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L’alternanza che non c’è


22 Ago , 2020|
| Visioni

  Non intendo dire qui né bene né male del Movimento Cinque Stelle o di Luca Zaia. Entrambi hanno però assunto (i Cinque Stelle qualche giorno fa) condotte irrispettose di un principio essenziale del modello repubblicano. Più grave, se si vuole, la scelta del potente presidente (non governatore, per piacere) del Veneto; meno quella dei Pentastellati perché essa è operativa a livello di normazione interna, cioè privatistica (mentre Zaia, vedremo, si è aggiustato la legge regionale per potersi candidare una terza volta). Ma non anticipiamo troppo in quanto per valutare adeguatamente dobbiamo ricordarci due o tre cose.

 La repubblica come forma di stato e di governo è sorta per introdurre, garantire, rendere effettiva l’alternanza degli uomini al potere: ecco la durata in carica temporalmente limitata e le elezioni a cadenza regolare. L’archetipo è la res publica di Roma antica, che non a caso occupa (quasi) tutto il quarto libro del Contratto di Rousseau. I consoli dovevano essere eletti annualmente perché si voleva scongiurare il pericolo che questi uomini di vertice non si insuperbissero eccessivamente e finissero con il considerare il potere pubblico come una cosa propria. Ma a questo scopo – essenziale per evitare la corruzione della res publica – le elezioni non sarebbero state sufficienti. I consoli, se organizzati e potenti, si sarebbero potuti far rieleggere per anni, così creando e irrobustendo (e, anche, subendo) le reti corporative dei loro sostenitori e consiglieri. L’esperienza suggerì allora ai romani di introdurre per legge un limite alla possibilità (altrimenti illimitata) di iterazione del mandato. Così ai consoli fu interdetto di ricandidarsi se non a distanza di un decennio.

 Quindi, didascalicamente, potremmo concludere che il principio di alternanza postula logicamente (non per omaggio a Roma …) non solo un limite temporale (meglio, se breve) alla durata in carica, ma anche un limite nell’iterazione del mandato. Diversamente (come si è detto per i consoli romani) un’autentica alternanza non potrà esservi perché gli uomini al potere – e le loro reti – potrebbero continuare ad occupare la carica per anni e così dominare. Questa progressione è stata colta dai redattori degli statuti dei liberi comuni medievali e, poi, di alcune costituzioni moderne (come, ad esempio, la costituzione degli USA o della Repubblica romana del 1849). Non è, invece, stata colta dai padri costituenti della costituzione della Repubblica italiana ove ci si arresta al limite numero 1; mentre il limite numero 2 non è stato introdotto nemmeno in confronto del presidente della Repubblica, la cui durata in carica – sette anni – appare essa stessa incongrua rispetto a quanto generalmente previsto nei sistemi democratici.

 All’introduzione del limite numero 2 avevano lodevolmente pensato i pentastellati, prima con un progetto di legge di iniziativa popolare (ovviamente lasciato cadere dal parlamento di allora); poi indicando il divieto del terzo mandato tra i venti punti «per uscire dal buio» inseriti nel loro programma elettorale. Si accendeva così una speranza per chi crede nella validità del modello repubblicano e delle sue essenze. Ma i Cinque Stelle facevano di più: con apprezzabile congruenza, essi coltivavano il limite numero 2 e rendevano immediatamente operativa a livello interno – cioè imponendola ai propri esponenti politici – la regola di divieto del terzo mandato. Giunti in parlamento si dimenticavano, però, del loro progetto di legge e del loro programma elettorale. Nei fatti si consumava così una prima contraddizione. É poi di questi giorni una seconda, più vistosa, contraddizione. Con una giravolta di 360 gradi, i dirigenti del Movimento hanno proposto agli iscritti alla piattaforma Rousseau di eliminare la regola interna di divieto di iterazione del terzo mandato. Gli iscritti hanno votato e approvato la proposta. Nulla da eccepire: liberi di darsi le regole interne che preferiscono. Ma questa torsione non può non dispiacere a chi aveva sperato. Con questa scelta si è abbandonato un progetto mai coltivato in Italia: se fosse stato tradotto in legge, magari costituzionale, la nostra Repubblica sarebbe divenuta di colpo più repubblicana e sarebbe cambiata anche la condotta dei nostri politici. Così ci si è liberati di un pilastro della tradizione repubblicana che trova uno dei suoi campioni proprio in quel Rousseau a cui è (impropriamente) intitolata la nota piattaforma; e ciò è avvenuto non per una riflessione politica ponderata e argomentata, ma solo per consentire la ricandidatura di Virginia Raggi.  

