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La mitomania della solidarietà europea
La classe dirigente è una derivata dei poteri sovrastanti, non il riflesso del carattere di un popolo, come una sociologia di maniera ci ha fatto credere. La riflessione sui termini e rimedi della crisi italiana è coraggiosa e diversificata solo sui binari della rete esterni al mainstream dell’informazione, per il resto essa è banale e a senso unico. Al pubblico poco incline a far ricorso a un’ermeneutica alternativa o a sfidare sui libri la narrazione del pensiero unico (che si esprime sulle TV, i grandi giornali e una moltitudine di intellettuali/accademici organici) non è consentita una rappresentazione alternativa della scena politica, economica e sociale del Paese.
I pranzi gratis, come mostra l’esperienza, si servono solo in famiglia. L’Unione Europea, quella (de)formazione istituzionale che attende tuttora un’ammissibile definizione, è tutto tranne che una famiglia. L’Europa Federale non vedrà mai la luce. I trasferimenti di ricchezza da un paese ricco a uno bisognoso – principio fondativo di ogni nazione – non sono contemplati da alcun Trattato o documento politico apparso nei 65 anni che intercorrono tra la storica conferenza di Messina e i giorni nostri, non sono mai stati contemplati dai lungimiranti padri fondatori. Diversamente dagli auspici espressi in posizione genuflessa dalle anime euroinomani del Bel Paese, è insieme illegittimo e privo di logica aspettarsi dalla Germania (o dalle sue colonie nordiche, Austria, Olanda e via dicendo) qualche gesto di solidarietà nei riguardi dei paesi sofferenti (Italia, Spagna, Grecia…). Forse nell’animo degli adoratori della gabbia dell’euro alberga il miraggio che i paesi beneficiari, colti da improvvisi sensi di colpa o di pietà, aprano i cordoni della borsa. Anche questo non accadrà mai. Nessuno spalanca la finestra e getta al vento il portafogli pieno.
Evocare a ripetizione quel banale-fondamentale principio che tiene uniti popoli e territori, vale a dire tassare i ricchi per aiutare i poveri, prima di essere una provocazione è un nonsense politico. Se dovessero seguire quella strada, i governi dei paesi nordici, proni alle élite liberiste saccheggiatrici di popoli sprovveduti, sarebbero costretti alle immediate dimissioni per evitare la lapidazione sulla pubblica piazza con l’accusa di voler trasferire risorse nazionali, poniamo, da Amburgo a Catanzaro o da Utrecht a Palermo.
I rapporti tra stati sono dominati dalla cruda legge dell’interesse, e il loro esplicarsi dipende dai rapporti di forza. Talvolta, certamente, le debolezze sono solo apparenti (com’è il caso dell’Italia di oggi), ma in tal caso a questi dirigenti sono richiesti coraggio e competenza (come non è il caso nell’Italia di oggi) per sfruttarne il potenziale.
L’economia italiana viveva una crisi profonda anche prima dell’esplosione della pandemia. Ora, con l’aggravarsi del quadro socioeconomico, le previsioni preannunciano tempesta. Il governo tace sulle condizioni reali del Paese per convenienza o insipienza, preferendo la prosa di una fiaba per bambini, non disponendo di adeguata cultura politica, coraggio etico e conoscenze per gestire gli aggravamenti in arrivo.
Nessuna presunta solidarietà europea farà da principio-guida quando l’Italia nei prossimi mesi dovrà affrontare una drammatica crisi di liquidità, che richiederà pesanti tagli alla spesa pubblica, ai servizi sociali e alle pensioni, aumento delle imposte, una possibile patrimoniale e un’ulteriore svendita del patrimonio collettivo. E la ragione è persino banale: il popolo europeo non esiste. Sono assenti tra i paesi Ue le qualità fondative di una nazione degna di questo nome, qualità riassumibili nella condivisione di sentimenti, lingua, battaglie, sofferenze, sensibilità e persino umanità, la cui genesi è rintracciabile nei fiumi carsici della storia. Si tratta di caratteristiche non improvvisabili, che non si possono far balenare a tavolino a fini strumentali. I cosiddetti aiuti europei (Sure per disoccupati, finanziamenti della Banca Europea per gli Investimenti, Fondi di Ricostruzione, Mes) non saranno altro che prestiti-debiti o una partita di giro: nuove imposte a nostro carico per raccogliere risorse, con un ipotetico minimo vantaggio sui tassi, utilizzabili alle condizioni imposte dall’oligarchia tedesco-centrica che punta ora al saccheggio dei risparmi privati e alle imprese sopravvissute alla deindustrializzazione degli ultimi 12 anni (-25%), dopo la stasi del decennio precedente.
