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Povertà, gabbie salariali, cristianesimo, socialismo: note a margine della lettura de L’invenzione della povertà di Anna Cavaliere (la scuola di Pitagora, 2019)
Nella primavera del 1959 Remo Costa[1], comunista trentino, partigiano al confino a Ponza, alto quadro del PCI nella fase postbellica, amico di Pietro Secchia e già segretario particolare dell’allora segretario generale del PCI Luigi Longo, dopo essersi ritirato a vita privata in polemica con il Partito per lo scadimento degli studi e della ricerca promossa in ambito economico, intrattenne un interessante scambio epistolare con don Luigi Moresco, parroco di un sobborgo storico di Trento nel secondo dopoguerra, di cui resta agli annali trentini lo scandalo prodotto dalla sua benedizione dei “rossi”, i comunisti che in larghissima maggioranza popolavano la sua parrocchia. I due, pur riconoscendo di camminare lungo due vie molto distanti, si trovavano accomunati da una scelta di campo precisa, entrambi ostinatamente dalla parte dei poveri. Ed è proprio sul tema della povertà che si concentrò quello scambio epistolare, come una sorta di resa dei conti, che fatta salva l’astrattezza della comune simpatia verso i poveri – simpatia contadina, rurale, sebbene Costa fosse figlio della borghesia locale – servì a entrambi per chiarire e ribadire come non fosse sufficiente essere dalla parte dei poveri per condividere in concreto la stessa lotta.
In ossequio alla dottrina sociale della Chiesa, don Moresco contestava a Costa che «la parola di Gesù Cristo “i poveri li avrete sempre con voi”, sarà sempre vera. È una condizione inerente la stessa natura umana». Questo per don Moresco non comportava l’abbandono dei poveri: egli riteneva certo necessario agire in loro favore, «combattere il dolore, le privazioni, le miserie» da loro patiti, ma limitandosi a «fare ora quello che possiamo fare ora, e domani ciò che potremo fare domani».
Torniamo un attimo a noi. È utile continuare a interrogarsi sul ruolo sociale della povertà: in questi giorni ben due importanti esponenti del Partito Democratico (Sala e Quartapelle) si sono espressi a favore della differenziazione quantitativa dell’onorario per i dipendenti pubblici sulla base del “costo della vita” dei luoghi in cui essi esercitano la loro professione. Questa opzione politica, presente in Italia fino al 1972, è chiamata sistema delle gabbie salariali.
A prima vista, essa sembrerebbe essere una norma di buon senso: essendo il salario da valutare non tanto per il suo ammontare assoluto, ma per il suo potere d’acquisto, sembra ingiusto retribuire il medesimo lavoro in modi differenti (quanto al potere d’acquisto) solo perché esso è svolto in due luoghi differenti. La gabbia salariale interverrebbe dunque a sanare questa ingiustizia del buon senso, eguagliando i due salari non sotto l’aspetto nominale, ma sotto l’aspetto reale, cioè del potere d’acquisto, rendendo così uguali i due lavoratori percettori di quel salario. Chiediamoci: è davvero giusto? Il buon senso non sta forse dimenticando un aspetto fondamentale nella sua riflessione? Torneremo su questo punto alla fine dell’articolo.
Siamo di nuovo a Remo Costa e don Moresco. La presa di posizione del prelato si inquadrava senza residui nel solco del dettato papale («si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile»[2]) e delle fonti evangeliche («Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati»[3]), che, operando secondo l’ordine della teodicea, inquadravano la povertà all’interno di un sistema di giustificazione della Creazione, e con ciò del Creatore – assegnando alla povertà un ruolo centrale nell’economia della salvezza.
Come esposto con chiarezza da Anna Cavaliere in un suo recente saggio[4], il cristianesimo – nella sua iniziale versione patristica, e poi nella dottrina ufficiale – pensa alla povertà in modo duplice: da un lato come cristomimesi, occasione di redenzione per chi dovesse decidere di abbandonare le ricchezze per farsi povero sulla terra; e patimento escatologico per chi in quella condizione già si fosse trovato a vivere; dall’altro lato, come strumento di salvezza per i ricchi, che tramite l’elemosina potevano confortare i poveri e mostrarsi così degni del Regno dei Cieli. È la stessa Cavaliere che opportunamente sottolinea come, in questo modo, «la povertà assume uno scopo preciso: è Dio che permette ad essa di esistere, per consentire ai ricchi di riscattarsi dal peccato, ed è quindi Dio che legittima la ricchezza, in quanto strumento per alleviare la povertà»[5] e che, con le conseguenti parole di papa Innocenzo III, «Dio non creò i ricchi per i poveri, ma i poveri per i ricchi; perché il povero è più utile al ricco di quanto non lo sia il ricco al povero. Il ricco infatti dà al povero l’elemosina materiale, il povero retribuisce il carico con una mercede eterna»[6].
