Più che al tempo sospeso COVID 19 ci ha consegnato al tempo incerto: se sappiamo che non sarà bello, non siamo, però, in grado di prevedere che cosa troveremo, un acquazzone, una tempesta o un tornado. Di questo virus abbiamo ora afferrato che nessuno ne capiva veramente qualcosa quando si è presentato alle porte di un Occidente, non si sa se più presuntuoso o incredulo; e continuiamo a saperne troppo poco. Eppure siamo chiamati a decidere ai vari livelli, da quello individuale a quelli della collettività organizzata. Certo tutto è condizionato dal grado di pericolosità che annettiamo al virus che con noi convive. Chi lo minimizza avrà le sue ragioni: sarà così indotto dall’atteggiamento coltivato di fronte a certe vicende della vita; ma, considerato quanto accaduto o accade in tutto il mondo, ciò può dipendere anche da una falsa rappresentazione della realtà (cioè da un errore) oppure dalla volontà, non dichiarata, di agire per modificare, per quanto artificiosamente, questa realtà al fine di perseguire uno scopo ‘inconfessabile’. In questo caso ci troveremmo di fronte a una menzogna diretta a negare la verità di fatto: non hanno forse agito così politici di vertice, vip, imprenditori e comuni mortali? Non sarebbe stato male che l’UE avesse battuto un colpo e avesse provato – ma non sembra avervi neanche pensato – a promuovere una politica europea, cioè unitaria, della pandemia.
Molti si sarebbero aspettati che la scienza indicasse una linea di condotta diritta. Ma paradossalmente gli scienziati ci hanno reso ancor più incerti e anche angosciati circa il futuro. Certo la scienza non sempre è in grado di darci le certezze che desidereremmo; e non occorreva che arrivasse Popper a ricordacelo. Però, da noi è accaduto che questo tempo incerto abbia offerto una ribalta inattesa a molti fra i nostri scienziati altrimenti destinati all’oscuro anonimato. Così il grande pubblico ha avuto l’occasione di percepire i vizi degli accademici italiani: vanità, brama di protagonismo, desiderio di prevalere sul caro collega in antica rivalità. La credibilità verso la scienza ne è stata scossa e compromessa l’indipendenza degli scienziati. Per l’ignaro decisore il governo dell’incertezza si è così fatto più impegnativo ed egli si è sentito più solo. Qualche decisore politico ha anche cambiato in corsa il proprio consulente di riferimento, talora perché il parere tecnico urtava contro la scelta politica; e al consulente indipendente si è allora preferito quello accondiscendente.
Se più di uno scienziato si è preso la scena per conquistare notorietà e prestigio, i politici hanno generalmente fatto di peggio, strumentalizzando COVID 19 a fini elettorali. Il Governo si è condotto come sappiamo, piuttosto inseguendo il virus che provando a prevenirlo. I primi provvedimenti sono giunti in ritardo; poi, si è cercato di recuperare imponendo un lungo, e non ingiustificato, lockdown. L’opposizione è andata in direzione inversa: aveva invocato tempestivamente l’adozione di varie cautele; poi, ha più che altro criticato il Governo in ordine ai vari provvedimenti di chiusura e questa critica si è fatta progressivamente più radicale.
Questo gioco tra Governo, maggioranza e opposizione ha trovato nella scuola il suo campo preferito. Agli inizi del lockdown la didattica a distanza (DAD) era stata oggetto di apprezzamento; e le università facevano a gara nel rivendicare primati di vario genere nella sua introduzione diffusa. Ma dopo un po’ spuntavano alcuni movimenti di genitori che denunciavano pubblicamente la dannosità della DAD per i loro figli e gli studenti in generale; e invocavano la ripresa delle lezioni in presenza già a maggio. Il Governo non retrocedeva, ma imponeva l’esame di maturità in presenza, avvertendolo quale specie di sperimentazione in vista dell’annunciata ripresa di settembre. Si cominciava a pensare, da una parte e dell’altra, che la valutazione negativa della DAD fosse massiva e che presso di essa si annidasse una corrispondente massa di voti. Da qui un rincorrersi reciproco tra Governo e opposizione, cavalcando la tigre del virus e inseguendo i (presunti) umori dei cittadini in vista dello spettro o miraggio delle elezioni di settembre. Qual fosse l’interesse comune, o il maggior interesse comune, interessava poco o niente: all’incertezza si aggiungeva la confusione e la scuola ne subiva le conseguenze più evidenti.
Gli interrogativi si affollano. Primo interrogativo: perché il Governo, e il Ministro Azzolina, si sono ostinati a voler consegnare alle famiglie italiane una scuola ‘in sicurezza’ dalle elementari alle superiori, quando essa è da tempo in condizioni precarie, molto precarie, a cominciare dalle sue strutture fondamentali? Da qui tutto il bailamme di misure e dispositivi prima invocati, poi difesi, poi contestati, poi ritirati: un’insostenibile incertezza e confusione perché si è come provato a quadrare il cerchio. Secondo, e conseguente, interrogativo: se i limiti organizzativi – e non solo dell’amministrazione scolastica – sono noti, perché il Governo non ha cercato soluzioni mediane con cui far fronte più realisticamente a una più contenuta domanda di didattica in presenza alleggerendo i rischi per tutti? Per esempio, in Danimarca si è mantenuta la didattica in presenza per i più piccoli e si è introdotta la DAD per gli studenti più grandi, così recuperando spazi per il distanziamento e non aggravando eccessivamente il sistema dei trasporti. Se il Governo non lo ha fatto, condizionato anche da un’opposizione robustamente aperturista, le ragioni appaiono essere principalmente due: il già ricordato calcolo elettorale; e le pressioni – penso fortissime – di tutti quegli operatori economici che traggono profitto dal regolare funzionamento dell’attività scolastica.
