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Losurdo internazionalista: un itinerario storiografico-filosofico – Parte II
A due anni dalla scomparsa di Domenico Losurdo (1941-2018), col presente contributo si intende offrire una chiave di lettura inedita, almeno in certa misura, del suo intero itinerario storiografico-filosofico, incentrando quale specifica Kern della pluridecennale ricerca del filosofo italiano la sua riflessione internazionalistica.
La figura di Losurdo come ‘internazionalista’ non si riferisce qui – o almeno non soltanto – ad un significato in chiave normativa, cioè ad un orientamento determinato rispetto alla questione di universalismo e particolarismo; bensì, in chiave metodologica, e nel senso disciplinare del termine viene intesa secondo una complessiva sua rilettura di teorico delle Relazioni Internazionali (di cui è nota la sigla anglosassone: IR), attraverso un bilancio delle sue illuminanti incursioni nelle questioni internazionalistiche.
Alla tradizione delle Relazioni Internazionali, infatti, appartengono, latu sensu, tutti i pensatori che si sono cimentati nella riflessione sui rapporti morali, politici, giuridici inter-statali, anche laddove il loro contributo non appaia consapevolmente collocato all’interno della stessa disciplina politologica internazionalistica e ne risulti anzi estraneo al suo specifico gergo tecnico-disciplinare.
Ne emerge un pensatore che, nella sua straordinaria erudizione e padronanza della letteratura filosofica classica tedesca (in cui certamente è inclusa la tradizione marxista, o meglio dei marxismi), non ha mai cessato di pensare, con rigore filologico e filosofico al contempo, il problema della mediazione tra universale e particolare nella storia umana, quindi la sua concreta tensione non soltanto interna alla società (sul piano domestico), ma anche esterna (cioè sul piano internazionale).
Dagli inizi della modernità al XXI secolo, dunque, è possibile rintracciare nella ricerca losurdiana un latente programma internazionalistico, che affiora a più riprese nella sua ponderosa attività di ricerca, dallo Hegel politico alla sua ultima (meta)critica del marxismo occidentale.
- Un problema pre-marxiano: la questione nazionale in Hegel
Un interesse carsico per le relazioni internazionali, o almeno attorno alla relazione tra universalismo e particolarismo nazionale, sembra attraversare l’intera produzione storiografico-filosofica di Losurdo. Ben prima dei suoi più tardi lavori dal taglio più marcatamente ‘internazionalistico’, in cui cioè la scelta dei temi e la loro attualità si attagliano maggiormente all’indagine della situazione globale presente, questo interesse si trova già agli inizi della sua ricerca. L’intero itinerario losurdiano può essere letto, tra le righe, come un commento attorno al rapporto dialettico tra particolarismo e universalismo, come del resto è suggerito dal titolo di un suo significativo, quanto inosservato, saggio del 2000: Universalismo e etnocentrismo nella storia dell’Occidente.
Fin dal suo secondo lavoro Hegel. Questione nazionale, restaurazione (1983), la cui impostazione sarà ripresa e ampliata nel più tardo Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione (1997), la linea di ricerca di Losurdo si è incentrata sull’interpretazione del periodo classico tedesco come momento politico (e filosofico) di tensione tra illuminismo e reazione da un lato e sull’antitesi tra statualità razionale hegeliana e ideologia irrazionalistica völkisch dall’altro.
In Hegel e nella sua ‘battaglia politica’ del XIX secolo, insomma, Losurdo intravedeva una duplice questione, di determinante rilevanza per il corso storico-filosofico del XX secolo: il destino storico dell’universalismo come criterio normativo della politica (dunque oltre gli ostacoli rappresentati dal classismo, dalla negazione ‘nominalistica’ dell’umanità, dapprima di matrice conservatrice burkeana e in seguito manifestamente positivista-razzista) e il problema dello Stato come criterio di demarcazione tra anti-statalismi nazionalisti e statalismi socialisti. Certo, Hegel visse nel XIX secolo: la “crisi internazionale” del 1830, con i sommovimenti in Francia, Belgio, Polonia e Prussia, costituì comunque per il filosofo tedesco un banco di prova non solo per saggiare gli equilibri costituzionali interni agli Stati europei, ma anche la tenuta del loro ordine esterno.