Una volta depennato con un tratto di penna il nulla informativo proveniente dalla narrazione di mainstream, l’Italia, se non andrà peggio e a fronte di pesanti condizioni legali o politiche, dovrebbe ricavarne un beneficio annuale di 1,5 miliardi per un periodo di dieci anni (ma se si considerano le ripercussioni negative sul mercato dei BPT e le retrocessioni alla Banca d’Italia dei BPT oggi acquistati dalla Bce, questo valore si riduce ulteriormente), da utilizzare per interventi selezionati dai padroni nordeuropei e funzionali ai loro interessi. Ancora una volta, la montagna europea partorisce un minuscolo roditore, mentre la devastazione sociale si allarga sempre più, così come il divario tra paesi dominanti e paesi sotto protettorato, in drammatico declino.
Secondo il bizzarro giudizio dei difensori degli interessi italiani in Europa, (commissario italiano, presidente italiano dell’europarlamento, altri funzionari italiani nascosti dietro il sipario …) e di primi ministri e ministri improvvisati si tratterebbe di una svolta storica, mentre è chiaro come il sole che l’eurozona sta distruggendo il benessere e la stabilità sociale che il nostro Paese aveva acquisito ai tempi della gloriosa lira. Diversamente dalla quotidiana narrativa impostaci a rete unificate, la solidità della nostra vecchia moneta, riflesso di un’economia altrettanto solida, aveva reso l’Italia (nel 1990) la quinta potenza economica e la quarta manifattura al mondo. Oggi il cane viene menato per l’aia, mentre la politica del briciolismo (le misere, umilianti e ipotetiche elargizioni della cosiddetta Unione) viene perseguita da un ceto politico ottenebrato e venduta a un popolo dopato dalle falsità. A fronte di un debito pubblico che al 31 dicembre 2019 era di 2409 miliardi di euro (134,8% del Pil) e che a fine 2020 supererà il 180% di un Pil nel frattempo precipitato almeno del 10/12%, una manciata di miliardi, per di più pesantemente condizionati, fanno di tutta evidenza una differenza minima. Essi hanno però una forte valenza politica di accettazione dello stato di minoranza e sostengono l’impalcatura della mistificazione di un Paese privo di speranza, spingendolo verso il baratro della colonizzazione definitiva.
Di fronte a un quadro di tale gravità, l’immobilismo sistemico del governo – le apparenze non devono ingannarci – è da irresponsabili. Sui futuri manuali di storia gli odierni dirigenti saranno dipinti per quello che valgono, decisamente poco.
Eppure, lungo sarebbe l’elenco di quanto si potrebbe fare per aggredire la scena e impedire il crepuscolo del Paese. Nell’assunto che l’uscita dell’Italia dalla moneta comune sarebbe traumatica – economisti e accademici, salvo lodevoli eccezioni, rifuggono tuttavia da analisi serie in proposito, perché figli dell’etica liberista del there is no alternative – e poiché persino i paesi predatori potrebbero un giorno ritenere conveniente tale destino, l’Italia, oltre ad aver elaborato con discrezione le linee-guida del noto piano B, dovrebbe agire, subito, su ambiti immediatamente praticabili.
