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Fede, antropologia e storia: note a partire da un’antologia di Scritti di filosofia e religione


28 Lug , 2020|
| Recensioni

Il volume degli scritti di Sergio Cotta (1920-2007) sulla filosofia e la religione, edito dalla casa editrice Rubbettino nel 2019, offre un quadro composito dei numerosi interessi teorici che pervasero l’opera del giurista fiorentino durante l’arco della sua pluridecennale attività di ricerca e ci consegna l’immagine di un intellettuale poliedrico, capace di trattare con competenza numerosi argomenti e pensatori della tradizione occidentale mantenendo come stella polare il diritto e tutte le varie problematiche ad esso correlate. La sottolineatura è d’obbligo visto che Cotta rivendica con orgoglio la scelta di una precisa chiave ermeneutica, quella giuridica, con cui indagare la fenomenica intelaiatura della costituzione socio-politica, analogamente all’interprete dello jus publicum europaeum, Carl Schmitt, che in un’intervista a Fulco Lanchester del 1982 dichiarerà di sentirsi al cento per cento giurista e niente altro.

Nella formazione intellettuale di Cotta un ruolo cruciale spetta allo studio del pensiero illuminista che lo portò ad interrogarsi sui problemi derivanti dalla sottoscrizione del contrat social. I primi articoli del volume sono infatti dedicati ad alcuni rappresentanti dell’illuminismo e, tra essi, spicca la figura di Jean-Jacques Rousseau di cui Cotta ripercorre alcuni punti cruciali tra cui la professione di fede del vicario savoiardo. Nel IV libro dell’Émile ou De léducation il filosofo ginevrino delinea, per bocca del funzionario religioso, tre articoli di fede formanti l’architettura di una proposta traslata da Cotta nella sua costruzione speculativa. La visione religiosa di Rousseau, come Cotta giustamente nota, era funzionale ai principi della sua teoria politica dato che nella chiosa al IV libro dell’Émile il filosofo illuminista conferisce alla religione il rango di un’istituzione salutare capace di prescrivere, in ciascun Paese, una maniera uniforme di comportamento; da quanto detto emerge quindi la liceità della conclusione del giurista italiano secondo cui il contrafforte dell’edificio rousseauiano è una peculiare teologia politica al cui centro non viene collocato Dio quanto, piuttosto, lo Stato.

Il problema religioso è onnipresente nelle sue riflessioni e lo porta a indagare il rapporto tra fede e ideologia. Prescindendo volontariamente dalle implicazioni marxiste desumibili dal secondo etimo, Cotta delinea due nozioni sostanzialmente positive del secondo termine, una teoretica e l’altra pragmatica. Lasciando sullo sfondo la prima può essere interessante notare che nell’ideologia pragmatica Cotta vede celarsi un monismo utilitarista conducente al conflitto, polemos (Πόλεμος); la sua interpretazione, tuttavia, pare risentire di un topos storiografico assodato, che vedeva nel pragmatismo una degenerazione dell’utilitarismo con in più la carica irrazionale della filosofia nietzscheana. La valutazione, eredità della tradizione crociano-gentiliana, si riverbera anche nelle analisi del giurista fiorentino che probabilmente ignora come uno dei punti forti della filosofia pragmatista sia proprio il pluralismo il quale permette la convivenza di visioni nettamente differenti fra di loro. Mettendo da parte l’indagine intorno all’ideologia, è necessario osservare che per Cotta il suo contraltare, la fede, presenta termini irriducibili ad essa; la scelta di fede è infatti l’unico tramite attraverso cui il nemico per eccellenza della solidarietà civile, lo straniero, oggetto di una secolare inimicizia all’interno del limes politico, può venire neutralizzato – il richiamo allo straniero e al nemico non è casuale dato che, sempre Schmitt, in Der Begriff des Politischen (1932) baserà tutta la sua analisi dell’inimicizia politica sul concetto del Fremde.

Nella teorizzazione schimittiana, poi, accanto alla categoria del nemico vi è anche quella dell’amico – unica vera coppia esistenziale secondo il giurista tedesco. Ciononostante il pensiero di Schmitt non riesce ad eludere la trappola dell’immagine negativa dell’uomo, così come viene delineata dalle antropologie machiavelliana e hobbesiana, al contrario invece di Cotta che proprio nell’amicizia, nella philia (ϕιλία), troverà una via privilegiata per uscire dal caos e fare dell’associazione politica il destino supremo dell’uomo. Secondo l’autore per evitare che l’urbe sia edificata su pulsioni meramente utilitariste c’è bisogno che la politica riconosca la necessità e il bisogno di una religione in grado di suscitare una philia più autentica e profonda, capace di coagulare i diversi cuori umani. Leggendo queste pagine il pensiero va ai libri XIII e IX dell’Etica Nicomachea dove Aristotele tratta diffusamente del concetto di Φιλία, collante di tutte le città e associazioni d’individui; nell’impalcatura aristotelica l’amicizia è forse l’unica assicurazione dell’uguaglianza fra diversi e anima la stessa comunità e costituzione politica dato che le associazioni sociali riposano su una specie di contrattualismo tuttavia, e qui si situa la prospettiva di Cotta, la politica non ha la stessa forza trainante dello ius e non è in grado di stabilire una giustizia universale.

