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Esplode il debito in Libano
Le immagini impressionanti della deflagrazione a Beirut hanno fatto il giro del mondo ed hanno dilagato sui social, riportando l’attenzione sul piccolo paese mediorientale che vive da mesi una ebollizione sociale assolutamente rilevante. La catastrofe è orribile non solo per i morti ed i feriti, ma per i problemi che si prefigurano nella distruzione di buona parte della città, lasciando centinaia di migliaia di persone senza casa e saturando rapidamente le strutture sanitarie. Nessuno definirebbe il Libano uno stato ricco, ma pochi sanno che – confermando tristemente il proverbio secondo il quale «piove sul bagnato» – il paese attraversa una gravissima crisi economica, i cui risvolti economici e sociali hanno dato l’avvio ai più grandi movimenti di piazza che abbia visto il «paese dei cedri» in anni recenti. Occorre ricostruire il contesto per capire le possibile conseguenze di tale disastro e del caos politico che comportano le dimissioni dell’intero governo, rassegnate il 10 agosto.
Sono lontani i giorni del boom economico che portò il paese negli anni Cinquanta e Sessanta ad essere uno dei più alfabetizzati nel mondo arabo. Dopo la fine della guerra civile (1975-90) è emerso un paese rigidamente definito dalle segmentazione etnico-confessionale (sunniti, sciiti, drusi, cristiani…) sul piano politico, che vede una economia orientata alla priorità di servizi, banche, turismo e settore immobiliare, con agricoltura e manifatturiero estremamente deboli. Tale modello è entrato in crisi negli ultimi dieci anni, tanto per il panorama economico internazionale che per la guerra in Siria: in un paese di poco più di 6 milioni di abitanti il numero di rifugiati siriani è di oltre un milione, con comprensibili problemi di impatto sulle risorse disponibili; né mancano ricerche piuttosto serie che analizzano come tale afflusso abbia determinato un deterioramento del mercato del lavoro con una offerta di manodopera disposta a lavorare a salari più bassi, soprattutto in agricoltura e nel settore delle costruzioni.
Se il PIL da una crescita di oltre il 10% di dieci anni fa è crollato vicino allo zero, il paese deve importare massicciamente dall’estero: il saldo fra esportazioni e import non solo è negativo da molti anni, ma supera il 25% del Pil, mentre il deficit del bilancio statale (saldo entrate e uscite) si attesta su dieci punti:
(Nella prima riga il PIL in % di crescita, nella seconda il saldo entrate/uscite in% del PIL ;dati FMI, Outlook 2019)
In un contesto così deteriorato, se c’è poco da stupirsi della impennata della disoccupazione balzata oltre il 40%, si deve valutare anche i risvolti in merito ai servizi pubblici; il Libano si piazza in fondo alla graduatoria mondiale per la fornitura di elettricità (quart’ultimo, 134° su 137 paesi!), collocazione plasticamente confermata da reportage che testimoniano ore ed ore di black-out giornaliero, spengendo i semafori e lasciando gli ospedali a secco, obbligando a ritardare interventi chirurgici se non a chiudere interi settori delle strutture.
Tale situazione ha spinto la comunità internazionale ad agire, nelle modalità tristemente note: ad aprile 2018 si è tenuta a Parigi una conferenza denominata CEDRE (acronimo di Conférence économique pour le développement, par les réformes et avec les entreprises, Conferenza Economica per lo Sviluppo, le Riforme e con le Imprese) in cui gli Stati partecipanti hanno promesso 11 mld di dollari di aiuti, un misto di prestiti (molti) e finanziamenti a fondo perduto (pochetti; non ricorda qualcosa?) come contropartita delle famose riforme. Il Libano da parte sua ha presentato un ambizioso piano pomposamente denominato Capital Investment Program, tutto basato sulla costruzione di infrastrutture (trasporti, elettricità, telecomunicazioni) con la solita formula della partnership pubblico-privato. Ed infatti ad ottobre dell’anno precedente il Parlamento aveva approvato la Legge n 48/2017, “Regulating Public Private Partnerships” per rendere più appetibile l’ingresso di investimenti privati, rendendo alle aziende estere più facile il ricorso all’arbitrato internazionale (cioè il ricorso a tribunali privati per dirimere controversie fra Stati e investitori).
L’oligarchia al potere aveva deciso di imprimere una svolta sostanziale negli anni Novanta, con l’acme della dollarizzazione della moneta, fissata a partire dal 1997 con cambo fisso rispetto alla valuta statunitense e rispettata con una rigidità molto superiore ad altri paesi.
