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Domenico Losurdo tra conflitto e relazione. Un itinerario storiografico-filosofico. Parte I
Oggi, 28 giugno 2020, ricorre il secondo anniversario della morte di Domenico Losurdo, insigne filosofo e storico italiano. Scrittore assai prolifico, la sua scomparsa ci ha lasciati privi di una voce severa, capace di giudicare con luminosa coscienza aspetti centrali della storia delle ideologie moderne, mettendo in luce gli aspetti di riscrittura della storia operati dal pensiero contemporaneo liberale e svelandone puntualmente gli imbrogli retorici e le contraddizioni (“Il revisionismo storico. Problemi e miti”,“Controstoria del liberalismo”).
Di questo pensiero Losurdo ha analizzato le tecniche propagandistiche palesando, con rigore, la resa storica, teorica e politica dei movimenti di pensiero deputati allo smascheramento e alla produzione di alternative storiche (“Il linguaggio dell’impero. Lessico dell’ideologia americana”; “La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra”).
Il centro speculativo dell’opera di Losurdo nondimeno si concentra nel superamento dell’idea liberale dell’avvenuta “fine della storia” (Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo), concentrando i suoi sforzi nel delineamento di una “teoria generale della lotta di classe” a partire dai testi engelomarxiani. Teoria, questa, a sua volta inscritta nella più ampia ricostruzione della distinzione tra marxismo occidentale e marxismo orientale – una distinzione che ingloba e supera il mero riferimento geografico e abbraccia aspetti teorici fondamentali (“La lotta di classe. Una storia politica e filosofica”; “Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere”). Questi ultimi due testi, nati dalla viva convinzione dell’autore che la lotta di classe sia la categoria principale che anima la vita pratica, ci spingono a domandarci: che forma assume oggi la lotta di classe? [[1]] E ancora: siamo davvero sicuri di sapere che cosa sia, in sé, la lotta di classe?
1. Attualità della lotta di classe
Proprio attorno a questa domanda è costruito il saggio “La lotta di classe. Una storia politica e filosofica” (da ora LC). In esso si intende, innanzitutto, sgombrare il campo da un equivoco: che la lotta di classe sia una forma meramente economica del conflitto, o, di converso, che la lotta di classe si ponga tutta e senza residui all’interno di conflitti puramente economici. Questo siamo abituati a pensare, sicuramente sulla scorta della fortuna del pensiero operaista, per il quale la lotta di classe vede contrapposti due contingenti puri: da una parte gli operai salariati, dall’altra i capitalisti (Tronti); ma anche sulla scorta di un certo pensiero liberale, il quale limita la lotta di classe al conflitto tra proletariato e borghesia (Habermas). È ormai patrimonio comune questa semplificazione dicotomica, tanto da rientrare, con le fattezze della pedanteria, nel novero del famoso elenco gaberiano di “Qualcuno era comunista” – «perché borghesia, proletariato, lotta di classe».
Losurdo ci invita a pensare che, stando alla lettera del testo engelomarxiano, «la storia di ogni società sinora esistita è la storia delle lotte di classe» (LC, p. 7). Inteso il riferimento al passato (sinora esistita: bisherigen) come un espediente retorico valido per ogni tempo e non come una determinazione di “un certo tempo e non un altro”, è opportuno rilevare due punti: in primo luogo, tutte le società (aller Gesellschaft) sono, in ogni loro punto, la determinazione concreta che assume “in esse” [[2]] la concreta lotta di classe; in secondo luogo, la lotta di classe assume sempre una veste plurale (Klassenkämpfen). Dal primo punto deriva il fondamento dell’attualità della lotta di classe, che permette a Losurdo sia di giustificare l’esistenza della lotta di classe in assenza di esplicito conflitto sociale, sia di legittimare il tentativo di rintracciare già nel testo engelomarxiano tutti gli elementi necessari a costituire la teoria della lotta di classe come una “teoria generale del conflitto sociale” (LC, p. 53). Dal secondo punto, Losurdo ricava il fondamento di una complessità maggiore, extraeconomica, della lotta di classe, come pluralità di forme – talvolta anche mutualmente contraddittorie – che saturano la categoria di “conflitto”. Dovunque ci sia un conflitto, lì mostra il suo volto la lotta di classe.
La sintesi di questi due distinti (lotta di classe come teoria generale del conflitto; lotta di classe come pluralità di forme del conflitto) dà corpo a due degli aspetti principali sui quali si sofferma la riflessione di Losurdo: 1) la lotta di classe non è un affare meramente redistributivo, bensì importa un essenziale carattere di legittimazione identitaria (“riconoscimento”); 2) la lotta di classe si dice in molti modi, abbracciando conflitti non coerentemente connessi tra loro e che una comprensione astratta dei contrasti concreti impedisce di vedere nella loro generale composizione (il che non ne esclude, come accennato, la possibile reciproca contraddittorietà). Da ciò emerge che la lotta di classe è sempre attuale.
