Recentemente Carlo Galli ha qui introdotto la critica al linguaggio politicamente corretto, sulla scia di quel che è cominciato a farsi in America dopo la nuova iconoclastia seguita all’uccisione di George Floyd a Minneapolis. È una critica dovuta e fa piacere che ora sia fatta propria, e irrobustita, da intellettuali di varia ideologia e di prim’ordine. Concordo con Galli e aggiungo qui solo qualche notazione storico-giuridica. Ecco, allo storico del diritto dovrebbe risultare di immediata evidenza che i paladini dell’ideologicamente corretto hanno una bella pretesa: quella di riavvolgere il nastro della storia, cioè di farci tornare indietro. Certo oggi ci si limita ad abbattere qualche statua di qualche ‘scorretto’, magari vissuto oltre cinquecento anni fa (come Cristoforo Colombo) e a resecarne la testa; mentre ai tempi della Riforma protestante gli eretici venivano bruciati, talora a decine, e poi squartati a monito pubblico. Ma i facitori di questa correttezza sistemica dell’età dei diritti non sono gli iconoclasti che scendono nelle piazze violentando certi simboli, reali o, più spesso, avvertiti (da loro) come tali. I sacerdoti del politicamente corretto se ne stanno ad ispirare, e a guidare, la gente di fuori dal dentro delle università o delle redazioni di giornali e riviste o (meno) delle aule parlamentari o consiliari. Operando con l’autorevolezza che deriva dal monopolio o, almeno, dalla preponderanza nella cultura accademica e nel sistema mass-mediatico, essi sono riusciti a tracciare nuovi confini a delimitazione dello spazio pubblico di discussione nei quali sono bandite, o combattute quasi fossero il male assoluto dei nostri tempi, tutte le idee che osino separare e distinguere perché ciò implicherebbe l’intollerabile, cioè la discriminazione in ogni caso: qualche responsabilità a riguardo ce l’ha anche uno come Habermas che, nel segnare il perimetro dell’etica del discorso, additava come premessa la liberazione dai «pregiudizi del mitteleuropeo di oggi, bianco, maschio, borghesemente educato». Ci siamo liberati da questi pregiudizi, giusto; ma ne abbiamo introdotti altri nei quali sta, e si articola incessantemente, il linguaggio politicamente corretto che, poi, non è solo bon ton espressivo ma veicolo di esclusione, spesso irragionevole, talora anche ridicolo, però tendenzialmente cogente, normativo. Abilmente il pensiero unico si è gradualmente introdotto nelle scuole e ne ha occupato i programmi, cioè i contenuti trasmessi ai ragazzi: una specie di rivoluzione culturale condotta in silenzio, senza effettivi controlli o riscontri democratici e senza reali proteste da parte di docenti o genitori.
Così oggi abbiamo timore, almeno in certi ambiti di discussione, di dire quel che pensiamo perché non vogliamo esser tacciati di scorrettezza o disumanità o fascismo o peggio: anche se si voglia solo manifestare pacificamente un punto di vista che diverge dal pensiero unico conformato dai diritti e dai nuovi diritti, più da questi ultimi che da quelli tradizionali, di prima generazione. La cogenza, meglio la forza, del nuovo pensiero unico è singolare e lo distingue da quello un tempo brutalmente imposto da sovrani assoluti e da papi inquisitori: non c’è un braccio levato con la spada a minacciare o a mozzare; esso si impone pacificamente alle coscienze di chi vuol sentirsi altruista e misericordioso e di chi è più banalmente conformista anche per convenienza. Ma vi è anche chi dissente e, tuttavia, trova sempre meno spazio per manifestare il dissenso, specie quando volesse entrare nello spazio pubblico accademico o mass-mediatico di punta. Il nuovo pensiero unico è così diventato il pensiero ufficiale e istituzionale, da accettare o, almeno, da non criticare, specie se si nutrano certe ambizioni. Ci aveva avvertito ancora nel 1996, proprio da un’università americana (New York University), il fisico Alan Sokal: sottoponeva un articolo alla rivista accademica Social Text, ideologicamente orientata verso la sinistra femminista e vi inseriva a bella posta non poche zeppe, infarcite però da espressioni mutuate dal linguaggio politicamente corretto. Così vi si rinvenivano trentacinque occorrenze del termine ‘femminista’ e altre espressioni tipo ‘eguaglianza sociale’, ‘parità dei diritti’ o, anche, ‘fisica mascolina per la virilità di oggetti solidi e rigidi’. L’articolo fu prontamente pubblicato e Sokal svelò immediatamente che si era trattato di un esperimento per testare come l’accesso alle riviste e, dunque, il dibattito accademico fosse condizionato dai presupposti ideologici dei curatori. Ecco come ci siamo liberati dei ‘pregiudizi’ additati da Habermas e abbiamo finito, nell’operazione di pulizia, con l’introdurne altri, come scudo contro i primi, figli di un Occidente e, in particolare, di un’Europa che talora appare soffocata da sensi di colpa (travolgendo anche noi italiani che di colpe ne abbiamo molte di meno dei nostri parters in UE).
