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La Cina come problema globale
Se c’è qualcosa che insegna la storia è il suo stesso fluire. Davvero tutto scorre, anche se, in questi settantacinque anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, possiamo aver avuto l’impressione, come qualcuno ha scritto, che la storia fosse finita: con il progressivo affermarsi della democrazia, del capitalismo neoliberista, degli USA come guardiano del mondo. Impressione fallace e, oltre tutto, troppo occidentocentrica.
Ora, dopo Covid-19, non potrò più nemmeno raccontare ai miei studenti che, prima o poi, la grande storia si rimetterà in moto perché questo è avvenuto e a livello globale.
Il propulsore è uno solo e si chiama Repubblica popolare cinese: il virus è giunto a noi dalla Cina quando la Cina era da tempo impegnata a sostituire l’ordine di Yalta con un nuovo ordine mondiale. Ci troviamo di fronte a un Paese la cui tradizione impone rispetto, ma anche cautela e che ha storicamente dimostrato, se ben governato, di essere capace di affermarsi come potenza imperialista e di avanguardia nell’innovazione scientifica e tecnologica.
Un Paese, tuttavia, assai lontano dalla cultura occidentale quasi in tutto: bussa alla porta dell’Occidente, anzi vi è già dentro, ma dovremmo essere meno superficiali e investigare sulle reali intenzioni di questo Leviathan orientale.
Non evitiamo, nell’attualità epidemica, anzitutto di porci una domanda solo perché Trump ha dato ad essa una risposta affermativa. Non avrebbe proprio nessuna rilevanza per noi se fosse provato, come pare, che Covid-19 sia giunto dalla Cina? A questa si dovrebbe subito aggiungere un’altra domanda: non avrebbe proprio nessuna rilevanza per noi che Covid-19 si sia originato nel wet market di Wuhan o, peggio, nell’istituto di virologia di questa città?
Qui non interessa la questione giurisdizionale: se esista al mondo un giudice che abbia competenza nel caso e, eventualmente, di condannare la Cina al risarcimento dei danni patiti da Stati e persone. Però il profilo di responsabilità si irrobustirebbe se fosse dimostrato, come voci autorevoli sostengono, che il governo cinese avrebbe colpevolmente ritardato di comunicare al mondo l’insorgenza di un nuovo virus così altamente contagioso. Ma nell’Occidente paladino dei diritti dovrebbe essere anche considerato che l’oculista dell’ospedale di Wuhan, il dottor Li Wenliang, che aveva diffuso la notizia, era stato pesantemente redarguito dalla polizia di Wuhan per «aver fatto commenti falsi su internet».
Il documento rilasciato al dottor Li è, però, finito provvidamente anch’esso su internet e così il 2 aprile il governo cinese ha cercato di rattoppare proclamando Li, deceduto per Covid-19 il 7 febbraio, eroe nazionale.
Si tratta di indizi significativi o, al contrario, di elementi comunque insignificanti? Nel frattempo cause contro il governo cinese sono state avviate da privati un po’ in tutto il mondo, ma difficilmente sortiranno effetto per tutta una serie di complicate ragioni giuridiche, di ordine interno e internazionale.
In thesi, se ne venisse dimostrato il colpevole (o doloso) ritardo nella comunicazione, la Cina potrebbe essere ritenuta internazionalmente responsabile dei danni che si sarebbero evitati con una comunicazione tempestiva. In passato la violazione di un obbligo internazionale di notifica ha costretto il responsabile al risarcimento: è il caso dell’Unione Sovietica che, nel 1981, si riconosceva responsabile, dopo un travagliato contenzioso, dei danni causati dalla caduta in territorio canadese di un satellite a propulsione nucleare, il Cosmos 954.
Il Canada imputava ai russi di avere omesso «una notificazione preventiva dell’imminente rientro del satellite»: caso molto distante da quello di Covid-19, ma il principio fondante l’eventuale responsabilità sarebbe proprio questo.