E a tale riguardo, numerose sono le azioni che, con l’ausilio di menti pensanti alternative e di personalità internazionali, potrebbero essere attuate, ma che singolarmente – nel torpore dei grandi media e della cosiddetta intellighenzia – ricevono pochissima o nessuna attenzione, tra cui: a) istituzione di una o più banche pubbliche, per nazionalizzare il debito e acquisire i finanziamenti Bce che oggi non raggiungono né l’economia reale né il governo, per di più – come fanno tedeschi e francesi – guadagnando sul differenziale dei tassi di interesse, almeno fintantoché tale espediente verrà consentito (il 5 agosto infatti scade l’ultimatum della Corte Costituzionale Tedesca, che diversamente dalla nostra ha conservato il diritto a salvaguardare gli interessi nazionali della Germania); b) emissione di CCF, certificati di compensazione/credito fiscale, consentiti dalle normativa Ue e persino ben visti dalla Bce; c) emissione di statonote a corso legale solo in Italia, consentite dall’art 128 del TFUE, anche se non ben visti dalla Bce, ma pace!; d) formale dichiarazione che le politiche di stampo ciclico, vale a dire tagli alla spesa pubblica, imposte per decenni dalla Commissione tedesco-diretta saranno respinte al mittente (e se questo viola qualche patto di stabilità o fiscal compact, ancora pace!), essendo ormai incontrovertibile che esse distruggono ricchezza, ostacolano la crescita e accrescono il rapporto debito/Pil; e) formale smentita che la fiaba infantile del cosiddetto Next Generation Plan della Commissione da 750 miliardi (o forse 500, o chissà quanti!), ammesso che Austria, Danimarca, Olanda e altri, non si mettano, per conto di Berlino, di traverso – sia la chiave di volta. Tempi di erogazione, consistenza e modalità di utilizzo mostrano plasticamente che si tratta di un’indisponente mistificazione; f) presa di distanza dal Meccanismo Europeo di (de-) Stabilità, uno strumento di dilatazione della finanza privata, attivabile solo (a statuto vigente) a determinate, devastanti condizioni.
L’Italia non può attendere le calende elleniche per disporre di risorse necessarie alla sopravvivenza. La moneta (fiat, vale a dire resa legale per decreto) non è più una risorsa scarsa da quando (nel 1971) il presidente Nixon ha disancorato il dollaro dall’oro, esso sì disponibile in quantità limitate, al quale le altre valute erano indirettamente collegate. Da allora, la moneta è garantita dalle banche centrali e dagli stati cui fanno riferimento, e dunque può essere creata in quantità potenzialmente illimitata e a costo zero. La Bce potrebbe emettere tutta la moneta che desidera per sostenere le economie dei paesi che utilizzano l’euro, senza penalizzare nessuno, facendo unicamente attenzione a non generare inflazione, un fantasma questo oggi irreperibile e che, se mai si materializzasse, produrrebbe invero ingenti benefici, facendo crescere l’economia e riducendo il debito, come noto denominato in termini nominali. Solo il sonno della ragione – che genera notoriamente mostri – riesce forse a spiegare come il Paese si sia assuefatto all’intelaiatura euronica distorsiva e ormai fuori da ogni logica ammissibile, mentre le oligarchie sovranazionaliste dei paesi nordici consolidano un arricchimento senza limiti e il predominio politico.
Il quadro è noto alle menti non assonnate, ma repetita iuvant. La casa comune europea è un capitolo della letteratura di fantascienza imposta dal liberismo euro-mondialista con la complicità di quello domestico. Quell’animale mitologico chiamato Unione Europea, un corpus istituzionale tecnocratico, non-democratico, costruito per di più senza un meditato consenso dei popoli del continente, ha prodotto aberrazioni distruttive di benessere, inaridendo la qualità della vita, aggravando l’instabilità sociale e il degrado culturale, e non solo nei paesi gregari e (de-)governati come l’Italia.
Se la dirigenza del Paese non possiede le qualità per progettare una via d’uscita, per individuare un percorso che eviti la decomposizione del Paese, a partire dalla sua uscita dal novero delle nazioni avanzate, occorre una mobilitazione degli animi migliori del Paese, per individuare la strada verso la resurrezione, partendo dalla comprensione delle ragioni che ci hanno condotto sin qui. Ed è ciò che faremo nella prossima occasione di riflessione.
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