natura specificamente ideologica dell’UE, trattando l’oggetto di studio non come un campo neutro, ma come il prodotto di relazioni di potere.

Secondo Joseph “parte di questo processo è l’assalto neoliberista alle istituzioni create nel periodo postbellico e la promozione delle norme e dei valori del mercato come mezzo di «destatificazione». […] La promozione del neoliberalismo delle norme del libero mercato è quindi molto più della semplice ideologia dell’economia del libero mercato. È una forma specifica di dominio sociale che istituzionalizza la razionalità della competizione, la responsabilità individuale dell’impresa”[vii].

Il comportamento adattivo del sistema nel tollerare gli shock si basa sulla “capacità delle persone di adattarsi a condizioni mutevoli attraverso l’apprendimento, la pianificazione o la riorganizzazione”[viii].

Possiamo trovare questi elementi neoliberali nelle stesse politiche europee: adattamento individuale, auto-responsabilità (per i cittadini ​​e anche per gli Stati) e capacità di cambiare divenendo flessibili: l’adeguamento alle forze di mercato e agli shock esterni è essenziale per questo dinamico quadro istituzionale. Pertanto, anche lo Stato deve sviluppare questa sinergia con il mercato, senza pretendere di affermare un primato su di esso, ma introiettandolo, adattandosi come in un processo di isomorfismo. L’istituzionalizzazione del mercato – o la “mercatizzazione” dello Stato – deve essere il principio guida di una nuova concezione della gestione pubblica.

La resilienza scongiura, quindi, ogni ipotesi di ripoliticizzazione del conflitto.

Del resto l’adattamento è ciò di quanto più antitetico ci sia al momento politico, alla dimensione della decisione, che, al contrario, incarna sempre una rottura. Resilienza e governance sono le parole d’ordine per tenere a distanza i processi di democratizzazione quando  pretendono di fondarsi sulla politica e non sulle policies.

Ebbene, mettere fine a questo processo di svuotamento democratico vuol dire, sul piano esterno, riarticolare i rapporti fra gli stati in un contesto geopolitico in cui le sovranità popolari siano prima di tutto ricomposte sul piano interno, in termini di diritti sostanziali, economici. Da un vincolo esterno si dovrebbe passare ad uno strutturale “dissenso vincolante” per le istituzioni stesse: questo potrebbe porre le condizioni minime per una ripoliticizzazione dello spazio europeo.

Wolfgang Streeck ha parlato, per esempio, di “un’Unione europea limitata, organizzata in base a settori di attività selezionate congiuntamente. Un’Europa che sarebbe una piattaforma per la cooperazione orizzontale volontaria, senza una direttiva gerarchica”[ix].

Invece di caldeggiare prospettive sovra o trans-nazionali, alludendo ad un cosmopolitismo umanitarista, senza confini, in cui lo Stato è rappresentato come un retaggio del passato westphaliano da superare e in cui la nazione è sinonimo di chiusura, occorrerebbe riposizionare la riflessione sull’Europa partendo da un “intergovernativismo repubblicano”[x], capace di riconnettere i demoi europei sulla base di un’autonomia strategica dell’Europa: una “dottrina Monroe” all’europea.

Ricordando che il demos è un elemento imprescindibile della costruzione politica e che, tuttavia, non nasce dal nulla, si è cittadini nella misura in cui ci si riferisce ad uno Stato e non astrattamente ad una democrazia globale che non esiste, o come membri di una cosmopolis europea, a cui attualmente dello spirito universalista rimane solo la retorica della pace. 


* Il presente articolo riprende alcune parti contenute in M. Baldassari, Europa in frammenti. Crisi del paradigma dell’integrazione in M. Baldassari, E. Castelli, M. Truffelli, G. Vezzani, Prospettive euroscettiche. Le critiche all’Europa nella storia dell’integrazione, Editoriale scientifica, Napoli 2020.

[i] M. Monti, Il piano europeo e i benefici per l’Italia, Corriere della Sera, 28 magio 2020

[ii] A. Panebianco, L’inutile conflitto con l’Europa, Corriere della Sera, 20 maggio 2020.

[iii] J. Zielonka, Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea, Laterza, Roma-Bari 2015.

[iv] I. Krastev, Gli ultimi giorni dell’Unione. Sulla disintegrazione europea, LUISS University Press, Roma 2019.

[v] M. Ryner, A. Cafruny, The European Union and Global Capitalism, Origins, Development, Crisis. Palgrave, London 2017. P.8.

[vi] Comunicazione congiunta al Parlamento europeo e al Consiglio (Bruxelles, 7.6.2017 JOIN(2017) 21 final – Un approccio strategico alla resilienza nell’azione esterna dell’UE, p. 4.

[vii] J. Joseph, Resilience as embedded neoliberalism: a governmentality approach, in Resilience: International Policies, Practices and Discourses, Volume 1 – Issue 1. 2013 pp. 39. Si veda anche J. Joseph, Varieties of Resilience. Studies in Governmentality, Cambridge University Press, 2018.

[viii] Ivi, p.42.

[ix] Intervosta a Wolfgang Streeck La bomba è l’Italia. La crisi dell’UE è imminente di Dante Barontini – Wolfgang Streeck in Contropiano: https://contropiano.org/news/internazionale-news/2020/05/11/la-bomba-e-litalia-la-crisi-dellue-e-imminente-0127822.

[x] L’espressione è di R. Bellamy, A Republican Europe of States. Cosmopolitanism, Intergovernmentalism and Democracy in the EU. Cambridge University Press, 2019.

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