L’aggancio ad una valuta forte è il biglietto da visita dell’inserimento dell’economia nazionale nel contesto finanziario globale, favorendo i capitali esteri che possono lucrare sui tassi di interesse senza timori di svalutazioni e ben accolta dai capitali domestici (per poter prendere a prestito a tassi che non incorporino il rischio-cambio). Ciò ha danneggiato i settori produttivi del paese portandolo al mostruoso deficit commerciale già menzionato, come accade ai paesi periferici che si agganciano a valute più forti senza adeguati strumenti di compensazione (si pensi alla periferia dell’eurozona). Ma ha permesso uno sviluppo abnorme dei servizi bancari: 142 istituti, secondo la Commissione governativa, con attività finanziarie pari a quattro volte il Pil dell’intero paese. Per nutrire tale livello di effervescenza la Banca Centrale ha lottato con le unghie e coi denti per tenere il cambio fisso della lira libanese col dollaro stabilito nel 1997, col brillante risultato di bruciare gran parte delle riserve di valuta estera ; queste vengono normalmente usate per mantenere alto il valore della propria moneta : in un contesto in cui le varie valute fluttuano liberamente fra loro, come tappi di sughero nel mare, viene considerato conveniente agganciarsi a qualche natante più pesante per avere un po’ di stabilità. Il problema è che quando esso si sposta, per rimanere agganciati occorre seguire il suo movimento; fuor di metafora, si deve comprare la propria moneta con la valuta estera per aumentarne il valore. Ufficialmente a fine 2019 la Banca del Libano possiede 31,5 mld $, ma alcuni analisi calcolano che la quantità reale sia assai minore se non nulla.
Tale politica ha garantito altissimi livelli di remunerazione del capitale grazie… ai nuovi depositi. Diversi analisi parlano di un vero a proprio «schema Ponzi»: molti libanesi espatriati inviano soldi a casa ; le banche usano tale valuta estera per comprare titoli di Stato a tassi altissimi, concessi dalla Banca del Libano. Un sistema che restava in piedi grazie ai depositi esteri (non solo le rimesse degli emigrati, ma anche da ricchi stranieri attratti da condizioni molto favorevoli). Con la guerra in Siria e una minor dinamica della finanza internazionale il sistema ha iniziato a vacillare, sboccando in un debito pubblico alto (152% sul pil, ma altre stime sono più alte di anche venti punti!) e nell’annuncio per bocca del Primo Ministro il 9 marzo che il Libano non riuscirà a pagare la obbligazione in scadenza di 1,2 mld di dollari.
Il castello di carte libanese alla fine è crollato; il cambio col dollaro è slegato dalla realtà, e la massiccia inflazione ha portato al proliferare nel paese di gruppi social che praticano il baratto. Il tentativo di ridurre il deficit pubblico rastrellando soldi con nuove tasse (una politica « alla greca » per far contenti i prestatori internazionali) ha alla fine portato a far sboccare lo scontento in mobilitazioni di piazza il 17 ottobre 2019, dette « rivoluzione di ottobre », dapprima diretta contro le nuove imposte su tabacco, carburante e piattaforme social come whatsApp (il Libano incassa quasi tutto su imposte indirette, in spregio ad ogni proporzionalità ed equità fiscale) ma che rapidamente ha assunto un carattere di critica dell’intera oligarchia del paese – che ci ricordano i toni delle sollevazioni argentine del 2001, nonché delle Primavere Arabe. I manifestanti sono scesi in piazza per settimane intere, e dopo l’esplosione del 4 agosto sono riusciti ad ottenere le dimissioni dell’intero governo.
I dimostranti hanno ragione; non solo perché le classi meno abbienti si sono viste vaporizzare risparmi e redditi, a favore di uno Stato che non sa più come fornire i servizi di base, ma perché uno studio di qualche anno fa mostra plasticamente come le maggiori cordate politiche sono direttamente implicate come dirigenti o azionisti delle maggiori banche del paese:
Risulta evidente come l’oligarchia politico-bancaria abbia spremuto il paese indebitandolo per arricchirsi; al punto in cui è il paese degli aiuti internazionali saranno necessari, tanto per tamponare l’emergenza (per il porto di Beirut, distrutto dall’esplosione, passava il 60% degli scambi commerciali e l’85% dei cereali importati) che per riavviare l’economia, ma sarà inesorabile il tentativo dell’élite al comando di strumentalizzarli per tacitare l’opposizione popolare e non mollare il potere. Il paese dei cedri naviga in bruttissime acque ma gli umori popolari paiono più inclini alla collera che alla rassegnazione e non è escluso che le caste dominanti locali perdano la capacità di controllare la situazione e il tentativo di far pagare il conto dei loro errori alla già esausta popolazione incontri accanita resistenza. Insomma i libanesi si batteranno, ma dirigendosi verso solo il tempo sa quale scenario.
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