Avremmo dovuto, però, prestare attenzione alle pagine di Verità e politica di Hannah Arendt: un memento per le nostre democrazie, sempre meno trasparenti, sempre più politicamente corrette e, però, anche sempre meno oppositive, agonistiche. Arendt ci invita innanzi tutto a recuperare la nostra migliore identità: un’identità antica se già Omero «scelse di cantare le imprese dei troiani non meno di quelle degli achei». Poi, continua Arendt, è essenziale che, nello spazio pubblico di discussione, non si neghi mai, per ideologia, conformismo, calcolo o altro, la verità di fatto. Infine, perché ci sia veramente uno spazio pubblico aperto, occorre che università e magistratura adempiano alla loro funzione, di custodia dell’oggettività e della verità: il gran merito dell’Occidente è di aver conformato queste due istituzioni proprio per garantire che vi sia effettiva libertà di confronto tra le varie opinioni in campo.
Quando nel 1648 a Westfalia si decise – dopo gli orrori delle persecuzioni religiose e le guerre di religione – che fosse consentito il dissenso religioso rispetto alla fede ufficialmente professata in un certo territorio, incominciò un’epoca radicalmente nuova e venne stabilito un principio poi reso magnificamente, un ventennio dopo, da Locke: «le opinioni puramente speculative […] godono di un diritto alla tolleranza assoluto e universale». Ecco che, a modo loro, i sacerdoti del politicamente corretto, nei quali è spesso evidente un atteggiamento fideistico, vorrebbero riavvolgere il nastro della storia. Ma essi sono tentati di andare oltre, per rendere sicura la conquista dei nuovi confini: da qui la ricerca che muove dalle università e vorrebbe approdare nelle aule dei tribunali, mirando ad ottenere leggi e sentenze che sanciscano la cogenza giuridica dell’area dell’indecidibile perché nessuno modifichi il perimetro del dibattito pubblico come tracciato dal pensiero accademico dominante (a partire proprio dagli USA). È una ricerca che non è proprio di questi ultimi decenni e se ne trova riscontro in una sentenza famosa della Corte Suprema: un caso che ancor oggi è presentato alla riflessione nel portale del Cato Institute. Nel febbraio 1946 il prete cattolico, Arthur Terminiello, tenne un discorso pubblico in un auditorium di Chicago attaccando ebrei, comunisti, il presidente Roosevelt e la moglie di lui, Eleanor. All’esterno ne nacque un grave tafferuglio ad opera della folla che protestava contro Terminiello. Il prete fu poi accusato di aver provocato a bella posta i disordini, anche apostrofando gli avversari quali «viscida feccia»; e fu condannato in base a un’ordinanza locale, in quanto il linguaggio da lui adoperato era scorretto e responsabile della rabbia manifestata dal pubblico all’esterno e, dunque, di aver causato una rottura nella «pace sociale». Ma nel 1949 la Corte suprema opinava diversamente sulla scia della tradizione lockeana: solo le parole di guerra debbono essere bandite, mentre la libera discussione è sempre da promuovere per la vitalità delle istituzioni democratiche, sebbene i termini adoperati possano essere scorretti o provocare reazioni violente: «perché l’alternativa porterebbe alla standardizzazione delle idee da parte di legislatori, tribunali o gruppi politici o di comunità dominanti». Così il giudice William O. Douglas, le cui parole hanno oggi la valenza di una profezia. Terminiello era senz’altro filo-fascista; ma il principio enunciato sembra dotato del carattere dell’universalità, a prescindere dall’ideologia professata. Dobbiamo difenderlo, penso.
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