Ve ne sarebbe anche un altro, pur affacciato dal Canada nel caso di Cosmos 954: l’URSS, lanciando un satellite nucleare, aveva posto in essere un’attività pericolosa ex se e perciò ne aveva assunto il rischio.
Ora, già la SARS del 2003 era un virus mutuato negli esseri umani da animali selvatici: la zoonosi si sarebbe prodotta in un mercato della provincia cinese del Guangdong: indubbia l’analogia con la genesi di Covid-19.
Inoltre anche per SARS si era imputato alla Cina di aver comunicato tardivamente all’OMS il fatto epidemico. Allora avere continuato con la pratica del wet market potrebbe bastare per affermare la responsabilità del governo cinese perché quella pratica si era dimostrata pericolosa già nella vicenda SARS.
Può essere che, come taluno ha suggerito, l’ONU autorizzi una commissione d’inchiesta su Covid-19. Ma è improbabile che, date le relazioni di potenza in essere, si possa pervenire ad una dichiarazione di responsabilità. Però sarebbe molto se i fatti venissero accertati, anche solo parzialmente.
Qui sta il focus: l’opinione pubblica ha bisogno – anzi, ha il diritto – di sapere se la Cina sia o no responsabile. Siccome è vero che comunque la Cina non potrà mai essere ignorata o marginalizzata, per questo occorre conoscerla a fondo, in un certo senso scoprirla.
L’Italia non sarà mai in grado di farlo per lo stato di inerzia o di sudditanza in cui si è costretta a livello internazionale: sembra avere (e probabilmente ha) paura e allora dobbiamo sperare che altri lo facciano.
Ma se è nostro interesse ‘scoprire’ la Cina non ci si dovrà arrestare all’affaire dell’anno: questo va introdotto in un ampio contesto spazio-temporale. La domanda, anzi le domande, son queste.
Quali sono i progetti della Cina in Europa? Qual è la ragione per cui noi, consumatori europei, acquistiamo così tanti prodotti dalla Cina, diventando sempre più spesso proprio noi gli importatori diretti attraverso l’e-commerce? Che significato dare alla presenza in Europa di così tanti immigrati cinesi, senz’altro attivi, laboriosi e utili a noi consumatori?
Tre domande che, si capisce, si riducono ad una, alla prima: vediamo.
Il consumatore europeo compra cinese ogni volta che può perché è più conveniente oppure perché ormai solo la Cina produce certi articoli di vendita.
È una realtà che conosciamo tutti perché fa parte integrante della nostra quotidianità: vicenda non irrilevante in quanto prova che la Cina è entrata dentro la nostra vita e, diciamo, inevitabilmente ci condiziona.
Soprattutto condiziona la nostra economia che, di conseguenza, ha finito con l’abbandonare non pochi settori produttivi e questa erosione è ben lungi dall’arrestarsi.
Un fenomeno che ha coinvolto anche l’artigianato più prossimo: siamo lieti di frequentare il parrucchiere o il sartino cinese perché ci costano meno e, tuttavia, tutto ciò ha contribuito ad indebolire economicamente il (nostro) Paese. D’altra parte, i cinesi residenti, e produttivi, in Italia non hanno trovato grandi difficoltà nell’inserirsi e, poi, anche nell’arricchirsi. Se lo sono guadagnato sul campo; ma sappiamo che, vendendo prodotti o attività cinesi, oppure arrivando dalla Cina con capitali cospicui, si sono comperati parecchie cose italiane come immobili, aziende, squadre di calcio ecc. È un’onda che sembra inarrestabile; e il recupero al massimo livello della mitica Via della Seta ha l’evidente scopo di ingrossare quell’onda. Il sogno abilmente venduto agli europei passa per la creazione di un’enorme area euroasiatica nella quale regnino pace e prosperità per tutti. Ma sarà poi così?