La riflessione losurdiana non si esaurisce infatti nella sfera politica domestica nemmeno nel suo più noto contributo su Hegel e la libertà dei moderni (1992). Accanto ad un minuzioso esame dei moderni diritti di resistenza, di proprietà, del lavoro e di altri aspetti di ordinamento giuridico interni allo Stato, l’indagine di Losurdo estende lo sguardo anche ad una complessiva ricezione ‘occidentale’ della filosofia politica hegeliana.
Ne emerge un duplice mito storiografico: da un lato la fondazione di una tradizione europea ‘liberale-occidentale’ epurata da Hegel; dall’altro il mito di una Germania costitutivamente anti-liberale, di cui la filosofia di Hegel avrebbe già rappresentato il prototipo totalitario e statolatrico, in contraddizione con la stessa idea di ‘Occidente’.
Crediamo di non commettere una violenza ermeneutica nell’interpretare il programma losurdiano, già nei suoi esordi, come un’erudita, tragica interpretazione della Weltpolitik novecentesca che muove dalla filosofia politica di Hegel come chiave per comprendere, in cerchi concentrici, gli sviluppi della storia tedesca, europea e mondiale.
Hegel, in altri termini, per usare un’espressione cara allo stesso filosofo di Stoccarda, diviene l’hic Rhodus hic salta per tracciare, tanto nella storia politica quanto in quella filosofica, epigoni ed avversari della vasta eredità programmatica della filosofia classica tedesca, così estesa, engelsianamente, fino all’intera ‘sinistra hegeliana’ (e contrapposta alla tarda reazione anti-hegeliana dello Schelling del periodo berlinese). Hegeliana, in certo senso, fu la stessa parabola storica che vide dapprima nascere in Germania la filosofia marxiana e, con l’esperienza sovietica in Russia poi, la costituzione di un primo Stato socialista capace di relazioni internazionali.
Si potrebbe chiosare, con la fortunata metafora di Kojève, che a Stalingrado si sarebbero combattute la destra e la sinistra hegeliane; similmente, per Losurdo è l’intera vicenda ottocento-novecentesca, con il tragico confronto tra ‘Occidente’ e resto del mondo, ad aver rappresentato idealmente il confronto tra la causa filosofica dell’hegelismo e i suoi stessi avversari occidentali. Il razionalismo politico hegeliano, infatti, sarà a più riprese interpretato da Losurdo come una filosofia dell’emancipazione pratica e filosofica, rispetto alla quale il marxismo è contiguo, e foriero di una tradizione di pensiero che ebbe dirette conseguenze sul piano internazionale: i tentativi di edificare esperienze statuali in cui non soltanto le discriminazioni di genere e di censo, ma anche quelle di razza, siano finalmente superate.
- Problemi post-marxiani: tra autofobia comunista e disavventure della pace perpetua
La lotta per la democrazia non è solo una lotta nello Stato. La fondamentale lezione del Losurdo ‘internazionalista’ è che la lotta per la democrazia sia anche una lotta per la democratizzazione dei rapporti internazionali, dunque tra gli Stati. Il buon storiografo e filosofo marxista deve saper leggere in filigrana, nella storia dell’Occidente contemporaneo, questa faticosa lotta per l’uguaglianza tra popoli, a cui teoria marxista e socialismo reale hanno dato il loro specifico contributo, anche nel mondo extra-europeo.
