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Quello spettro che ancora si aggira: i comunisti di Botteghe Oscure nel nostro immaginario
Recentemente anche Matteo Salvini si è rifatto alla storia “della sinistra e di Enrico Berlinuger”, l’ex Segretario Generale del PCI dal 1972 al 1984 (anno della prematura morte), ma non è stato l’unico, perché i richiami a uno dei leader più amati vengono a ogni piè sospinto e da più parti. Persino Matteo Renzi lo evocò per propagandare la sua bocciatissima riforma costituzionale, mettendolo nel suo pantheon personale assieme ad Aldo Moro.
Meno male che il povero Enrico non può più sentire chi lo osanna da destra e da sinistra usando la sua immagine – ancora popolarissima – per migliorare la propria. Lui invece è stato sempre schivo nei confronti delle telecamere e ha avuto tanta fama quanta mai ne volle, indole testimoniata dalla scelta della famiglia di seppellirlo in una quasi anonima tomba a Prima Porta invece che nel Mausoleo del PCI al Verano.
Aveva la nomea di essere timido e triste, cosa quest’ultima che respinse sempre: era in realtà solo molto sobrio e poco esibizionista, virtù attuale già allora e ancor più oggi che la saldatura tra il leader e la base si costruisce su un’identificazione passeggera e superficiale. Nei partiti di massa del secolo scorso, invece, il capo era solo l’interprete temporaneo di una filosofia della storia che andava ben oltre la sua persona.
Non era certo l’unico dirigente ad avere queste qualità, ma il motivo per cui molti politicanti oggi si richiamano al suo operato è che pensano di poterlo spogliare dell’identità comunista, lasciando un involucro vuoto di uomo “bravo e onesto” – quasi ecumenico. Troppo facile, Enrico al contrario riusciva ad attrarre il consenso di un terzo dell’elettorato senza nascondere la sua ideologia e affermando con orgoglio di non aver mai rinnegato gli ideali giovanili.
Nato nel 1922 nella stessa terra di Gramsci non si vergognava di dire chi era, a differenza di altri come Walter Veltroni – poi diventati post-comunisti – che hanno avuto il coraggio di affermare di non esserlo mai stati.
Intervistato sul perché avesse deciso di fare politica rispondeva che lui non aveva deciso di fare politica bensì di essere comunista, cioè vivere votandosi agli ideali di uguaglianza e libertà del socialismo, ma all’epoca della sua generazione l’Italia era un paese molto diverso e il motto della classe operaia era fare come in Russia.
Solo più tardi, per alcuni nati e cresciuti nel boom economico l’orizzonte culturale diventò John Kennedy e i democratici americani e molti di coloro che oggi attaccano Salvini per essersi appropriato della storia della sinistra non sono mai stati nel Partito o vi hanno militato nei suoi morenti ultimi anni o sono stati – come Achille Occhetto – persino gli artefici del suo scioglimento. Per figurarsi il processo di occidentalizzazione del PCI basti pensare all’esclamazione del vecchio segretario Alessandro Natta, quando un giovane dirigente gli portò la notizia fresca della caduta del Muro: «ha vinto Hitler!» disse sconvolto.
Alcuni accesi promotori della Svolta si sono poi ravveduti, come quando Livio Turco disse che non l’avrebbe mai appoggiata se avesse saputo che sarebbe stata semplicemente una svolta socialdemocratica.
L’impressione, guardando la sinistra di oggi, a dire il vero, è che dal marxismo si sia approdati al liberismo senza neanche passare per la socialdemocrazia e forse il fulcro critico di questo passaggio è stato proprio quella generazione che non aveva condiviso lo spirito del fare come in Russia. L’epifania di Natta si è resa evidente quando mesi fa il Parlamento Europeo ha votato una mozione bipartisan che equiparava il nazismo al comunismo.
La novità di Berlinguer fu l’aver voluto affrancarsi dal socialismo sovietico senza abbandonare il marxismo: una Terza Via tra la socialdemocrazia e i socialismi dell’Est, ma morì troppo presto per darle una definizione chiara e quell’intuizione rimase nell’ambiguità.
Così la nuova leva di dirigenti, insieme con la destra del Partito, non seppe fare di meglio che obliterare la loro storia e quella di milioni di militanti. Il vecchio proletario romano che al funerale di Berlinguer commentava «era l’omo ggiusto pe’ l’operai» oggi non lo direbbe a Nicola Zingaretti.
Le organizzazioni politiche odierne sono diventate pseudo-partiti: associazioni di notabili che si fondano sull’appoggio ondivago e volubile di un elettorato che non partecipa alla vita pubblica.
La proiezione del PCI (e non solo) andava ben oltre i confini nazionali, come testimonia la presenza ai funerali di Berlinguer di delegazioni cinesi, nordcoreane, sovietiche, jugoslave.
In quella giornata non mancò la presenza di chi gli espresse un sentimento fraterno, come Yasser Arafat e monsignor Hilarion Capucci (prete siriano vicinissimo alla causa palestinese), segno del doppio fronte dei comunisti: con i popoli in lotta e con le classi subalterne, vera essenza dell’internazionalismo che nulla ha a che vedere con l’ideologia no border della sinistra radicale. Anche i socialisti aiutavano le cause internazionali come quella del popolo cileno, impegno che oggi verrebbe considerato nella migliore delle ipotesi uno spreco di denaro pubblico.
Così siamo stretti in una morsa in cui viene valorizzato l’egoismo e l’avarizia al posto dell’altruismo e della prodigalità, in nome di un’efficienza che non si capisce a che dovrebbe servire se non a patinare un’immagine priva di spessore, che non ha slancio perché senza ideali su cui poggiare.
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