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La ricerca della felicità
Uno dei film più importanti del cinema contemporaneo e hollywoodiano, a parer mio, è La Ricerca della Felicità. Non lo dico per valorizzarne certi aspetti, o la sua qualità più in generale. Non si tratta di questo. Il fatto è che quel film rappresenta uno spaccato della società odierna, e lo fa nel bene e nel male, in maniera onesta e disonesta a un tempo solo.
– Per un lato, il film mostra l’inutile dramma – sottolineo inutile – che centinaia di milioni di persone sono costrette a patire: il dramma della disoccupazione, dell’esclusione sociale e di tutto ciò che comporta. Il protagonista viene lasciato da sua moglie, vive alcune disavventure legate al fallimento della sua attività e arriva perfino a dormire in dei bagni pubblici in compagnia di suo figlio, un bambino appena. Dopodiché, si ha il momento della felicità: l’istante in cui viene nuovamente assunto. Questa è la faccia onesta del film, in quanto dice, coraggiosamente, che la stabilità economica è condizione necessaria (anche se non sufficiente) per la realizzazione della felicità. Vi ricordo che negli States la “ricerca” della felicità viene considerata un diritto dell’individuo singolo. In ciò, il film è stato abbastanza audace perché mette a nudo, in modo non certo brutale ma neppure troppo velato, la giungla selvaggia della società contemporanea, la triste realtà di tutti i giorni, il burrone entro cui tutti possono cadere, e anche abbastanza rapidamente (specie negli USA).
– Poi c’è la faccia disonesta: perché volente o nolente, il messaggio lanciato è quello tipico di un certo protestantesimo tanto prezioso per il capitalismo liberista degli ultimi quattro secoli: “lavora sodo, impegnati…e riuscirai”. Il protagonista esce dalle sabbie mobili grazie a uno sforzo disumano che fa di lui un eroe, così rispettando i canoni di quello che un tempo veniva definito homo oeconomicus – in sintesi, l’uomo imprenditore da John Locke in poi. Ed è un peccato, perché il film poteva portare ad Hollywood una critica, ed è invece scaduto nel cliché. Esemplari, in tal senso, le scritte finali, le quali sottolineano che il lungometraggio è tratto da una storia vera e che l’uomo le cui vicende sono qui narrate, nel mondo reale, ha fatto i miliardi, quelli veri. Insomma, lo spettatore dimentica subito il dramma vissuto e le lacrime versate nei momenti del bisogno (scena dei bagni pubblici) o di liberazione (notizia della assunzione) in funzione dell’illusione liberale, sicché esce dalla sala (o spegne la TV, il PC o quel che è) col desiderio di far soldi. “Lui ce l’ha fatta”, si pensa, “quindi anch’io ce la farò”. Una narrazione dai danni incalcolabili, che fa il paio con quella materia che fin dai tempi della scuola ognuno impara a definire “storia”, quando in verità è “la storia dei grandi personaggi e delle guerre”. Tutto ciò per dire che non è vero, come vorrebbe certa retorica, che il singolo modifica il mondo; è vero, piuttosto, che il contesto ambientale costringe il singolo ad adattarsi. E ciò lo sanno bene quelli che sulla storia riflettono almeno un poco.
Il film mi è tornato alla mente poiché stavo di nuovo interrogandomi sulla assurdità della società capitalistica odierna. Giovani e meno giovani, persone economicamente non autonome vivono un disagio emotivo e psicologico i cui danni restano incalcolati. Alcuni, i meno fortunati, arrivano a dormire in auto o nei luoghi pubblici. La domanda è: perché permettere tutto questo? Pensare perfino che sia giusto così, che molti debbano vivere nella disperazione: Dio mio, che orrore, che squallore. Pure mi fa ridere chi vorrebbe sorvolare su questa immane tragedia dicendo, con una battuta: “valorizza il tuo talento, fa’ quello in cui sei bravo”. Egli probabilmente dimentica che si può essere bravi in molte cose ritenute non utili né di valore, per cui uno è spinto a sentirsi in colpa non già per un fare o un non fare, bensì per essere in un certo modo. E ciò è terribile. Per non parlare degli squilibri di natura socio-economica che favoriscono e sfavoriscono i talenti: stendo un velo pietoso.
Ecco, detto in due parole: nessun progetto politico o sociale avrà valore alcuno fintantoché esso non sancirà la disoccupazione quale crimine contro l’umanità e la serenità economica come diritto fondamentale dell’individuo e come ragione sociale, fondamento stesso di quel patto su cui si basa la teoria contrattualistica dello Stato.
Detto in maniera più semplice e diretta: soffriamo stress e paure per nessuna valida ragione, sol perché non abbiamo saputo far di meglio che scannarci fra noi, rigorosamente vestiti in giacca e cravatta.
Dopo le illusioni della scuola (ed eventualmente, dell’università), arriva il momento in cui si scopre che siamo tutti in competizione: tutti corriamo, tutti dobbiamo tenere i gomiti alti, e se troviamo un lavoro stabile in un ambiente sereno, allora siamo usciti fuori dall’acqua per non affogare, e di tutti gli altri, quelli che ancora annaspano e rischiano di morire annegati, francamente, chissenefrega. Abbiamo fatto presto a recuperare la morale vittoriana dei tempi che furono, quella morale per cui, praticamente, se sei povero sei anche e soprattutto colpevole.
È una barbarie, questa civiltà. E dobbiamo porre rimedio a tutto ciò al più presto, tramite una svolta politica che accolga pienamente istanze socialiste.
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