2. Redistribuzione e riconoscimento
Nell’economia del testo di Losurdo, ma più in generale nei suoi studi, è importante il ruolo svolto dalla critica all’economicismo, ovvero all’idea che il conflitto sociale si risolva senza residui nel conflitto economico. In relazione a questa concezione del conflitto si inserisce la valutazione negativa sulla lotta di classe come lotta per la sola redistribuzione delle risorse, della ricchezza, insomma dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Losurdo, rielaborando spunti engelomarxiani (LC, pp.79-107) , mostra che nelle lotte di classe, anche quando queste si sviluppano all’interno del piano economico standard come conflitto tra proletariato e borghesia, il proletariato non si limita a richiedere un miglioramento delle proprie condizioni di vita materiale, ma, in forma precipua, esige che la classe padronale riconosca l’identità della classe operaia – una equa ricompensa per la forza-lavoro prestata non essendo capace di soddisfare le aspirazioni del proletario.
Ma di quale identità e di quali aspirazioni stiamo parlando? Losurdo mette bene in luce che, storicamente, i lavoratori (salariati, ma anche schiavi) si sono distinti per la richiesta del riconoscimento della propria umanità: lo sfruttamento capitalistico non si limita, infatti, ad alienare al lavoratore il prodotto del suo lavoro e ad appropriarsi del plus-valore da esso prodotto [[3]], ma perlopiù agisce degradando il proletario in quanto tale, classificandolo, alla stregua dello schiavo, come Untermensch. Allora, il problema principale della lotta di classe non sta solo nell’aumento della qualità della vita materiale dei lavoratori, ma anche (e, qui, Losurdo sembra intendere “soprattutto”) nella qualità della loro vita “spirituale”, intendendo con spirituale quell’orizzonte semantico che afferisce all’autopercezione dell’uomo in quanto uomo, all’autocomprensione della vita come vita dignitosa. Secondo Losurdo è dunque la dignità l’obiettivo principale della lotta di classe che non è solo una questione di salari, ma, in senso generale, di diritti.
Su tutti, il diritto di vedersi riconosciute l’umanità e la dignità della propria persona.
3. Le forme della lotta di classe
La prospettiva del riconoscimento permette di saldare le lotte per diritti sociali e quelle per i diritti civili, mostrando come lottare per il proprio riconoscimento-in-quanto-uomo fa tutt’uno con la lotta per il proprio riconoscimento-in-quanto-lavoratore.
È chiaro che questa prospettiva funziona soprattutto nelle situazioni in cui la negazione dell’umanità e della dignità avviene all’interno dei rapporti sociali tra classi. Ma l’aspetto che ora conta evidenziare è che Losurdo, come detto, non limita l’analisi alla sola forma economica dello sfruttamento, ma la allarga fino ad abbracciare, sotto una teoria generale del conflitto, ogni forma possibile.
Egli si concentra sull’individuazione di quelle forme plurali dello sfruttamento che sono già presenti in Marx e Engels: 1) la forma economica; 2) la forma domestica; 3) la forma internazionale.
Alla prima forma corrisponde lo sfruttamento del lavoratore da parte del capitalista; alla seconda corrisponde lo sfruttamento della donna da parte dell’uomo nei rapporti sociali e familiari (e, seppure in modo più velato, dei figli da parte dei genitori); alla terza, infine, corrisponde lo sfruttamento delle colonie da parte delle nazioni imperialiste.
L’autore mette bene in luce come anche la seconda e la terza forma fossero ben presenti nei testi classici della tradizione socialista: contrariamente alla vulgata, Losurdo mostra come Marx e Engels fossero coscienti della condizione di sfruttamento patita dalla donna tra le mura domestiche e nella società e ritiene che l’emancipazione femminile dal vincolo domestico fosse già per loro parte integrante della più generale liberazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Allo stesso modo Losurdo è chiarissimo nell’individuare la forma internazionale della lotta di classe nello scontro tra nazioni colonizzate e nazioni imperialiste.
L’aspetto fondamentale di questa ricostruzione sta non tanto nell’elencazione delle forme, bensì nell’analisi delle soggettività in esse rappresentate e dei rapporti specifici che intercorrono tra esse nell’ambito più generale della teoria del conflitto.
Seguiamo i punti salienti di questa analisi: in ambito domestico, l’uomo, impegnato generalmente nella lotta per il suo riconoscimento in ambito lavorativo, agisce sulla donna lo stesso sfruttamento che egli combatte in quell’altro ambito.
La donna ne risulta dunque due volte sfruttata (sia in quanto proletaria, sia in quanto donna); in ambito internazionale, l’analisi si complica ulteriormente: da un lato, una nazione, nella sua interezza, cioè non solo come classe padronale ma anche come classe operaia, sfrutta un’altra nazione, in quanto colonia.