Il problema dell’uguaglianza è centrale nell’itinerario dell’autore e, a suo avviso, essa può venir trovata solo nelle Sacre Scritture in cui il messaggio biblico originario annuncia l’uguaglianza dei figli sotto l’egida del padre, teoria questa che si incastona filosoficamente nell’insegnamento paolino. In tale ottica sarebbe suggestivo sapere se il giurista fiorentino fosse a conoscenza degli studi condotti su questi argomenti dal teologo Erik Peterson che, in un pamphlet del 1935 intitolato Le mystère des Juifs et des Gentiles dans l’Eglise, attraverso il commento dei capitoli IX, X e XI dell’Epistola ai Romani di San Paolo, tenta di risolvere il problema del riassorbimento di pagani e giudei nel seno della chiesa cattolica, pervenendo a tutta una serie di conquiste interessanti ma certamente differenti rispetto a quelle di Cotta.

Un altro significativo tema che percorrere quest’antologia è la secolarizzazione. Nel secolo appena trascorso, com’è risaputo, un cospicuo filone del pensiero giusfilosofico si è occupato del tema sotto lo stimolo del secondo teorema enunciato da Schmitt nella sua Politische Theologie: Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität (1922), ossia che tutti i moderni concetti formanti l’idea di Stato non sono altro che il residuo di concetti teologici secolarizzati. Cotta, che ebbe contezza delle dottrine schmittiane, sostiene qui che una delle maggiori manifestazioni della secolarizzazione è rintracciabile nella supremazia del politico come forma onnicomprensiva e generale della prassi autocreatrice umana; la vita cristiana, nella misura in cui subisce la sua influenza, tende ad assumere proprio le forme del secolarismo politicizzante e questo è evidente nel XIX secolo, temperie storica in cui il cristiano trova la sede dello sradicamento proprio laddove ha il suo οἶκος, la sua casa, ovvero la città. Chiamando in causa due importanti autori antichi come Celso e Tertulliano, pensatori su cui Erik Peterson, in Der Monotheismus als politisches Problem (1935), costruirà la sua risposta teorica alla teologia politica schimittiana, il giurista italiano nota che nelle loro posizioni la politica era vista come lo spazio par excellence del diabolico, Weltanschauung che Cotta tenta di annullare mediante l’impegno pubblico e mondano del cristiano all’interno della città – l’attenzione sul nesso diritto e secolarizzazione acquista un valore fondante anche nella riflessione di un giurista tedesco contemporaneo di Cotta, Ernst-Wolfgang Böckenförde, che in Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation (1967) circoscriverà la problematica alla costituzione dello stato liberale secolarizzato, il quale vive di presupposti che non può più assicurare.

L’ultima sollecitazione è inerente alle due figure antropologiche evocate dall’autore in alcuni di questi articoli, il giudice e il mistico, che in un qualche modo sintetizzano la proposta filosofico-religiosa di Cotta. Nella sua ottica il verdetto giudiziario ha un carattere provvisorio e infatti il giudice deve costituirsi come una specie di “terzo Stato” fra imputato e accusatore garantendo al contempo indipendenza, imparzialità e disinteresse. Egli è quindi la faccia di una razionalità positiva, al contrario invece della Porzia shakespeariana o del giudice kafkiano, immagini letterarie di una primigenia forza di legge a cui paiono estranee equità e giustizia. All’altro lato della medaglia si trova invece il Mistico, così come è delineato da Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus; per il giurista dietro le sembianze del Mistico si avverte la natura precipua del soggetto, quella di essere dentro e oltre il mondo, dato che il limes è pattuito e delimitato anticipatamente dalla sua conoscenza. La novità ermeneutica, tuttavia, consiste nella sintonia individuata da Cotta fra il Mistico wittgensteiniano e la filosofia di Gottfried Wilhelm von Leibniz che consente, a suo avviso, di mettere in luce la bidimensionale struttura dell’uomo, il sinolo, in sintonia con il pensiero cattolico classico. Sarebbe molto interessante analizzare questo legame alla luce delle considerazioni di un altro intellettuale italiano del novecento, Giuseppe Prezzolini, che in alcuni studi giovanili sosterrà non solo l’apertura della filosofia leibniziana al misticismo ma sottolineerà al contempo la pregnanza del Mistico il quale, travalicando i limiti del mondo empirico, schiude la via ad una realtà metafisica.

Gli appigli e spunti offerti dalla presente pubblicazione sono dunque molteplici e girano intorno a questioni spinose derivanti da alcuni punti dolenti della religione, della filosofia della storia e dell’antropologia politica che offrono a Cotta motivi di riflessione importanti, ora disponibili agli addetti ai lavori.

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