È, in fondo, l’idea fondamentale che accompagna tanto la critica losurdiana alla prospettiva storiografica liberale cosiddetta ‘anti-totalitaria’, fortunata categoria olistica in cui comunismo e nazi-fascismo risultano polemicamente equiparati (si veda Il revisionismo storico. Problemi e miti [1996]; Il peccato originale del Novecento [1998]), quanto la sua Controstoria del liberalismo (2005). Il vizio metodologico che accomuna queste prospettive ideologico-storiografiche – tanto quelle anti-comuniste che quelle liberali-apologetiche – consiste secondo Losurdo proprio nella loro fallacia particolaristica: il presupposto dell’esistenza di Herrenvolk democracies, cioè di una gerarchizzazione dei popoli divisi in democrazie dei ‘signori’ e nazioni ‘inferiori’. Ancora una volta è una questione internazionalistica – quella tra popoli dominanti e dominati – che si impone all’interno della riflessione losurdiana come un aspetto centrale della relazione tra mondo occidentale ed extra-occidentale.
La questione del colonialismo, in particolare, ha costituito uno dei più insormontabili ostacoli alla democratizzazione dei rapporti internazionali. Una questione rimossa sul piano storiografico-filosofico da diverse tradizioni e colpevolmente sottaciuta, si vedrà, all’interno del cosiddetto ‘marxismo occidentale’.
Due aspetti hanno contribuito a inibire il riconoscimento di una questione internazionalistica così centrale per la democratizzazione dei popoli: l’autofobia comunista, alimentata nella tradizione da una politica culturale anti-sovietica, e la strumentalizzazione del concetto proteiforme di ‘Occidente’, capace di assumere via via contorni ideologici e geografici a seconda di specifici interessi geopolitici.
Sono i temi affrontati rispettivamente nelle due edizioni di Fuga dalla storia? (1999; 2005), e nel già menzionato Universalismo e etnocentrismo, ma che si trovano ripetutamente interpolati tra loro in più lavori di Losurdo, nel corso della sua diuturna indagine “dialettica” sull’Occidente liberale: dallo scavo lessicale e concettuale presentato in Il linguaggio dell’Impero (2007), alla sua demitizzante La non-violenza. Una storia fuori dal mito (2010), fino a La sinistra assente (2014). E l’ideale di pace, infine, risulta essere per Losurdo sempre il prodotto di un determinato ordine internazionale.
È Un mondo senza guerre (2016) a costituire forse il lavoro più sistematicamente ‘internazionalistico’ nel percorso di ricerca di Losurdo, in cui è presentata una ricostruzione storico-filosofica dei ‘diritti e rovesci’ del grande ideale della pace perpetua e delle fasi che ne hanno scandito formulazioni teoriche e disattese storiche. Una storia travagliata, segnata da cinque grandi momenti storici, a cominciare dalla fase storica emersa con l’ideale scaturito dalla Rivoluzione Francese: quello di un mondo senza guerra.
Con Napoleone si assistette infatti ad un primo grande tentativo politico di inseguire un modello di pace autenticamente universale, oltre i tradizionali schemi erasmiani e cruceani intra-europei della prima modernità. Sarebbe seguita una tragica successione di corsi e ricorsi storici della storia della ‘pace perpetua’: alla Pax Napoleonica perseguita con una politica di conquista, seguì un secondo momento in cui la bandiera della pace perpetua cadde nelle mani del fronte anti-napoleonico della Santa Alleanza.
Un terzo momento individuato da Losurdo in questa storia contemporanea dei progetti irenici trova collocazione tra il fallimento della Santa Alleanza e la crescente ascesa della cultura liberale e positivistica ottocentesca, espressa nel topos liberale dell’estinzione della guerra entro un ordine economico industriale su scala mondiale. Antitetico all’ordine delle pacifiche “nazioni mercantili” teorizzate da Constant contro i “popoli guerrieri” – di nuovo la divisione dei popoli in superiori ed inferiori – si pose quindi l’esperienza geopolitica sovietica.
Infine, un quinto momento di questa storia dei progetti irenici: con la creazione di una contro-alleanza ideologica liberale attraverso la parola d’ordine della “pace definitiva”,[i] si assistette alla transizione verso una pax americana nel corso del secondo dopoguerra.
“Filo conduttore”[ii] di questa storia della pace perpetua rimane per Losurdo la dialettica del particolare e dell’universale.