In questo senso, il cristianesimo concorre alla naturalizzazione della povertà, di cui viene, per così dire, dimenticata l’essenza sociale-politica. La povertà, infatti, è sempre un termine relativo: si è poveri in rapporto alle condizioni sociali di sopravvivenza storicamente determinate[7]; o ancora: si è poveri in rapporto alla distribuzione materiale media della ricchezza; o semplificando: si è poveri in rapporto ai ricchi. Al di fuori di questa relazione essenziale conduce la teologizzazione dei rapporti socioeconomici operata dal cristianesimo e confermata nell’epoca della secolarizzazione, che nell’analisi della povertà porta con sé il retaggio della cultura cristiana quando, pur lasciandone da parte il ruolo escatologico, conferma l’insopprimibilità della sua esistenza.
La povertà è ora, all’inizio dell’età moderna, ridotta a un problema politico-amministrativo. Come sottolinea la Cavaliere, «diviene prioritaria l’adozione di criteri generali per l’attribuzione dei sussidi ai poveri: ne consegue la rigida distinzione tra meritevoli e non; l’inasprimento della proibizione della pubblica mendicità; la frequente messa la bando degli stranieri poveri e senza fissa dimora»[8]. La povertà, spogliata dalla sua virtù salvifica, si manifesta ora come un residuo insopprimibile di scabrosità, che in quanto tale chiede di essere gestita, per evitare che da essa originino, con una dinamica di “contagio”, disordini pubblici. L’obiettivo non è, chiaramente, l’eliminazione della povertà, ma – tendenzialmente – l’eliminazione della sua visibilità e degli effetti pubblici negativi della sua esistenza.
Dialetticamente, è bene sottolineare come la secolarizzazione della povertà non sia però un fenomeno deteriore rispetto alla sua interpretazione religiosa: nonostante la secolarizzazione cristiana privi la povertà della sua centralità sociale, l’ablazione dell’economia della salvezza trasforma la povertà in questione politica, pienamente interna alla logica mondana. Ci sono tutte le premesse affinché essa possa divenire, successivamente, questione sociale, cioè sia messa a tema non solo dalla frazione ricca della società (come problema in sé), bensì si apra al protagonismo della stessa frazione povera della società (come problema per sé).
È solo con l’avvento dell’età del vapore e poi dell’elettricità, ovvero con l’età delle Rivoluzioni Industriali di fine Settecento e inizio Ottocento che la povertà inizia effettivamente ad essere la vera protagonista della storia occidentale. In questa fase si sviluppano le condizioni sociali e ideologiche capaci di dare centralità alla povertà, ora non più vista come elemento teologico-politico, o come questione di ordine pubblico, ma come “rapporto di forza”. Il carattere relativo della povertà assurge alla sua massima evidenza quando i movimenti socialisti riuscirono a negare il carattere naturale della povertà in cui versavano decine di migliaia di lavoratori[9] e a dimostrarlo come un fattore derivato dal modo in cui i rapporti di forza capitalistici distribuiscono in modo differenziato ricchezza e povertà ai diversi attori di quel modo economico.
Possiamo ora tornare ai nostri giorni e alle gabbie salariali. Si diceva sopra che il buon senso rintraccia in esse un fattore di equità, avendo esse l’obiettivo di pareggiare i salari reali a livello nazionale, cioè tenendo costante il potere d’acquisto. Ebbene, questo ragionamento è proprio di quel buon senso di tipo moderno, precedente alla nascita dei movimenti socialisti e a maggior ragione precedente rispetto alla centralità del nesso povertà-disuguaglianza che informa la Costituzione e la politica dei “Trenta Gloriosi”[10]. Il perché è presto detto: l’implementazione delle gabbie salariali implica, al di sotto del buon senso, l’idea che le condizioni economiche su cui esse si applicano siano immodificabili, e che dunque possano porsi come parametro naturale e limite della contrattazione. Ancora: implicano che la diversa distribuzione geografica della ricchezza sia un dato e non un risultato di una determinata prassi politica. Semplificando: implicano che la povertà di un territorio sia tale perché quello è il livello di ricchezza naturalmente raggiungibile da quella zona.