 Diverso – ma fino a un certo punto – è stato l’agire di Luca Zaia. La legge regionale 5 del 2012 prevedeva – e prevede – il divieto del terzo mandato per il presidente della Regione (art. 6). Zaia è dal 2005 ai vertici della Regione Veneto, prima come vicepresidente (di Giancarlo Galan), poi, dal 2010 ad oggi, come presidente. É naturale che anche lui – come tutti o quasi i politici nostrani – non ami il limite numero 2 del principio di alternanza. Che ha allora fatto? Ha introdotto una specie di disposizione transitoria – art. 27 – con la quale si stabilisce che il divieto del terzo mandato per il presidente della Regione si applica (solo) «con riferimento ai mandati successivi alle elezioni effettuate dopo la entrata in vigore della presente legge». Conseguenza: il quinquennio di presidenza 2010-2015 non si computa, è tamquam non esset: e così, con questa specie di gioco di prestigio, via al terzo mandato di Luca Zaia.

 È certo che i Cinque Stelle e Zaia non si amano. Ora si può però sostenere che la pensino allo stesso modo circa l’alternanza ai vertici delle istituzioni pubbliche della Repubblica: nulla di strano, però, perché questo è il pensiero anche dei padri costituenti e così è la tradizione della Repubblica italiana. Ma è evidente la distonia rispetto al modello repubblicano trasmessoci attraverso 2500 anni di pensiero ed esperienze costituzionali di alto livello. Recentemente Zaia ha aggiunto un’altra deviazione, consegnandola a una modifica dello Statuto, approvata il 4 febbraio 2020: per essa il presidente sceglierà i suoi 10 assessori come vorrà, ma non tra i consiglieri regionali (cioè tra gli eletti, come usa dire Zaia, dal ‘popolo veneto’). Se si considera che egli dovrebbe disporre, stando alle previsioni, della larga maggioranza di questi consiglieri, è nei fatti che la modifica statutaria rafforzerà il suo potere di controllo dei lavori consiliari proprio perché, dovendo gli assessori essere esterni, i suoi consiglieri presidieranno più efficacemente il consiglio.

 Sono tutti segnali preoccupanti che, però, facilmente possono sfuggire ai cittadini. Senza evocare ridicolmente i soliti fantasmi, vi è invece da segnalare che la nostra Repubblica, anche nelle sue conclamate, talora esaltate, autonomie, allontana sempre più la sovranità dal popolo. È come se il Paese fosse spartito ai vari livelli, cioè in sede centrale e locale, tra varie associazioni di potere: tanti potentati, piccoli e meno piccoli, un ritorno al passato, a ben vedere, perché così era strutturata l’Italia prima di essere unificata nell’Ottocento. Il pericolo è proprio questo: la disarticolazione dello Stato e la sua appropriazione da parte di gruppi, di orientamenti anche molto diversi, tuttavia concordi nella spartizione, ognuno teso alla cura dei propri interessi corporativi in singoli territori o, anche, in singoli settori della pubblica amministrazione. Qualcuno tra i costituzionalisti dovrebbe spiegarlo ai cittadini. O forse la scelta è (in cambio di qualche offa) piuttosto quella di razionalizzare, richiamandosi a sommi, e poco significanti, principi, la decostruzione della Repubblica italiana? È, questa, una storia già vista in passato nei rapporti tra giuristi e potere: anche quest’anno la ricorderò alle mie matricole di giurisprudenza. 

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