La fragilità dell’ideale di pace perpetua è la stessa fragilità prescrittiva di ogni ideale universale: “nel corso di un processo storico tutt’altro che unilineare” il pathos universalistico “dev’essere in grado di sussumere e rispettare il particolare” per non trasformarsi in “empirismo assoluto”,[iii] che è in ultima istanza condizione fattuale di ogni stato di guerra, cifra dell’assoluta differenza in cui l’equità normativa temporaneamente soccombe.
- Oltre il marxismo occidentale? Disavventure dell’internazionalismo
Le teorie internazionaliste neo-conservatrici e ‘post-vestfaliane’ proliferate dopo la Guerra Fredda, infine, non sarebbero che tarde espressioni del ‘teorema di Wilson’, con il suo postulato della pace finale tra democrazie così indissociabile dalla stessa egemonia statunitense.
Per Losurdo il processo di democratizzazione delle relazioni internazionali non implica invece un’immediata omogeneità dei sistemi giuridici, tanto meno se imposta coercitivamente attraverso la guerra.
In tal senso, interventi di polizia internazionale negli anni ’90 come quelli condotti nel Golfo avrebbero rappresentato, assieme alle operazioni statunitensi nei Balcani, una nuova fase di egemonia internazionale: è L’Alba di sangue del “secolo americano” (1999).
Non si dimentichi che, per Losurdo, la Guerra del Golfo e la formazione di un’ampia coalizione militare occidentale non hanno rappresentato soltanto un tragico incidente nei rapporti internazionali, ma anche un evento significativo per la storia politica italiana.
Già il suo saggio sulla Seconda Repubblica si chiudeva con il riconoscimento di una crisi irreversibile della Prima Repubblica, segnata non soltanto dalla subalternità ideologica della sinistra italiana ma, proprio con la guerra in Iraq, dalla sua prima “guerra coloniale” dopo decenni di non-interventismo (La seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo, 1994). E la commistione tra la metamorfosi della sinistra occidentale e la costruzione dell’universalismo imperiale segna, più in generale, il clima ideologico del cosiddetto ‘momento unipolare’ delle relazioni internazionali (1990-2014).
Su questo tema e sulle sue implicazioni internazionalistiche il filosofo italiano si è soffermato a lungo non soltanto nel già menzionato saggio su La sinistra assente (2014), ma anche nel suo ultimo contributo monografico: Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere (2017).
L’espressione “marxismo occidentale” che Losurdo prende criticamente a prestito dal filosofo trotskista Perry Anderson circoscrive non soltanto una regione determinata del suo sviluppo nell’ambito geografico, ma al contempo una regione specifica nell’ambito della storia del pensiero, e precisamente dello status quo occidentale del marxismo.
Ben lungi dal rappresentare un’agiografia dei pensatori epigoni di Marx in Occidente, Losurdo ha tentato piuttosto di mostrare l’origine e la patogenesi del “marxismo occidentale” attraverso una progressiva divaricazione di tale tradizione rispetto al suo antonimo, il “marxismo orientale”. La stessa “capitolazione ideologica” del marxismo occidentale è presentata quale esito del divorzio teorico e storico dal secondo.
“Boria eurocentrica”[iv] e “tendenza messianica e utopistica” del marxismo occidentale,[v] “fuga dalla rivoluzione anti-coloniale e dal Terzo Mondo”[vi] fino all’approdo ad un “filo-colonialismo dichiarato”[vii] e, ancora, il “ruolo di eterna opposizione” teorica[viii] assunta rispetto alle questioni poste dalla contingenza storica e dal realismo politico, costituiscono alcune tappe di tale divorzio tra i due marxismi.