Qui si tocca il focus di tutta la vicenda. In questo tempo incerto confliggono i diritti che ognuno ha in dotazione; e confliggiamo tra noi che possiamo aver interesse alla prevalenza di un nostro diritto sul (diverso) diritto altrui. Una situazione spiacevole ma resa frequente, e drammatica, da COVID 19. Abbiamo però i criteri per sciogliere il dilemma; e non dovremmo far finta che non esistessero. Il primo sta nella gerarchia di valori consegnataci dalla Costituzione. Insegnamo, e ci hanno insegnato, che il diritto alla salute vien prima di ogni altro; e la storia ce lo conferma perché è un derivato immediato e diretto del diritto alla vita e all’integrità fisica. Nella Costituzione sta anche scritto – all’art. 41 – che mai l’attività d’impresa, qualunque essa sia, potrà svolgersi «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza». Può piacere o non piacere; ma la disposizione è vincolante per tutti. E allora come la mettiamo con le incaute aperture di discoteche, bar con annessa movida, spiagge libere, e non, di incontrollato affollamento ecc.? O in questo tempo incerto anche la Costituzione è divenuta incerta; oppure l’aperturismo che gli operatori economici hanno finito con l’imporre ai decisori politici a caccia di consenso si è risolto in un’attività antigiuridica, con tutte le conseguenze previste dalla legge. Ma il conflitto si è posto anche con il diritto allo studio; e qui l’incertezza è lievitata. Ma si può sostenere che esso abbia la stessa considerazione e protezione costituzionale del diritto alla salute? Difficile, almeno a stare alla lettera della Costituzione: il confronto tra gli artt. 32, da una parte, e 33-34, dall’altra, ci consegna la prevalenza del diritto alla salute. Per questo i movimentisti della scuola in presenza si sono impegnati nel presentare la DAD quasi come il male assoluto, dimenticando che grazie ad essa si è potuta assicurare la continuità didattica durante il lockdown. Ma il punto debole dell’attacco alla DAD sta principalmente nella sottovalutazione della situazione emergenziale: solo prescindendone si può escludere il ricorso alla DAD; diversamente si argomenta in astratto, tra l’altro con tratto di forte passionalità e, forse, anche condizionati da interessi particolari quali sono anche quelli dei genitori, siano questi interessi legati al lavoro o ad altro. Però, i critici della DAD sono andati abilmente oltre quando hanno cominciato a sostenere che essa avrebbe causato non solo l’impoverimento culturale di tutta una generazione, tra l’altro dissociata in conseguenza della virtualità dell’esperienza scolastica; ma anche danni alla psiche dei ragazzi, particolarmente dei più piccoli. Con ciò si introduceva una novazione nei termini del confronto: non più diritto allo studio versus diritto alla salute ma diritto alla salute (dei ragazzi) versus diritto alla salute (dei loro familiari e, in genere, della comunità). Paradossalmente il conflitto tra diritti si presentava così come conflitto generazionale o tra individuo e collettività. In astratto un enigma da risolvere; in concreto vi è da tener presente che le persone cosiddette fragili rischiano la vita, come dimostrano i 36.000 decessi registrati in Italia.
In questo contesto emergenziale più di una perplessità suscita l’essersi intestarditi nel perseguire una e una sola soluzione, il rientro a scuola tutti insieme il 14 settembre, annettendo a tale data un valore fortemente simbolico, l’inizio della generale ripresa del Paese, come ha annunciato il Ministro Paola De Micheli. A parte il desiderio di suggestionare l’immaginario collettivo, ci si dovrebbe porre, se l’obiettivo primario sia la ‘sicurezza’, qualche domanda, ma in termini non generici, bensì puntuali e stringenti. Per esempio, in quali aule? In quanti studenti per classe? Con quanti e quali docenti? Con quali efficaci misure di sicurezza? Con quale sistema di trasporti pubblici? E, soprattutto, con quale sistema sanitario a supporto di studenti, docenti e loro famiglie? Sono domande che ci costringono ancora una volta nella più angosciosa incertezza. Una sicumera e una supponenza incresciose hanno accomunato Governo, Ministro, Ministri e anche opposizione. A ciò si aggiunge l’astensione degli organi di informazione da censure e critiche, almeno con l’intensità e la misura che sarebbero state necessarie. L’opinione pubblica, dal canto suo, ha subito in condizioni di preoccupante apatia.
Eppure la Costituzione avrebbe dovuto guidare i decisori politici. E altri, noti criteri di bilanciamento si sarebbero dovuti mettere in campo: il principio di precauzione (nel dubbio circa l’insorgenza di un danno irreparabile, ci si astenga dall’agire); il principio di proporzionalità (se non ci si possa astenere, si opti per l’azione che cagioni il minor danno possibile); il principio di razionalità (ogni scelta deve essere, in contesto di pericolo, ottimamente argomentata). Questi principi avrebbero costretto i decisori politici a trovare soluzioni intermedie per la ripresa della scuola, tenuto conto delle tante, ataviche criticità di questo settore. Ci saremmo risparmiati ridicolaggini e spese inutili; e avremmo perseguito in concreto la ‘sicurezza’. Ma poi, se la ripresa così messa su, non funzionasse? Non rimarrà che ancorarsi alla DAD che, chissà perché, abbiamo escluso di considerare e organizzare adeguatamente: ci troveremmo nuovamente scoperti e questa volta inspiegabilmente.
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