La logica delle gabbie salariali, seppur non esplicitamente, dimentica che la distribuzione della ricchezza è una questione eminentemente politica[11]. Chi assume questa logica, assume una visione naturalistica della povertà, o – come emerge nei principi del neoliberismo – una visione “morale”[12], per la quale o la povertà c’è perché deve esserci, oppure essa c’è per la sola colpa dei poveri.
Chiudiamo la riflessione facendo ancora riferimento alla diatriba tra Costa e don Moresco. Entrambi dalla parte dei poveri, abbiamo detto, ma lontanissimi l’uno dall’altro. Dove il primo, da comunista, lottava per eliminare la povertà, il secondo, da cristiano, lottava per contenere i poveri nella povertà, cercando di renderla loro sopportabile. Solo nelle parole e nella diversa carità c’è differenza tra la posizione cristiana e la posizione che risuona nelle parole dei nuovi araldi delle gabbie salariali. Tutt’altro avviso si può trovare nella posizione socialista, l’unica che ancor oggi tenga presente la natura eminentemente politica della disuguaglianza economica e che assegni al cittadino e allo Stato il compito di operare per la sua eliminazione dalla storia futura.
[1] Sulla figura di Remo Costa si veda l’opera biografica Remo Costa (1899-1983) : un roveretano irredentista, legionario, comunista , a cura di Francesco Piccolrovazzi e Gianfranco Valduga (Rovereto, 2016). Sul retaggio della suo pensiero politico vedrà a breve la luce un saggio del sottoscritto e di Michele Berti.
[2] Rerum Novarum II, A, 1, 14.
[3] Lc, 6, 20-21.
[4] Anna Cavaliere, L’invenzione della povertà. Dall’economia della salvezza ai diritti sociali, la scuola di Pitagora, Napoli, 2019.
[5] Ivi, p. 29.
[6] Innocenzo III, Libellus de eleemosyna, col. 750 A, in Anna Cavaliere, op. cit., p. 29.
[7] En passant, vale la pena sottolineare che il semantema “povertà assoluta”, non rimanda tanto a una condizione insuperabile, immodificabile, sciolta da ogni relazione con l’altro da sé, bensì a un acutizzarsi dell’intensità quantitativa della povertà: il povero in senso assoluto vede stressato fino all’estremo il rapporto di relatività sociale della propria povertà, ma questo non produce alcun salto qualitativo capace di rendere immodificabile, irredimibile – assoluta – questa condizione. Anche quando mancano i mezzi per la sussistenza (e si è quindi in stato di “assoluta povertà”) non si perde mai, né come individuo, né come cittadino la possibilità di emanciparsi da questa condizione. Tipicamente, è l’assenza di politiche sociali o del lavoro finalizzate a rendere effettivo il pieno sviluppo della persona umana (art. 3) a mantenere il cittadino in quello stato di povertà.
[8] Anna Cavaliere, op. cit., p. 51.
[9] Il rapporto stretto tra povertà e lavoro merita una trattazione non estemporanea. Qui sottolineiamo che, storicamente, l’emancipazione dalla povertà ha portato con sé l’emancipazione del lavoro. Nella misura in cui i lavoratori-poveri hanno relativizzato, storicizzato, la povertà, mostrandone il carattere di invenzione (cioè la sua natura politica), hanno altresì liberato il lavoro dalla sua stigmatizzazione da antico regime, in cui lavoro e povertà andavano insieme: chi era povero doveva lavorare per vivere, chi lavorava conduceva una vita povera.
[10] Cfr. Anna Cavaliere, op. cit., pp. 141-150.
[11] Come è evidente nella Costituzione italiana, artt. 2 e 3.
[12] Si ricordi Margaret Thatcher, la quale riteneva la povertà “un difetto del carattere”. Cfr. Anna Cavaliere, op. cit., pp. 151-181.
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