È chiaro che il modo in cui la classe padronale sfrutta la colonia non è il medesimo della classe operaia, la quale però, mostra Losurdo, gode a suo modo dei frutti di questo sfruttamento (LC, pp. 108-127). Dall’altro lato, la nazione colonizzata lo è, anch’essa, nella sua interezza.
Cioè, all’interno di essa condividono questa forma di sfruttamento tanto la classe operaia quanto la classe borghese (fatti salvi i casi di “borghesia compradora”, cioè quella borghesia coloniale locale che si accorda coi colonizzatori per gestire e godere in parte di questa stessa colonizzazione).
È evidente che la classe operaia coloniale è sfruttata due volte (e le donne di questa classe, tre), ma questo non impedisce a Losurdo di evidenziare come sia possibile una alleanza interclassista tra proletariato e borghesia locale, quando essa sia orientata a preservare od ottenere l’indipendenza della nazione – indipendenza che libererebbe soprattutto il proletariato da una delle forme essenziali dello sfruttamento.
4. Patriottismo, internazionalismo, imperialismo
La questione nazionale, i suoi rapporti con l’internazionalismo proletario, la relazione tra lotta di classe e potere politico: questi i temi a cui Losurdo dedica il corpo centrale del testo di LC.
Qui si compie il primo passo al di fuori dalla tradizione di pensiero europea accedendo a quella coloniale, in particolare orientale.
L’accesso privilegiato al nesso definito dalle tre questioni sopra poste avviene tanto nella Russia immediatamente successiva alla fine del comunismo di guerra, quanto nella Cina maoista e post-maoista. Losurdo sta con il Lenin critico del tradeunionismo quando egli afferma che «a definire la coscienza di classe rivoluzionaria è proprio l’attenzione riservata a tutti i rapporti di coercizione che costituiscono il sistema capitalistico e imperialistico» (LC, p.153).
Liberare la nazione oppressa non è quindi qualcosa di diverso dal liberare la classe oppressa.
Senza aver guadagnato questo punto non è possibile comprendere perché la rivoluzione sia stata portata a compimento solo da nazioni colonizzate, per le quali, appunto, la lotta per l’emancipazione del proletariato assunse una dimensione spiccatamente nazionale.
Losurdo è qui chiaro nell’indicare in queste nazioni la costante di una differenza di classe che si fa differenza di casta, in cui l’immobilità sociale è data dall’adesione della classe oppressiva alle forze della colonizzazione. Il proletariato, qui, tende a presentare istanza di riconoscimento sia in quanto classe sia in quanto nazione. A prendere cioè coscienza del proprio ruolo all’interno dei rapporti tra Stati e popoli.
Losurdo rielabora una riflessione di Mao, il quale in piena Lunga Marcia, nel 1935, vede l’estrema minaccia dell’imperialismo giapponese, scrivendo: «quando la crisi della nazione raggiunge un punto cruciale ed essa rischia di essere schiavizzata dall’imperialismo giapponese, occorre prendere di mira in primo luogo gli invasori e i collaborazionisti, operando il passaggio dalla rivoluzione agraria alla rivoluzione nazionale» (LC, p. 170).
Questo, in quanto il Partito Comunista esprime gli interessi di tutta la nazione. Infatti, chiosa Losurdo, «la lotta contro l’imperialismo del Sol Levante è il modo concreto in cui, in una situazione ben determinata, principalmente si manifesta e divampa la lotta tra capitale e lavoro» (LC, p. 171).
A questo punto prende corpo il primo nesso, quello tra questione nazionale e internazionalismo – questione che tanto divide il campo socialista anche ai nostri giorni, in cui ancora si fatica a concedere cittadinanza al socialismo patriottico.
Nelle parole di Mao: «nella guerra di liberazione nazionale, il patriottismo è perciò un’applicazione dell’internazionalismo […]. Separare il contenuto dell’internazionalismo dalla forma nazionale è la prassi di coloro che non capiscono nulla d’internazionalismo» (Mao Zedong 1969-1975, vol. 2, pp. 205, 218).
Questo perché sconfiggere le nazioni imperialiste equivale a contribuire alla causa dell’emancipazione del mondo, indebolendo proprio quelle nazioni che ancora lo tengono nel vincolo della sudditanza.
5. Rivoluzione e potere
Posto l’orizzonte nazionale come imprescindibile per una concreta lotta di classe, il problema si sposta ora sulle modalità in cui una nazione che si è liberata può garantirsi la perpetuazione di questa nuova condizione. Emerge, insomma, la questione del potere.
Essa comporta, per Losurdo, che la nazione si costituisca come Stato, che si dia cioè tutti gli strumenti organizzativi e tecnici necessari a perseverare nella libertà.