Ci si dovrebbe ancora interrogare – e qualcuno lo ha già fatto – sugli scopi perseguiti con gli Istituti Confucio: oltre cinquecento, presenti in tutto il mondo, molti in Europa. Dal 2004 diffondono la lingua e la cultura cinesi. Però è singolare che siano entrati nelle università, assumendosi gli oneri per gli insegnanti e il materiale didattico e, soprattutto, mettendo a disposizione cospicui finanziamenti per bandi di concorso e borse di studio. Per esempio, nella mia università (Padova), la denominazione ufficiale è Istituto Confucio all’Università di Padova; e nel sito ufficiale dell’Istituto compare il logo dell’Università degli studi di Padova. L’obiettivo dichiarato di questi istituti è di mantenere «sempre un atteggiamento di mutuo rispetto, negoziazione amichevole, equità e benefici nei confronti dei suoi collaboratori». Tuttavia è accaduto che, dal 2013, alcune università hanno deciso di interrompere la collaborazione, dal Canada agli Stati Uniti, dall’Australia alla Francia, dalla Svezia alla Germania. É anche accaduto che il direttore dell’Istituto Confucio della Vrije Universiteit Brussel sia stato allontanato perché sospettato di spionaggio.
La Cina va oltre: non solo esporta, ma anche cerca di importare cultura, attraendo, attraverso compensi considerevoli e altro ancora, ricercatori da vari paesi occidentali nel contesto di un progetto dalla denominazione ambiziosa, Made in China 2025. Questo progetto investe molti settori disciplinari, non solo scientifici e tecnologici: si invitano, e si lusingano, docenti di discipline apparentemente inutili o quasi per le mire cinesi, come il diritto romano verso il quale la Cina ha, in effetti, dimostrato un interesse che un po’ stupisce. É molto probabile che, se si interrogassero i docenti italiani (numerosi) che insegnano in Cina, esprimerebbero giudizi altamente positivi della loro esperienza e di quel Paese. Ma si domandano quali possano essere le reali intenzioni di questo corteggiamento da parte della Repubblica popolare cinese? O, soddisfatti dei vantaggi personalmente conseguiti, finiscono con l’essere indifferenti alla questione se il governo cinese rispetti le libertà fondamentali?
Il 25 gennaio 1904, alla Royal Geographic Society, Sir Halford John Mackinder tenne una conferenza memorabile, dal titolo The Geographical Pivot of History. Mackinder non era un qualunque conferenziere postprandiale: dal 1887 aveva insegnato geografia a Oxford e dal 1903 dirigeva la London School of Economics and Political Science. Egli aveva presentato un dato geo-politico e introdotto una specie di profezia per il futuro. Il dato appariva inoppugnabile perché corrisponde alla realtà storica: chi riesca a controllare la parte settentrionale e interna dell’Eurasia – ecco l’Heartland – avrebbe buone probabilità di controllare il mondo. La profezia è interessante: MacKinder ipotizza che proprio i cinesi potrebbero riuscire meglio di qualunque altro in questa specie di Conquest; e non adopera mezzi termini quando conclude che «essi potrebbero costituire il pericolo giallo per la libertà del mondo, proprio perché aggiungerebbero un fronte oceanico alle risorse del grande continente».
Avrà ragione MacKinder? O avranno ragione i molti amici della Cina in Occidente e fautori della Via della Seta? Certo, dai tempi di Mackinder, sono passati cent’anni e due disastrose guerre mondiali. Il contesto è profondamente mutato e può ben essere che la Cina non cerchi la conquista (commerciale) dell’Europa ma la cooperazione con essa e la sua amicizia. Ecco perché l’opinione pubblica europea ne dovrebbe sapere di più prima di abbandonarsi all’ottimismo che, da noi, nutrono individui e movimenti politici, spesso in conflitto d’interessi o, comunque, non disinteressati. Qualcuno dovrà trovare il coraggio di indagare e informare: se malauguratamente l’ottimismo cedesse anche solo all’incertezza, l’Europa troverebbe – dovrebbe trovare – di colpo una ragione, anzi una necessità, fortissima di unione. Per questo dobbiamo sapere.
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