La rilettura losurdiana muove da un evento epocale per la storia del mondo: la Rivoluzione d’Ottobre e le successive ondate di rivoluzioni anti-coloniali che questa ha innescato nelle regioni extra-europee, dall’Asia all’America Latina. Ma lo svolgimento di tale storia è criticamente ripercorso dal punto di vista dell’indolenza ideologica, dello scetticismo politico e dell’astrattismo filosofico con cui il marxismo occidentale ha guardato a questi immani processi. Sebbene in un primo momento, con lo sguardo rivolto al successo della Rivoluzione Russa, “sembra non esserci traccia della divaricazione tra i due marxismi”,[ix] gli indizi di un imminente scollamento tra i due orientamenti filosofico-geografici si presentano nella divergenza in seno alla nuova classe dirigente sovietica.
Nell’oscillazione tattica e ideale tra l’aspirazione avventuristica ad una rivoluzione su scala mondiale e lo sforzo di edificare un Paese anti-coloniale è possibile misurare infatti la distanza che separerà gli intellettuali occidentali dai rivoluzionari non-occidentali (sia detto per inciso: è nella ricostruzione di questo dibattito che va collocato anche il più discusso contributo di Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, 2008).
In questa divaricazione tra Oriente e Occidente, a farne le spese è stato il giusto riconoscimento della questione coloniale. Si tratta di un punto estremamente importante per la ricostruzione dei marxismi offerta da Losurdo.
Una vera e propria pietra angolare dello stesso anti-imperialismo novecentesco sorto dalla sovrapposizione della questione coloniale con la questione nazionale avanzata da Lenin, e anticipata già dallo scritto staliniano su Il marxismo e la questione nazionale (1913).
Laddove il “marxismo orientale” riteneva infatti non si potesse “valutare correttamente la natura di un paese facendo astrazione dal comportamento da esso assunto nei confronti dei popoli coloniali”,[x] per converso la storia del marxismo occidentale è, secondo la tesi storiografica di Losurdo, in gran parte la storia di tale rimozione della questione coloniale (e nazionale).
L’orientamento internazionalista da un lato e quello anti-statalista dall’altro, finirono infatti con l’alimentare correnti neo-marxiste contemporanee che profetarono l’ineluttabile estinzione degli Stati in un “Impero” capace – nelle parole di Hardt e Negri – di garantire una “pace perpetua e universale” (sic).[xi]
Secondo Losurdo, piuttosto, al miraggio dell’internazionalismo globale dopo la caduta del muro sarebbe corrisposto soltanto una “sovranità mostruosamente dilatata”:[xii] quella statunitense.
Di nuovo, la dialettica tra particolare e universale si ripresenta come uno dei temi di fondo della ricerca internazionalistica losurdiana.
Una ritrosia teorica (e politica) ha però inibito la capacità del marxismo occidentale di comprendere la stessa “geopolitica”, intesa dall’autore in termini affatto materialistici come effetto dello “sviluppo delle forze produttive”[xiii] su scala mondiale.
La rilettura svolta da Losurdo consente meritoriamente di includere la dimensione storico-geografica, e segnatamente geopolitica, della teoria marxista nel suo divenire storico, fornendo così solide coordinate storiografiche per ripercorrere le ‘disavventure dell’internazionalismo’ occidentale, nel passato e nel presente.
Proprio i temi rappresentati dalla questione cinese in Oriente e – per dirla col titolo di una delle ultime interviste di Losurdo – dalla “gerarchia delle forze imperialistiche” in Occidente (Die Hierarchie der imperialistischen Kriegstreiber, 2016), costituiscono l’ultimo lascito della ricerca internazionalistica di Losurdo. Un prezioso testimone per chi voglia tentare di continuarla idealmente, seguendo le orme della sua esemplare serietà metodologica.
[i] D. Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente (Carocci, Roma 2016), p. 232 e passim.
[ii] Ivi, p. 352.
[iii] Ibid.
[iv] D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere (Laterza, Roma-Bari 2017), p. 185.
[v] Ivi, p. 23.
[vi] Ivi, p. 123.
[vii] Ivi, p. 101.
[viii] Ivi, p. 165.
[ix] Ivi, p. 27.
[x] Ivi, p. 50.
[xi] Cit. in ivi, p. 168.
[xii] Ivi, p. 145.
[xiii] Ivi, p. 192.
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