Nelle nazioni rivoluzionarie viene quindi in chiaro che anche la forma statale, volgarmente intesa come nemica del proletariato in quanto “comitato d’affari della borghesia” diventa invece una forma strumentale fondamentale per il proletariato finalmente emancipatosi dal giogo coloniale. Questo per tre ordini di motivi, tra loro strettamente connessi: 1) protezione dalla reazione imperialista (aumento della potenza nazionale); 2) sviluppo delle forze produttive interne (aumento della ricchezza nazionale); 3) progresso della qualità della vita (aumento della civiltà nazionale).
Centrale e dirimente è, infine, per Losurdo l’attenzione posta da Lenin (e poi dal socialismo cinese, in particolare da Deng) al ruolo giocato dalla borghesia nel nuovo Stato rivoluzionario.
Contro l’idea di una semplice eliminazione dei residui borghesi, giudicata astratta, Losurdo si richiama ai passi dove il leader sovietico, ripensando alcuni luoghi engelomarxiani (Ideologia tedesca; Miseria della filosofia) in cui viene posta la differenza tra “classe in sé e classe per sé”. Lenin si approccia alla questione borghese distinguendo tra una borghesia come classe per sé e una come classe in sé: mentre la prima è cosciente del suo ruolo nella lotta di classe tra capitale e lavoro, ed è dunque recisamente nemica degli interessi proletari; la seconda, priva della capacità di dare forma politica ai propri interessi, porta con sé un invidiabile capitale di conoscenza tecnico-amministrativa, di cui è privo il proletariato.
Senza l’appropriazione e l’uso di questa conoscenza sarebbe impossibile promuovere uno sviluppo economico e sociale – ecco il punto – capace di garantire i tre ordini di questioni sopraesposti.
È, analogamente, il tema centrale del nuovo corso cinese inaugurato da Deng, che Losurdo cita facendo sue le parole del leader cinese: “C’è la possibilità che emerga una nuova borghesia? Può formarsi un pugno di elementi borghesi, ma essi non costituiranno una classe”, «tanto più – chiosa l’autore – che c’è un apparato statale che è potente e in grado di controllarli» (LC, p. 236).
È la distinzione già leniniana tra Stato e amministrazione, tra classe dominante e classe delegata, dove la seconda, borghese ma espropriata dal potere politico, assume un ruolo centrale nella costituzione dello Stato rivoluzionario.
6. Conclusione
Nelle sue linee essenziali il denso saggio di Losurdo prosegue oltre, tracciando quella che – sulla base degli aspetti fin qui evidenziati – porta a istituire una differenza qualitativa tra marxismo occidentale e marxismo orientale.
Il primo, proprio dei paesi a capitalismo avanzato innervati dalla millenaria cultura cristiana; il secondo, proprio dei paesi storicamente colonizzati e afferenti, ma non sempre, a culture estranee alla matrice europea.
Il primo incapace di attuare la rivoluzione socialista e sempre teso da inesauribili e astratte istanze messianiche; il secondo, capace di successo rivoluzionario e interessato allo sviluppo inesorabile e concreto della forza socialista.
Posto questo orizzonte, diventa impellente la necessità – per noi – di ripensare la “rivoluzione in Occidente”, con Losurdo, con Gramsci, e con tutti coloro che hanno compreso la natura complessa del comunismo, ben oltre la definizione acefala dell’abolizione dello stato di cose presenti.
[1] L’autore italiano che, parallelamente a Losurdo, ha affrontato in modo più diretto la questione della forma attuale assunta dalla lotta di classe è Carlo Formenti. Rimandiamo alla lettura del suo saggio “La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo (DeriveApprodi, Roma 2016).
[2] La società è lo sviluppo delle lotte di classe. Ciò significa che, compreso il carattere diveniente della società, questa è da intendersi come la lotta di classe stessa nel suo plurale svilupparsi. Ciò a dire che la stasi e il mutamento delle forme sociali, culturali, economiche, politiche che a volta a volta assume la società non sono altro che la sempre instabile composizione e scomposizione delle lotte di classe, che si generano e si corrompono col generarsi e corrompersi delle lotte medesime.
[3] Come chiariscono vari autori (qui piace ricordare il Sergio Cesaratto delle “Sei lezioni di economia”), sul piano dell’analisi economica l’appropriamento del plus-valore da parte del capitalista non è un “furto”, perché il salario è già il prezzo “giusto” pagato dal capitalista per assicurarsi il mantenimento nel tempo della merce specifica “forza-lavoro” che esso compra. L’analisi ci dice, infatti, che qualora il salario soddisfi le esigenze sociali e materiali di sussistenza, cioè quelle in grado di riprodurre quantitativamente e qualitativamente la capacità dei lavoratori di lavorare, esso assume un ruolo neutro nell’economia capitalista.
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